Alienazione: quando la mafia non è mai ‘cosa nostra’

Per il secondo appuntamento della rubrica che indaga i Sei peccati capitali che caratterizzano la lotta alle mafie si è deciso di affrontare l’elemento dell’alienazione o esternalizzazione, ovvero quella pratica nefasta che ci porta a ritenere un determinato problema come qualcosa di lontano da noi, da cui poterci sentire al sicuro poiché interessa realtà diverse e distanti dalla nostra.

Questo tipo di comportamento, spesso dettato da un letale mix tra ignoranza, paura dell’altro e senso di superiorità interna, risulta ancora oggi molto diffusa e non è purtroppo da considerarsi prerogativa specifica dell’azione di (non) contrasto alla criminalità organizzata.

Basti guardare alla gestione del recente Covid-19: per settimane abbiamo tergiversato sulla questione, minimizzando o addirittura scherzando della situazione cinese, certi che il virus non potesse raggiungere le nostre case. Oggi che ne siamo diventati il secondo paese più colpito al mondo, riconosciamo l’errore di non esserci mossi con anticipo e rimpiangiamo di non aver sviluppato per tempo una strategia comune. Eppure a livello europeo e mondiale altre nazioni stanno compiendo il medesimo sbaglio, ed è solo questione di tempo prima che si ritrovino a pentirsene, proprio come abbiamo fatto noi italiani.

L’esternalizzazione ai tempi del Covid-19: il virus non è cosa nostra, di noi veneti che siamo sempre puliti e profumati, bensì della comunità cinese famosa per i propri gusti culinari a base di topi vivi.

Un altro triste esempio di alienazione o esternalizzazione dei problemi è costituito dal terrorismo. Per anni, prima dell’11 settembre e dell’attentato che ha cambiato il nostro modo di vedere il mondo, anche il fenomeno terroristico ha dovuto fare i conti con una prassi simile. Fino a quella fatidica data infatti, il problema legato al terrorismo veniva considerato prerogativa di pochi paesi come Spagna, Italia o Irlanda, gli unici storicamente afflitti da tale questione. A chi richiedeva l’attuazione di una strategia di contrasto a livello internazionale veniva risposto che il terrorismo non rappresentava una problematica urgente e che pertanto non vi era fretta di trovare una soluzione comune. E’ servito che venisse attaccato il cuore dell’Occidente perché ci si rendesse conto della natura globale del problema, e soprattutto della necessità di un approccio altrettanto globale per combatterlo.

Come si è tardato a reputare il terrorismo una minaccia urgente capace di interessare qualsiasi stato, così oggi vediamo un atteggiamento refrattario ad accettare che la criminalità organizzata possa avere la medesima portata. L’ex ministro di giustizia spagnolo, Fernando López Aguilar, che ha vissuto sulla propria pelle l’insensibilità di alcuni paesi alle sue richieste di collaborazione in ottica antiterroristica, oggi si è esprime così in merito alle resistenze poste da determinati Stati Membri ad una legislazione antimafia comunitaria:

Quando la Spagna aveva il problema del terrorismo abbiamo chiesto aiuto agli altri Stati membri dell’Unione, abbiamo fatto più volte il punto con loro sulle strategie da adottare per combatterlo. Ma molti Paesi, come il Lussemburgo o la Finlandia, non avevano mai avuto alcuna esperienza diretta e in questo senso si sentivano molto lontani da noi: sembrava che il terrorismo fosse un problema solo nostro. Adesso si è capito che è una minaccia per tutti e l’esperienza spagnola è diventata fondamentale per tutta l’Unione. Ecco: la stessa identica cosa che sta capitando con la criminalità di stampo mafioso.

Intervista del 2018 presente in ‘Mafie Unite d’Europa’, un progetto del Fatto Quotidiano ( https://www.ilfattoquotidiano.it/longform/mafie-europa/mappa/ )

Il meccanismo mentale alla base dell’interpretazione che porta a pensare il problema della criminalità organizzata come circoscritto a singoli paesi, è il medesimo che ha spinto per decenni politici e sociologici a considerare tale fenomeno una peculiarità di certe comunità etniche che, dipinte alla stregua di organismi infetti, introducevano il virus mafioso all’interno di una società altrimenti sana e funzionante. È la cosiddetta teoria della minaccia esterna, che tanto successo ha riscosso ad esempio negli Stati Uniti di inizi Novecento e che intende la criminalità appunto come una conseguenza patologica della presenza di attori sostanzialmente diversi da ‘noi’, senza i quali la nostra società sarebbe altrimenti perfetta.

E’ evidente come una simile visione possa aver prodotto, oltre ad atteggiamenti xenofobi e di chiusura, anche un’errata percezione della reale natura del fenomeno mafioso, dandogli una connotazione spiccatamente etnica ed alienandola dalla realtà sociale d’insediamento: le mafie non sono pertanto cosa nostra, bensì riguardano ora gli italiani, ora i colombiani, ora i russi, ma mai noi, la nostra società, la nostra natura. Eppure se oggi si parla giustamente di criminalità organizzata transnazionale significa che nessuna società si può considerare per grazia divina estranea al suo insediamento. Anzi, è probabile ne sia già stata infiltrata, più o meno conniventemente.

Pizza, mandolino e mafia. Lo stereotipo secondo cui ogni italiano è mafioso ed ogni mafioso è italiano. Esempio perfetto di alienazione della questione mafiosa, che viene circoscritta alla sola realtà italiana.

Ciononostante, ancora oggi persiste la malsana prassi di spostare il focus dal “cosa”, la criminalità, al “chi”, i criminali, utilizzando proprio la lente dell’etnia per sviluppare la propria analisi. È questo, purtroppo, un trend assolutamente in voga in America così come in Europa, che favorisce i grandi gruppi criminali transnazionali in tre diversi modi.

Innanzitutto, esternalizzare un fenomeno criminale, relegandolo ad una dimensione etnica aliena alla propria, non permette di vedere i legami che intercorrono tra mafie e società, dimostrando così di non aver colto affatto la natura pervasiva che contraddistingue ad ogni livello questi peculiari gruppi criminali: non comprendere adeguatamente che cosa si sta affrontando si traduce in strategie di contrasto errate che favoriscono unicamente il soggetto che si prefiggono invece di combattere.

Il secondo aspetto controproducente che caratterizza la fase dell’alienazione è quello che porta governi e società a sottovalutare gli effetti di un generalizzato e costante pregiudizio etnico. Infatti, emarginare fette di popolazione basandosi sul criterio razziale non solo è stupido, ma ha costituito e costituisce tutt’oggi una straordinaria fonte di approvvigionamento per le organizzazioni criminali che dal bacino degli esclusi e dei reietti hanno sempre pescato. «Xenofobia e pregiudizio creano intorno all’immigrato vuoto sociale e condizioni di insicurezza che favoriscono i fenomeni criminali» afferma la professoressa Mariele Merlati dell’Università di Milano in ‘La storia internazionale e la criminalità organizzata’, parlando della situazione dei migranti italiani in America all’inizio del secolo scorso:

La storia dell’emigrazione italiana negli Stati Uniti dimostra con chiarezza come la xenofobia e il pregiudizio antitaliano con cui i nostri connazionali si dovettero confrontare appena sbarcati oltre Oceano abbiano finito col favorire il radicamento della criminalità negli Stati Uniti. E ciò per due ordini di ragioni: in primo luogo il pregiudizio ha finito con il confondere in una massa indistinta di “immigrati” minoranza criminale e maggioranza per bene, colpendo nel profondo la capacità di affermazione degli italiani onesti; in secondo luogo, la xenofobia ha creato intorno agli immigrati italiani un vuoto sociale che ha rappresentato una imperdibile occasione di lucro per la criminalità.

Oggi come ieri, sbarrare le porte della società ad una determinata frangia a causa della sua etnia significa automaticamente spingerla tra le braccia della criminalità organizzata, sempre pronta ad accogliere nuovi emarginati tra le proprie schiere. Le mafie non devono far altro che aspettare che la comunità, ciclicamente, espella i suoi prossimi soldati.

Infine, il pregiudizio razziale e l’etnicizzazione figli dell’alienazione della questione mafiosa fungono anche da arma a doppio taglio per coloro che la impugnano, poiché offrono alla criminalità organizzata il pretesto per ritenersi perseguitata sulla base della propria origine. In Italia e in America, ad esempio, molti criminali cercarono di sviare le accuse a loro carico tacciando di razzismo rispettivamente gli italiani del Nord e gli anglosassoni protestanti. Lo stesso Don Vito Corleone de “Il Padrino” viene rappresentato come un povero italiano emigrato che, nel tentativo di guadagnarsi ‘onestamente’ da vivere, viene ripetutamente vessato dagli attacchi dei WASP (white Anglo-Saxons protestant). 

Da quanto scritto è possibile pertanto evincere la pericolosità dietro l’ostinata volontà di esternalizzare la problematica mafiosa al di fuori di noi. Persistere nel credere che tale fenomeno sia limitato al territorio di questo o di quel paese, ignorandone quindi l’infiltrazione globale, significa perpetrare la visione secondo cui le mafie italiane rappresenterebbero unicamente un problema italiano, il narcotraffico una questione latinoamericana, e così via. Un po’ come quando due settimane fa eravamo convinti che il coronavirus fosse una minaccia circoscritta alla sola Cina. Eppure non è andata proprio così, non è vero?

Proprio questi giorni di quarantena ci stanno insegnando – ahinoi, fin troppo bene – che nessuno può ritenersi immune a prescindere da un virus. Ecco, quello rappresentato dalle mafie non fa eccezione. Pertanto occorre che iniziamo a pensare e agire di concerto, a muoverci d’anticipo e a sviluppare gli strumenti necessari per un’azione di contrasto comune ed efficace. Diversamente, abbiamo visto quali siano le conseguenze.

Tomas Strada (1992), è l'orso digitale che gestisce la nostra comunicazione. Campione mondiale di video di gattini, black humour e lauree professionalmente non spendibili, racconta la criminalità organizzata sulle pagine digitali di The Pitch. Tra un reel e un articolo, è sinceramente convinto che The Pitch migliorerà il mondo. Ma credeva anche che i 30 anni non sarebbero mai arrivati. E invece.

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