Allah non è mica obbligato

Cosa sta succedendo in Mali?

Il 19 agosto una giunta militare ha preso il potere in Mali, arrestando e costringendo alle dimissioni il presidente Ibrahim Boubacar Keita. Il golpe è il risultato di un’instabilità politica che va avanti da anni. Lo stesso Ibrahim Boubacar Keita era salito al potere nel 2013 dopo che – di nuovo – una giunta militare aveva destituito il presidente Amadou Touré. Keita si è dimostrato una guida inadeguata a far fronte alla difficile situazione del Mali, aggravata dall’emergenza Covid, dalla dilagante corruzione e da una crisi economica da cui sembra impossibile risollevarsi. Nella primavera del 2020 la popolazione si è organizzata in un movimento di protesta spontaneo ed eterogeneo, che comprendeva elementi della società civile, oppositori politici e autorità religiose, come l’ imam Mahmoud Dicko. Lo scopo del movimento era ottenere le dimissioni di Keita e avviare un processo di riforma del paese.

Il colpo di stato è stato tiepidamente condannato dalla comunità internazionale: la priorità in quei territori è la lotta al terrorismo, che impegna USA e soprattutto Francia dal 2013, dopo che gruppi jihadisti legati ad al-Qaeda avevano ottenuto il controllo del Mali settentrionale. Attualmente ci sono circa cinquemila soldati francesi nella regione del Sahel ma, nonostante l’ingente impiego di forze, le operazioni militari non hanno avuto il successo sperato: i cittadini del Mali continuano a morire a migliaia, il contagio jihadista continua ad espandersi, gli equilibri nei rapporti tra etnie diverse sono seriamente compromessi. E’ il caso degli scontri sanguinosi tra Fulani, gruppo musulmano di pastori semi-nomadi, e Dogon, agricoltori che vivono da secoli nel Mali centrale. I due gruppi conoscono da sempre momenti di tensione per la gestione delle risorse, ma dal 2012 il conflitto si è radicalizzato, alimentato dai gruppi armati. Mentre la comunità internazionale continua a preferire la soluzione armata, sono molte le spinte all’interno della popolazione per cercare vie alternative. Tra i sostenitori di una via diplomatica per ricompattare il paese c’è l’imam Mahmoud Dicko, guida morale del movimento, che propone di combattere i terroristi stranieri e trattare invece con i jihadisti maliani. Dicko rivendica le dimissioni di Keita come un successo del popolo e afferma che il popolo è pronto a scendere di nuovo in piazza, qualora i militari dovessero “distrattamente dimenticarsi” di indire regolari elezioni e approfittare della situazione per piazzarsi forzosamente al potere (tentazione che negli ultimi giorni è sembrata piuttosto probabile, purtroppo non nuova nella storia).

Ibrahim Boubacar Keita – ph. Twitter

Chi è Mahmoud Dicko?

Predicatore carismatico, interlocutore tra le frange più estreme e il potere costituito, Mahmoud Dicko è, per il Mali, una figura chiave: oltre ad avere un profondo legame con il popolo e una ruolo di rilievo all’interno delle istituzioni, la sua predicazione ispirata al wahabismo saudita gli dà credito anche presso i jihadisti. Non è facile inquadrarlo: promuove l’unità tra le comunità del Mali ma non cavalca la retorica anti francese; parla un francese perfetto (oltre a diverse altre lingue) ed è proiettato nella modernità; predica un Islam radicale ma sostiene che applicare la sharia nel XXI secolo non avrebbe alcun senso; definisce la lotta al jihadismo una priorità, ma denuncia il rischio che questo conflitto duri per sempre, se si lascia tutto in mano all’esercito; è stato esitante verso la distruzione dei mausolei di Timbuctù, ma rivolgendosi ai jihadisti ha detto:

Non si può arrivare con dei kalashnikov per portare la legge. Una società non è questo. Le persone hanno bisogno di altro: abitazioni, salute, soldi, comunicare con il resto del mondo. Non si tratta di amputare mani. Queste mani bisogna preservarle. Bisogna dar loro lavoro, non amputarle

Tenendo insieme elementi anche contraddittori porta avanti un discorso profondamente radicato nella realtà del Mali, che vuole ricostruire un’identità maliana, fatta non solo di Islam, ma anche di tratti culturali pre-islamici.

L’antropologo francese Jean-Loup Amselle, qualche giorno dopo il colpo di stato, ha commentato su Le Monde:  «La forte opposizione popolare che esiste soprattutto a Bamako e in altre grandi città è radicata in una popolazione profondamente musulmana, che segue Mahmoud Dicko perché lui e il suo movimento incarnano un vero Islam maliano, molto diverso dalle idee fisse occidentali – e soprattutto francesi – che presentano il suo leader come dipendente dall’Arabia Saudita. Il futuro dirà se questa rivoluzione può continuare e portare i cambiamenti che la popolazione desidera.»

Il 95% della popolazione, in Mali, è musulmana. Le tradizioni orali datano l’introduzione dell’Islam nell’Africa occidentale già nel dodicesimo secolo, legata ai contatti con commercianti musulmani. I contatti nella zona della Nigeria sono ancora precedenti. Ma furono i movimenti jihadisti diffusi tra Settecento e Ottocento a islamizzare capillarmente l’Africa Occidentale. L’Islam ha interagito con il precedente sostrato animista e ha preso forme diverse a seconda dei contesti.

Timbuktu – ph. Flickr.com

Islam plurali

Non possiamo capire la figura di Dicko, né come si colloca il movimento che a lui fa riferimento, se restiamo ancorati alle suddivisioni che l’occhio occidentale ha storicamente tracciato sull’Islam in Africa, presentato spesso come “importato”, non originario, in contrasto con le religioni animiste autoctone. Jean-Loup Amselle ha fatto lunghi periodi di ricerca sul campo tra Mali, Costa d’Avorio e Guinea, criticando e decostruendo i concetti rigidi di etnia e di identità. Introduce l’espressione Logiche meticce, cioè identità relazionali, non assolute, negoziate, per definire le quali il contesto è l’elemento determinante. Nel suo libro Islam africani, edito da Meltemi nel 2018, attraverso un’analisi storica ed etnografica, Amselle descrive un Islam al plurale, al di là degli stereotipi che propongono ogni manifestazione dell’Islam come la replica dell’Islam dei paesi del Golfo. Ciò che monoliticamente definiamo Islam fa riferimento, in realtà, a una molteplicità di interpretazioni diffuse in diverse regioni del mondo, ognuna delle quali andrebbe inserita in una più ampia dimensione politica e storica. In Africa, l’Islam è stato un fattore di richiamo per identità composite da sempre, fin dal suo avvento nel continente in età medievale, agendo in maniera diversa a seconda dei momenti. E’ nel diciannovesimo secolo che Islam comincia a voler anche dire jihad, nello specifico contro i conquistatori coloniali, valore che ancora oggi conserva parzialmente, come forma di resistenza locale e globale verso ciò che è giudicato il nuovo colonialismo.

Ma l’Islam in Africa è anche espressione di un’alternativa all’inadeguatezza delle istituzioni statali. Non solo resistenza quindi, ma anche un mezzo d’azione per la società civile che si costituisce in contrasto alla decadenza dello Stato. L’islamizzazione crescente in Mali e in tutta l’Africa occidentale è un fenomeno che affonda le sue indietro nella storia. Le pratiche islamiche fanno parte da secoli del tessuto sociale dell’Africa occidentale, cementano il legame comunitario, plasmano le credenze, l’immaginario, la lingua e le azioni, diventano un lessico per l’azione politica. L’Islam è – citando Amselle – un significante globale, declinato per le necessità del contesto locale.

Non solo fondamentalismo islamico, dunque, ma un paesaggio molto più variegato, che interagisce con il sostrato animista mai scomparso, ma integrato. Lo scrittore ivoriano Ahmadou Kourouma ha riflettuto molto su come le tradizioni del suo popolo, i Malinke, considerati discendenti dell’antico Impero del Mali e stanziati in un’area dell’Africa occidentale che include Guinea, Mali e Senegal, abbiano assorbito le pratiche dell’Islam, dando vita a qualcosa di assolutamente originale. Morto nel 2003, Kourouma è stato uno dei più grandi scrittori africani. Cantore della decolonizzazione, ha raccontato con ferocia corruzione e storture dell’Africa post coloniale. Nei romanzi di Kourouma si vede come l’Islam dell’Africa occidentale sia assolutamente differente dall’Islam dei paesi berberi. La pratica religiosa musulmana si adatta al contesto, coesiste con le pratiche religiose tradizionali. Il nome di Allah è onnipresente ma esistono amuleti e guaritori, il culto degli antenati è rispettato. Quando non funziona la legge tradizionale ci si rivolge ad Allah e viceversa, senza che venga percepito uno scarto, un errore. Resta ben chiara la differenza tra i Malinkè, islamizzati, e – ad esempio- i Bambarà, che rifiutano la religione musulmana e continuano ad adorare gli idoli. Nessun Malinkè mangerebbe mai una bestia sgozzata da un Bambarà. Sincretismo non significa confusione.

Nel 2000 Kourouma scrive Allah non è mica obbligato, ambientato nel bel mezzo delle guerre civili che negli anni Novanta bruciavano Liberia e Sierra Leone. «Allah non è mica obbligato a essere giusto in tutte le sue cose di quaggiù» ripete come un mantra il piccolo protagonista, Birahima, un bambino, che si rivolge a noi in prima persona, in un flusso di coscienza insolente, maleducato, ma divertentissimo. «Sgrammaticato come la barba di un caprone». Graffiante, scorretto, eppure precisissimo, alterna imprecazioni, parolacce, invocazioni ad Allah, espressioni coloniali e razziste, termini malinké e dotte parole in francese con annesse definizioni che pesca da un vocabolario Larousse. Ci avvisa subito: «non sono né simpatico, né carino, sono maledetto. Ne ho uccisi tanti di innocenti in Liberia e in Sierra Leone dove ho fatto la guerra tribale, dove son stato un bambino soldato, dove mi sono drogato davvero con droghe pesanti. Quindi con me tutto vada in malora!». Birahima ha dieci anni quando muore la madre e lascia il suo villaggio per andare dalla zia in Liberia. Attraversando il confine, viene sequestrato dai ribelli e messo a combattere nella guerra tribale che infuria. Birahima riceve un AK-47, una scorta di droga e l’ordine di uccidere. Insieme a molti altri bambini e bambine soldati – che Kourouma definisce provocatoriamente “le celebrità più famose della fine del XX secolo” – vede morte, torture, corpi smembrati; si drogano, sparano, ammazzano. I signori della guerra sotto i quali Birahima combatte professano di essere uomini di grande fede. Si dichiarino essi musulmani, cristiani o animisti son tutti ugualmente corrotti, violenti e assetati di potere.

In tutta la sua opera Kourouma mostra la retorica delle religioni così come quella delle grandi narrazioni colonialiste e post colonialiste, che si differenziano nella forma ma il cui unico contenuto è la sete di potere. Le ideologie e le religioni hanno deluso generazioni di giovani africani che dalla stagione dell’indipendenza si aspettavano un mondo più giusto. La speranza è che nei vent’anni che ci separano da questo libro qualcosa sia cambiato. Insomma, Allah non è mica obbligato, ma speriamo che questa volta, in Mali, si metta una mano sulla coscienza.

Nasce a Venezia dove si laurea in antropologia. Si diploma attrice a Milano. Vive a Roma nel quartiere di TorPignattara. Non sapendo dipingere, si dedica senza successo all' arte del collage.

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