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And if a double-decker bus crashes into us

Take me anywhere, I don’t care

Portami dove ti pare, me ne sbatto. Sono passati 1265 giorni da quel fottuto 23 giugno 2016. Tre anni e mezzo, 180 cazzo di settimane e cosa è cambiato?

Because it’s not my home, it’s their home

«Domani, domani e poi domani» dice quello sciroccato di Macbeth quando gli comunicano che Lady è morta. Di rinvio in rinvio, la Brexit è una commedia che non fa tanto ridere e che si prolungherà almeno fino al 31 gennaio. In principio tutto doveva completarsi il 29 marzo, poi c’è stato lo spettro della Halloween Brexit, ma è slittata per l’ennesima volta dopo il quarto rifiuto a un accordo raggiunto dopo trattative all’ultimo sangue con Bruxelles. Siamo passati attraverso otto scenari possibili, diciassette voti parlamentari sul divorzio con l’Ue e una sessione straordinaria convocata di sabato – roba che a Westminster non si vedeva dai tempi di Maggie Thatcher: era il 3 aprile 1982, il giorno prima l’Argentina aveva invaso le Falklands.

Will tear us apart

Una delle più solide democrazie europee, un modello politico per il continente non è diventata altro che una farsa. Un intero paese sembra aver cambiato espressione del volto, rispetto al 2016 il Regno sembra molto più confuso e arrabbiato e sempre meno Unito.
Il 23 settembre 2017 Moody’s ha declassato il rating dell’affidabilità creditizia del Regno Unito da Aa1 ad Aa2. Il Niesr, National Institute of Economic and Social Research, ha stimato che la Brexit costerà 1.000 sterline per ogni cittadino britannico da qui al 2030, pari a 1.000 miliardi di sterline, il 3,9% del Pil del Regno Unito. È difficile contare il numero degli attacchi della New Ira negli ultimi tre anni, ma non è complicato associare questa recrudescenza in Ulster con il surriscaldamento del confine – che rischia di tornare rigido – tra le due Irlande. I politici ci giocano su, i burocrati si scervellano per pensare a un “backstop”, i commentatori tv si divertono a parlarne; intanto, una reporter è stata uccisa a Derry mentre testimoniava gli scontri tra gli ultra-repubblicani e la polizia. Si chiamava Lyra McKee e aveva 29 anni.

‘Cause London is drowning, and I, I live by the river

Le calamità, che di naturale hanno poco, non finiscono qui. Yellowhammer è il nome in codice per il piano d’emergenza in caso di no-deal. Il ministero del Tesoro ha disegnato una scenario post-apocalittico che nemmeno i Clash avrebbero ipotizzato. «Mancheranno farmaci e alimenti freschi con conseguente diffusione di malattie, prezzi di cibo e elettricità destinati a salire, rischio violenze in Irlanda del Nord e nelle strade, caos a Gibilterra e Dover». Sembra il fottuto 1940, ma non ci sono più Churchill e i nazisti sui cieli di Londra: è reale e potrebbe accadere a gennaio 2020. «Siate inglesi» diceva il buon vecchio Winston mentre fuori infuriava l’ora più buia. Per gestire la situazione si sono alternati ben tre primi ministri, tre incarnazioni dell’essenza british che, se fossero ancora in attività, avrebbero fatto la fortuna dei Monty Python. Una cosa va detta: mai come ora la politica è stata di parola. Lacrime, sudore e sangue. The best is yet to come. C’è già stata un’elezione anticipata ma non ne abbiamo ancora avuto abbastanza: saranno due con quella di domani. Già, domani si vota.

Please, please, please let me get what I want

È inutile girarci intorno: quello di domani è il secondo referendum tanto agognato sulla Brexit. I britannici si esprimeranno sul risultato di tre anni e mezzo di trattative per la fuoriuscita dall’Unione, sulla versione di BoJo. Basta il soprannome. Immaginatevi per un secondo un portuale di Liverpool che, col suo accento Scouse, si rivolge ai sodali per commentare le gesta di Boris Johson, appellandolo col suo soprannome: «Matt, hai sentito cosa ha detto BoJo?». Fa già abbastanza ridere così, se ci fosse davvero qualcosa di divertente. Get the Brexit done sarà pure un caricatura neanche troppo studiata di un efficace slogan d’oltreoceano, ma in questo momento basta e avanza. I sondaggi danno il Partito conservatore al 40% circa, con una proiezione di 330 seggi che dovrebbero garantire a Johnson la maggioranza assoluta, scongiurando lo spettro dell’hung parliament (il parlamento “azzoppato”), e consentendogli così di realizzare i suoi progetti di uscita.
Il nostro BoJo non è un coglione. Sarà pure un bugiardo, un vendicativo, un coglione e un misogino, ma non è una pornostar.

To die by your side / Well, the pleasure – the privilege is mine

Titti non ci è mai parso un fulmine di guerra. Buona parte del successo di BoJo sembra essere frutto del demerito del suo antagonista. Se qualcuno ha capito cosa ha in mente Corbyn per la Brexit, per favore, glielo riferisca. Il motore immobile dell’opposizione a tre anni di peggior governo conservatore – quello May resterà negli annali – non ha mai trovato un proprio metodo e la sua “ambiguità costruttiva” non è stata una strategia vincente (ammesso e non concesso che la si voglia considerare una strategia) per la Brexit. I Tory galleggiano – non potrebbero fare altrimenti, li guida uno stronzo – il Labour affonda. In proiezione è dato tra gli otto e i dieci punti in meno rispetto alle ultime elezioni, segno che la linea – quale? – di Corbyn in questi due anni non ha fatto breccia nel cuore degli inglesi.
La speranza resta l’ultima a morire, soprattutto nel paese dove i sondaggi non ci beccano praticamente mai. Ad ascoltare i polls, la May nel 2017 avrebbe ottenuto una maggioranza assoluta, la Scozia se ne sarebbe andata a fare in culo e tutto questo casino non ci sarebbe mai stato perché la Gran Bretagna avrebbe pacificamente scelto il Remain.

Friday saremo ancora in love?

Domani si vota, come da 85 anni a questa parte, di giovedì. È una fiera tradizione britannica: Thursday era storicamente giorno di afflusso in città per il mercato, lontano dai sermoni dei preti della domenica e prima del venerdì, giorno di paga che ancora oggi viene spesa nei pub. Domani più che mai servono elettori sobri, anche se essere rimasti lucidi in questi folli tre anni e mezzo è roba da matti.
Auguriamo a tutti voi sudici sudditi di sua maestà un buon voto, probabilmente l’ultimo da cittadini europei, chi lo sa…

There’s a light that never goes out

© L’immagine di copertina è una creazione di Federico Bressani ©

Bibliografia minimale

E soprattutto…

Classe 92', fondatore e direttore di The Pitch. Stefano vanta una laurea in Storia, una in Relazioni Internazionali, oltre a innumerevoli esperienze lavorative sottopagate. Sogna di commentare un’elezione presidenziale negli USA e il Fano in Serie B: ambedue da direttore di The Pitch.

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