Béla Tarr. Ascoltare il tempo

«Piccola è la parte di vita che viviamo».
Infatti, tutto lo spazio rimanente non è vita, ma tempo.
Seneca, De Brevitate Vitae

«Drama is life with the dull bits cut out», il dramma è la vita con le parti noiose tagliate, sosteneva Alfred Hitchcock in un’intervista del 1960 alla BBC, per la trasmissione Picture Parade. La frase è divenuta celebre, uno tra gli aforismi più ricorrenti e citati del maestro del brivido. Il cut, il taglio cinematografico, del resto è essenza stessa del cinema e della sua capacità di muoversi nel tempo e nello spazio. Il taglio detta la narrazione, il ritmo della storia, può accelerare il tempo, saltare le parti irrilevanti ai fini della trama. In poche parole, il cinema gioca col tempo, lo domina artificialmente. Nel farlo, però, sposta anche l’attenzione su altro, imponendo delle regole: stare nel momento è un gioco pericoloso, che può mettere a rischio la pazienza dello spettatore.

Prendete la scena d’apertura de Il cavallo di Torino (A tórinoi ló, 2011) di Béla Tarr: cinque interminabili minuti fissi su un cavallo sofferente che porta avanti un carretto con su un uomo e una donna mentre il vento sferza senza sosta. «Quando taglia?», viene da chiedersi, perché di fatto non c’è motivo di stare ancora lì. Il cavallo soffre, lo abbiamo capito, adesso passiamo ad altro. Dull bits. Eppure, è proprio nel long take, l’inquadratura sostenuta che dura oltre le regole canoniche del cinema e che vuole abolire il più possibile il montaggio – o meglio, tagliare il meno possibile – che si cela la possibilità di tornare a guardare. E’ qui che la domanda «Quando taglia?» può trasformarsi in «Perché siamo ancora qui?»; dal proiettarsi già verso la scena successiva al rendersi conto che forse, la scena che stiamo vedendo, non l’avevamo ancora vista.

È una questione di pazienza. La pazienza è anche pathos, implica il patire, il subire qualcosa: come il tempo. Ed ecco allora Seneca nel De Brevitate vitae, in epigrafe: lo spazio di vita non vissuta, da cui vogliamo fuggire, si spoglia dei suoi indumenti lasciando solo il tempo. Ma il tempo è anche il vissuto. E il vissuto è inevitabilmente fatto di tempo, un tempo senza tagli che a volte pesa, è grave nella sua portata. La pazienza allora è un processo attivo, più che passivo: è darsi la possibilità di stare, nonostante la difficoltà dell’atto, per trasformare nuovamente il tempo in vita.

Il cinema del regista ungherese mostra la gravità del tempo, e Il cavallo di Torino, il suo ultimo film, ne è forse il più chiaro esempio. E per la sua dimensione dello stare anziché correre da una scena all’altra, Béla Tarr è uno degli autori più citati quando si parla di Slow Cinema.

La storia è quella del vetturino Ohlsdorfer e di sua figlia e, sullo sfondo, del loro cavallo. Un cavallo senza nome, come il luogo in cui padre e figlia vivono: una catapecchia in mezzo alla terra arida, come fosse alla fine del tempo e del mondo, mentre il vento incessante copre ogni pensiero. Il film è lungo, a tratti estenuante. Non tanto per la durata, comunque importante – due ore e mezza – quanto per la lentezza e la ripetizione dei gesti, che tornano e ritornano, come automatismi. I giorni passano, ma sono gli uni uguali agli altri. Il pranzo e la cena sono sempre gli stessi: patate. Non c’è nemmeno bisogno di usare posate, si è persa ogni possibilità di convivialità, di comunione. Figlia e padre convivono sotto lo stesso tetto ma non parlano, non comunicano. La dimensione dell’ascolto è ridotta ai bisogni fisiologici. Non rimane che il tempo, che deve passare: questa è la sua unica funzione.

È quasi come se il film di Béla Tarr fosse il taglio stesso, il cut: un film che non esiste, lo scarto di tempo che ogni regista avrebbe nascosto, cancellato. La noia, che nasce dalla ripetizione. Eppure, nel taglio è presupposto un salto; un salto che esiste solo per via dello scarto che elimina. Il long take ci fa vedere che nella vita non esistono salti, ma passaggi. E il cambiamento, positivo o negativo, passa da qui. Guardare nel passaggio, nello scarto, è il guardare nel processo; ma, si potrebbe anche dire, è il processo del guardare. Del guardarsi.

La quotidianità può essere fatta di gesti che nel ripetersi perdono la loro consistenza, i tagli che non vogliamo sentire. Fuggiamo dai pensieri con un cut, facciamo altro, ci distraiamo, perché lo stare potrebbe aprire porte. Figlia e padre si ritrovano al buio, in casa. La lampada ad olio è piena, ma sembra non funzionare più. Il vento continua a spirare ma ora è entrata in gioco la dimensione del buio, una dimensione d’intimità che chiede la parola. «Che sta succedendo?» chiede lei, vedendo la lampada non funzionare. Non lo so. Andiamo a letto» risponde il padre. Ancora una volta un taglio che frena, blocca il processo. La voce narrante entra nel buio, ci dice che figlia e padre sono a letto, li sentiamo respirare, sentiamo solo il loro respiro. Fuori la tempesta è finita. Il silenzio è caduto anche sulla casa.

Buio e silenzio, è l’ultimo giorno prima della fine. Padre e figlia sono ancora a tavola. Potrebbe essere l’ultima possibilità per comunicare. «Dobbiamo mangiare», dice il padre. La dimensione dell’ascolto è interdetta; ma ecco che il padre smette di sbucciare la patata e i due rimangono in silenzio. Se in quel silenzio possa esserci una possibilità di comunicazione non è dato saperlo. Ma l’atto del fermarsi, dell’interrompere l’automatismo della parola e del gesto, può aprire le porte proprio allo scarto.

La visione di Béla Tarr sembra essere pessimistica, ma in realtà ci mostra che una via di fuga è possibile. Sta in quell’interruzione, che più che un segno di disfatta è il simbolo di un’apertura, di una possibilità di comunicazione. Spezzare l’automatismo, tornare dal tempo alla vita. Non a caso il loro cavallo già da tempo si era rifiutato di mangiare per chiedere altro, ascolto. Ed è anche quella protesta che impedisce loro di andare via quando il pozzo rimane vuoto. Il cavallo non poteva sostentarsi solo col cibo: chiedeva umanità. Del resto, Il cavallo di Torino, nella sua lunga sequenza iniziale, è introdotto dal celebre aneddoto, a metà tra realtà e leggenda, avvenuto durante il soggiorno torinese di Nietzsche: qui, nel 1889, alla vista di un vetturino che sferzava il suo cavallo che non voleva muoversi, in un gesto di commozione Nietzsche si avvicinò al cavallo e lo abbracciò, piangendo. Un ultimo gesto di dialogo ed empatia, prima di trascinarsi verso la follia.

Il Cavallo di Torino è il tempo che passa senza essere ascoltato. Il tempo vissuto che viene ignorato anziché essere accolto. Eppure, basterebbe un abbraccio per riappropriarsene.

Francesco Fiero, 1989, si è laureato in Scienze filosofiche, specializzandosi in Estetica e Cultura visuale. Ha collaborato con la Fondazione Feltrinelli per il magazine “La Nostra Città futura” e scritto di cinema e letteratura per testate e riviste sul web.

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