Caino e la condanna nomade

Nella tradizione biblica il primo assassinio dell’umanità avviene ad opera di Caino, nei confronti del fratello Abele. Per spiegare l’omicidio si è spesso menzionata l’invidia, il fatto che Caino fosse – forse – il figlio del serpente dell’Eden e Abele figlio di Adamo, ma non si è mai investigato sulle motivazioni – psicologiche e materiali – che abbiano portato il fratello “malvagio” ad uccidere. Insomma, alla domanda si è cercata sempre una risposta fatalista, e mai una causale. Nel resoconto “storico” che ci fornisce la Bibbia, Caino è un agricoltore al quale Dio promette il dominio sulla terra mentre Abele è un pastore, un nomade al comando degli animali del mondo. Un dualismo che si potrebbe tradurre, con grosse approssimazioni dovute alla generalizzazione, al dualismo tra nomadismo e stanzialità.

Tintoretto, Caino e Abele – Gallerie dell’Accademia di Venezia

E se pensiamo che nello stadio evolutivo umano queste due fasi si sono susseguite, nomadismo e stanzialità, potrebbe avere senso che la metafora biblica affronti esattamente questo momento di contrasto nella storia della “civilizzazione”. In fondo, le prime popolazioni umane di cui abbiamo memoria si spostavano in continuazione alla ricerca di cibo, probabilmente seguendo le mandrie lungo i loro tragitti migratori e cibandosi delle carcasse che queste lasciavano alle spalle. I primi uomini erano, in una parola, nomadi.

Nell’immaginario classico però viene spesso da associare alla parola nomadismo ad un frenetico e incessante vagabondare nello spazio e nel tempo, alla ricerca di luoghi da saccheggiare e dilaniare come uno stormo di cavallette. Questa immagine potrebbe essere associata al fatto che le prime testimonianze scritte di queste popolazioni ci arrivano da un’epoca in cui si era già affermata la modalità di vita stanziale, e la scrittura come forma di trasmissione della verità storica, appartenente a queste popolazioni “cittadine”, era influenzati dalla lotta civile in atto.

Prima della comparsa delle popolazioni sedentarie e del seguente scontro di civiltà – con buona pace di Huntington, forse l’unico veramente in atto –  le popolazioni nomadi non si muovevano con lo scopo di conquistare e distruggere, ma si muovevano seguendo il ritmo delle stagioni, in pratica “rispettavano” il ritmo naturale del mondo muovendosi di conseguenza; e cosa più importante: il nomadismo non era che una fase della loro vita annuale, in cui il viaggio era solo una parte di una vita mobile.

Quando per la prima volta uomini e donne hanno pensato che forse non fosse poi male rimanere fermi in un luogo, si è creato il primo scontro tra stanziali e nomadi. Per l’appunto i problemi che potrebbero essere sorti tra Caino e Abele, causandone la morte di quest’ultimo. Da un lato abbiamo Caino il meticoloso agricoltore, e Abele, il nomade pastore che vagava sulla terra di proprietà di Abele conducendo il suo gregge senza pagare una tassa, senza ritegno per i confini e per le colture. Osservato da questo punto di vista l’omicidio di Abele potrebbe assumere due significati: la vittoria degli stanziali sui nomadi, e l’affermazione di un nuovo concetto di proprietà privata della terra.

La proprietà privata della terra nelle popolazioni nomadi si poteva dire collettiva, non apparteneva ad un determinato individuo con un regolare contratto di proprietà, apparteneva al gruppo – vogliamo dire – etnico e alla sua discendenza; era, per usare un termine che ha avuto una vita sfortunata: uno spazio vitale all’interno del quale quel popolo si muoveva (per una discussione del termine spazio vitale in termini biologici rimando a L’aggressività. Il cosiddetto male di Konrad Lorenz). Un concetto territoriale per intenderci molto più simile a quello animalesco, in cui ognuno era custode e proprietario di un determinato terreno di caccia e di sopravvivenza, all’interno del quale diventava “aggressivo” per la sua autoconservazione.

Konrad Lorenz

Caino, dopo l’ennesimo raccolto divorato dai capi sconclusionati di Abele si infuria e lo colpisce con un sasso dietro la nuca, uccidendolo. Il suo deve essere un sollievo di non poco conto; la morte del fratello, non solo gli permette di essere il padrone della terra e di evitare le continue scorribande degli animali su un territorio che gli appartiene (come promesso da Dio) ma anche di esercitare il dominio sugli animali, che potrà finalmente allevare e rinchiudere in dei recinti e spremere proprio come fa con la terra; forse la nascita dell’agricoltura e dell’allevamento intensivo? A questo punto però interviene Dio, che osservando lo svolgersi dei fatti, decide di punire Caino, e sceglie come punizione, ironicamente, proprio la cosa che Caino detestava di più: muoversi. Verrà infatti condannato a vagare sulla terra per l’eternità, per sempre nomade, e per sempre reietto, senza la possibilità di fermarsi, senza tenere conto delle stagioni e della sua vita.

Vi sarà stato sicuramente stato un lasso di tempo in cui Caino ha beneficiato dell’omicidio di suo fratello, i campi hanno prosperato e gli animali sono stati addomesticati, incrementando il cibo e le provviste. Ma questo periodo, questa luna di miele con la propria colpa, è durata poco, è durata finché le inevitabili conseguenze del suo gesto non tornarono a tormentarlo, il castigo di Dio, o forse della sua coscienza, lanciarono un messaggio però chiaro: in natura tutto ha un prezzo. E se questo debito, noi, la società stanziale lo stessimo per pagare? E dopo aver ucciso Abele, stessimo solo aspettando il tempo del castigo divino.

Il nostro accanimento occidentale contro le popolazioni nomadi è ben documentato, e sarebbe riduttivo circoscriverlo ad una questione razzista, quanto è più un fenomeno ascrivibile ad un vero e proprio scontro tra la civiltà sedentaria e quella nomade. Se la discriminazione di questo tipo di civiltà si esprimesse nel fenomeno del razzismo, non si spiegherebbe perché nel corso della storia non sono state soltanto specifiche “etnie” nomadi ad essere perseguitate, ma il nomadismo in sé e di conseguenza tutte le popolazioni che lo rivendicavano: le esperienze coloniali britanniche in Australia e francesi nel Sahel ne sono la dimostrazione, oltre che alla persecuzione di Rom e Sinthi, e a quella storica del popolo considerato senza nazione per antonomasia, gli ebrei. Una repressione trasversale riconducibile all’interno di due modelli di vita contrapposti, più che ad una componente discriminatoria (non negando che questa esista a tutti gli effetti come epifenomeno).

Due giovani zingare, Irlanda – Francesco Radino © Mufoco

Se prendiamo in esame la storia coloniale britannica in Australia in cui lo scontro di civiltà è stato forse il più visibile, quello che osserviamo è una drastica incomunicabilità dei due modelli. Questo vale specialmente nella fase di “riappacificazione” tra governo australiano e le popolazioni aborigene. Il problema principale fu che gli australiani cercarono di concedere alle popolazioni aborigene delle riserve, degli spazi in cui vivere, per “scusarsi” di aver rubato, recintato e requisito le loro terre nel XIX secolo – oltre che aver sterminato nel classico stile occidentale – non capendo che gli aborigeni erano “legati” al loro territorio, da un concetto completamente diverso dal nostro; in poche parole il terreno è sacro e il compito di custodirlo è del suo abitante, che ne canta i nomi e la storia e ne difende l’esistenza contro l’oblio del mondo. Una terra che smette di essere cantata smette di esistere. Ed ecco perché le riserve, o le mappature dei luoghi sacri non potevano funzionare, perché ogni luogo è sacro e le riserve non servono, l’uomo è legato alla storia di un determinato percorso, che è suo e della sua etnia, le cosiddette vie dei canti[1]. Staccato da esse lui è staccato dal suo compito esistenziale.

Tjuringa: una tavola sacra degli aborigeni il cui significato rimane per lo più sconosciuto agli occidentali.

Risulta complicato, anche per la scarsità di fonti, risalire ad una vera storia degli impatti del colonialismo europeo sulle popolazioni nomadi del Sahel, ma prendiamo ad esempio quella dei Nemadi; un’etnia cacciatrice di cui ormai sopravvivono un qualche centinaio di persone. Il modello francese di rigurgito Napoleonico richiede l’iscrizione di una residenza, concetto che risulta un po’ difficile da applicare alle popolazioni che seguono gli spostamenti del loro cibo. L’estinzione dei Nemadi, iniziata tempo prima con i primi scontri con la burocrazia francese, è stata accelerata dall’introduzione del divieto della caccia. Il divieto venne introdotto in realtà per preservare la diversità biologica della fauna locale, messa a repentaglio dalle pratiche di caccia sportiva tipiche delle popolazioni sedentarie, non di quelle di una popolazione di cacciatori che per anni aveva convissuto con le proprie prede principali. In aggiunta, per tutelare queste popolazioni ora costrette alla stanzialità furono istituiti campi in cui si raccontano dei giorni in cui i grandi cacciatori braccavano orici ed antilopi, mentre ai margini di Walata il popolo scompare come un miraggio nel deserto, calcificandosi tra il rifiuto della modernità e l’impossibilità di tornare indietro.

Cheih, della tribù dei Nemadi © AFP

E se la condanna che stiamo aspettando, noi novelli Caino, fosse il cambiamento climatico? Dopo aver vinto la lotta contro il nostro fratello nomade, ora stiamo godendo i frutti di quella temporanea pace. Abbiamo già visto in questo 2020 i possibili presagi di un mondo naturale che sfugge al nostro controllo, centri urbani destinati a scomparire per l’innalzamento dei livelli del mare (pensiamo a Venezia o alle micro-isole come le Maldive e Vanuatu), l’innalzamento della resistenza dei virus agli antibiotici, le risorse primarie, come l’acqua, che iniziano a scarseggiare, e il livello insostenibile degli allevamenti e delle coltivazioni intensive che sfruttano in modo irragionevole il territorio e la sua capacità produttiva e riproduttiva. Potrebbe darsi che il destino dell’umanità sia quella di condannarsi a vivere riscoprendo le orme dei fratelli, il significato di vivere in un mondo che appartiene a sé stesso e non agli uomini che ne scrivono il nome, e in modo quasi opposto a quello degli aborigeni, imprigionandone la natura in contratti e proprietà.  

Una possibile catastrofe naturale potrebbe costringerci a rivivere il destino di Caino, condannati a vagare, senza metà e senza casa, tra le steppe aride di un deserto che lui stesso aveva creato. E allora forse avremmo ottenuto il più grande sogno dell’umanità, quello di diventare immortali, perché la vera condanna, in fondo, come sostiene un’antica maledizione cinese è che tutto ciò che desideri, si avveri.


[1] Questo concetto è in realtà molto più complicato di così, e nonostante abbia passato almeno un anno in Australia – di cui due settimane ad Alice Springs – cercando di comprendere qualcosa di più di questa concezione della terra e della “proprietà”, il significato ultimo mi risulta ancora sfuggente. Come se riuscissi a comprenderne l’essenza, ma la natura mi sfugge. Rimando per una descrizione migliore di quanto la mia possa mai essere alle Vie Dei Canti di Bruce Chatwin.

Classe 1992. Laureato in geopolitica ed economia internazionale. Confesso di aver lavorato per i poteri forti, ma sono rinsavito; ora faccio cose molte più remunerative come lo stand up comedian, il drammaturgo e uno dei tanti extra-comunitari ai domiciliari. In un'altra vita vorrei rinascere cacciatore boscimane del Kalahari.

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