COP26: Tra climate change e competizione internazionale

A partire dal 31 ottobre, la città di Glasgow, nella Scozia sud-occidentale, sarà il centro degli sforzi per tentare di mettere d’accordo i principali Paesi inquinanti del mondo provando così a ridurre le emissioni di gas serra. Tentativo praticamente impossibile, che quasi certamente produrrà risultati e dichiarazioni di facciata che serviranno per dare qualche piccola soddisfazione all’opinione pubblica. Tuttavia, ben più interessante ed importante sarà capire come i vari Capi di Stato e di Governo tenteranno di difendere gli interessi nazionali utilizzando strumentalmente una questione che, da sempre, colpisce diversi Paesi nel mondo in modi diversi e con conseguenze varie.

Il nodo della questione riguarda l’inquinamento provocato da quelli che oggi sono diventati tra i maggiori produttori di gas serra (Cina, Russia, India tra quelli degni di nota) e che non vogliono, in alcun modo, vedere il loro sviluppo industriale bloccato da nuove regolamentazioni che spingerebbero ad adottare modelli più sostenibili in Paesi che, tuttavia, non hanno ancora raggiunto il loro picco di sviluppo industriale e che per questo reclamano il loro di diritto di inquinare nella misura necessaria per non rimanere indietro dal punto di vista economico. 

Questo potrebbe essere proprio l’obiettivo di alcuni Paesi, tra tutti gli Stati Uniti, che si stanno equipaggiando da anni e per i quali dunque la svolta ecologica non avrebbe un impatto dirompente. Un altro motivo per cui per la transizione ecologia potrebbe essere una carta vincente per le economie già affermate della terra sono i rapporti di dipendenza: come sta dimostrando l’aumento dei prezzi conseguente alla recente e incalzante crisi energetica, i rapporti di dipendenza tra fornitori e consumatori sono fondamentali per aumentare l’influenza dei primi sui secondi. L’esempio più lampante ci riguarda da vicino: la Russia è il Paese che fornisce la stragrande maggioranza di gas naturale ai Paesi dell’UE, che in una situazione come quella in cui ci troviamo adesso, si trovano completamente in balìa di Cremlino e del colosso Gazprom, vero veicolo di politica estera per il Presidente Vladimir Putin. 

Senza voler nulla togliere all’impatto dell’uomo sul clima mondiale – che è innegabile e responsabile di importanti cambiamenti in negativo – permangono dei dubbi sull’assoluta buona fede di alcuni tra i principali promotori delle campagne di allarmismo sul tema. Molto spesso centri di ricerca ed istituzioni hanno la loro sede in quei Paesi per cui una virata ecologica potrebbe rappresentare un vantaggio competitivo fondamentale. 

Non è un caso che l’Unione Europea sia tra i soggetti più avanti in questa trasformazione. Un’unione sovranazionale, fondata su un modello economico e dipendente in tutto e per tutto a livello militare e difensivo da Washington, ha la possibilità di concentrare tutti i propri sforzi sulla conversione delle industrie e dei settori più inquinanti puntando, inoltre, su una popolazione molto sensibile al tema. Tutto ciò potrebbe, nel lungo periodo, trasformare l’Unione Europea da dipendente a principale produttore e fornitori di energie rinnovabili; tuttavia, come anche la vicenda del North Stream 2 dimostra, l’inesistente peso geopolitico del blocco dei 27 rappresenta ancora un ostacolo insormontabile per trasformare questa spinta “verde” in vantaggi tangibili nei rapporti con altri Stati. Il raddoppio del gasdotto che attraversa l’intero Baltico è stato il frutto di serrate trattative tra Mosca e… Washington: quest’ultimo aspetto è rilevante e non può essere sottovalutato, in quanto durante l’intera vicenda, l’UE non è mai andata oltre alle solite dichiarazioni di facciata ma prive di sostanza dei suoi “leader” (anzi, la portavoce europea durante la querelle fu Angela Merkel), trasformando, di fatto, una questione dirimente con un partner storicamente ingombrante e “rumoroso” in una patata bollente da passare nelle mani degli Stati Uniti. Che hanno agito nell’unico modo possibile per loro: contrastare la Russia e mostrarsi per l’ennesima volta paladino antimoscovita agli occhi di quell’Europa orientale che tutto può accettare tranne che il patron d’oltreoceano rinunci alle sue responsabilità in quella parte del Vecchio Continente.

Il risultato è che la Russia può in qualsiasi momento chiudere i rubinetti o indirizzarli altrove a suo piacimento, senza che la Commissione o altre istituzioni comunitarie abbiano i mezzi per rispondere ed evitare che tutto ciò si ripercuota sulle bollette dei cittadini, come sta accadendo ora. In questo senso, la questione non verte tanto sulla fonte energetica in sé, cioè quella del gas naturale (destinata anch’essa ad essere superata nei progetti ecologisti, ma che è, ad oggi, semplicemente linfa vitale per l’’Europa) ma come la questione climatica sia davvero già diventata un’arma geopolitica nelle mani degli stati; la Russia è il paese che più di tutti riesce a sopperire alle proprie mancanze strutturali (economiche, strategiche con la perdita dell’Ucraina, demografiche) facendo perno sulle sue riserve energetiche, in modo da poter ancora contare nelle partite future. L’Europa, dall’altro lato, rappresenta un monito importantissimo: nella corsa alla nuova economia verde muoversi d’anticipo è fondamentale, ma non sufficiente: alle spalle, a fare da fondamenta, c’è bisogno di una visione chiara, di una strategia individuabile e di tattiche congrue a perseguirla: in poche parole, non si può pensare questa nuova sfida ecologica come solamente ambientale o economica, ma essa è primariamente una sfida strategica, da far afferire a tutti quegli scenari che gli Stati possono modellare a loro piacimento in base ai loro interessi, stante la totale assenza di vincoli giuridici.

È inevitabile che stati ancora in via di industrializzazione rifiutino di prendere impegni seri oppure di rinviarli il più in la possibile nel futuro: se l’asticella fosse posta tra pochi decenni, essi correrebbero il rischio di ritrovarsi alla prima curva quando altre potenze avranno già finito il primo giro. Nel breve periodo, non c’è nessuno scenario plausibile che faccia intravedere un tale sconvolgimento nei rapporti di forza provocato dalle energie rinnovabili; o se lo sarà, il rischio è che tale vantaggio sia accumulato solamente in ambito economico da paesi e nazioni ormai post-storici, senescenti e dediti all’economicismo, pertanto totalmente inadatti a qualsiasi tipo di politica di potenza: il riferimento alla già citata Unione dei 27 non è casuale. Tradotto: per guardare ai destini dell’umanità in termini di potenze egemoni, non bisogna volgere lo sguardo in Scozia.

In conclusione, il vertice scozzese servirà ai principali leader come vetrina per dimostrarsi più all’avanguardia e sensibili degli altri su un tema sempre più pressante, soprattutto per gli elettorati più giovani. Nonostante ciò, è davvero difficile immaginare che dal vertice possa uscire qualcosa di concreto, dati tutte le tematiche ed i problemi di cui sopra: in un momento storico in cui la competizione USA-Cina si sta scaldando sempre di più trascinando con sé in modo inevitabile tutti i paesi minori e satelliti, la difesa dell’interesse nazionale diventa primaria di fronte a qualsiasi tematica, soprattutto quella ambientale. 

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