Dal campo di calcio al campo di concentramento
Queste sono medaglie che non si appendono alla giacca, ma all’anima
Gino Bartali
8 settembre 1943, una delle date più note della storia italiana.
Da Roma, il maresciallo Badoglio proclama alla radio l’armistizio siglato dal suo governo con le truppe anglo-americane. Il Regno d’Italia, dalle ore 18.30 di quel giorno, smette di essere alleato con la Germania nazista per diventarne formalmente nemico. Il Paese però, soprattutto a causa della dichiarazione poco chiara del Presidente del Consiglio, percepisce l’annuncio come la fine della guerra. Numerosi militari lasciano le armi e fanno ritorno a casa in abiti civili. La repressione dei tedeschi nei confronti dell’ex-alleato è immediata e durissima. L’Italia diventa così il teatro di battaglia principale del conflitto bellico. Le forze Alleate, sbarcate in Sicilia il 10 luglio 1943, risalgono pian piano il paese, mentre i nazisti si ritirano verso il Nord, imprigionando quanti più italiani possibile, colpevoli a loro detta di tradimento. Era giunto il momento che ogni cittadino, nel profondo della propria coscienza, scegliesse da che parte stare. Qui inizia la nostra storia. Una storia in cui e sport e Resistenza si fondono. Con una dovuta precisazione: quando si parla di queste figure, occorre lasciare gli sportivi sullo sfondo e concentrarsi sugli uomini.
«Uomini che erano persone normali, semplici ma avevano uno straordinario senso della giustizia e dell’onesta. Sono i loro valori forti che fanno una società sana», lo dice con una calma che mette soggezione Milena Bracesco. Nonostante le restrizioni dettate dalla pandemia, ieri come ogni anno, si è comunque recata a omaggiare le lapidi dei partigiani di Monza con una corona. Tra cui c’è anche quella di suo padre Enrico. Al signor Bracesco e un altro partigiano, Alberto Paleari, è dedicato un circolo. Sorge di fianco a un campo dismesso che per anni è stato il terreno di gioco del Monza Calcio. «Non ho ricordi in prima persona di mio padre, ma vedere il suo volto affisso sul muro mi faceva stare bene». La signora Milena non ha potuto conoscere suo padre ma ha deciso di approfondire la storia che si incrocia con la memoria, di una famiglia e di un paese. Ne è uscito un libro “Parlami d’amore. Dialogo intimo tra una figlia e un padre partigiano“, da cui sono tratte alcune foto di questo pezzo.
«Anche quest’anno sono riuscita a commemorarli. La città è bloccata, ma a me hanno concesso di omaggiarli. Sarà stata la mia faccia da culo [ride, ndr]. È un’emozione enorme. Non li ho mai conosciuti ma li sento vicini, ci parlo. Quei ragazzi che hanno dato la vita per la libertà sono la mia famiglia».
Mario Bettega nasce a Lissone in Brianza, il 16 agosto del 1918. Fin da ragazzino si appassiona al calcio: un giocatore fisico, atletico, dal carattere vispo. Gioca in Serie C nella Pro Lissone, la squadra della sua città. Ha talento e segna pure qualche gol. Ben presto se ne accorgono anche i selezionatori di due grandi squadre, il Genoa e l’Inter. Così Mario nel 1939, quando ha 21 anni, fa due provini. Andarono talmente bene che al ragazzo non restava che scegliere in che squadra giocare. Quando due delle più blasonate squadre dell’epoca ti vogliono nelle loro file, probabilmente hai un grande futuro davanti. Probabilmente. Perché di lì a poco scoppia la guerra e i sogni calcistici finiscono nel cassetto.
All’epoca era molto diverso da oggi, alla passione per il calcio si affiancava il lavoro. Vale anche per Mario Bettega, che lavora alle industrie meccaniche Breda. Qui, il giovane conosce Enrico Bracesco, classe 1910 di Monza. Mario ed Enrico lavorano insieme, ma ben presto diventano più che semplici colleghi. Entrambi partecipano agli scioperi antifascisti del marzo 1943 e iniziano ad impegnarsi in prima linea per la Resistenza. La famiglia Bracesco è interamente antifascista. Carlo gestisce una trattoria a Monza che funge da punto di ritrovo e spesso come base per riunioni ed alloggi dei partigiani diretti verso le montagne. Il controllo nazifascista è sempre più stringente e la trattoria necessita di un motivo per giustificare le numerose persone che spesso ci si radunano. Trovano così “l’escamotage” perfetto: nasce la squadra di calcio amatoriale della Trattoria Bracesco, che si allena e gioca le partite contro altre squadre brianzole nei pressi del ristorante.
Su indicazione proprio di Enrico Bracesco, Bettega inizia a rifornire di otturatori e caricatori un artigiano metalmeccanico, Luciano Donghi, comunista ed ex-operaio, che in un laboratorio clandestino costruisce armi. Insieme, Bettega e Donghi tengono i contatti tra le Squadre di Azione Patriottica locale e i gruppi di partigiani in Valsassina e in Valtellina. Dopo la firma dell’armistizio dell’8 settembre, l’attività clandestina si fa sempre più rischiosa. Le spie alla Breda sono sempre più numerose e per Mario passare inosservato diventa sempre più difficile, anche per via del suo fisico atletico. Nonostante i rischi e la paura di essere scoperto, non rinuncia a lavorare in fabbrica ed aiutare i partigiani. Fino a quando, la sera del 23 febbraio 1944, la polizia fascista lo segue fino a casa. Le camicie nere parcheggiano la camionetta vicino allo stadio della Pro Lissone e proseguono a piedi fino all’abitazione di Bettega. Quando bussano alla porta, la madre di Mario apre senza esitazione, pensando che, come al solito, sia qualcuno della squadra di calcio che cerca il figlio. La polizia fa irruzione, lo arresta e lo porta prima al carcere di Monza e poi a San Vittore a Milano, dove viene classificato come prigioniero politico. Con quell’etichetta addosso, la sua sorte è segnata. Infatti, di lì a pochi giorni si trova su un vagone piombato in partenza dalla Stazione Centrale, prima per Bolzano e poi per Mauthausen in Austria. In uno dei più terribili lager nazisti, Mario Bettega muore il 19 marzo 1945. Oggi, il suo nome risplende sopra l’ingresso principale dello Stadio Comunale “Luigi Brugola” di Lissone.
Le vite di Bettega e Bracesco si erano separate già nell’ottobre del 1943, quando il secondo era rimasto coinvolto in un incidente mentre consegnava clandestinamente, insieme ad altri partigiani, un grosso quantitativo di armi. Tornato a casa, Bracesco riprende i contatti con gli amici della Breda, che sono impegnati nei grandi scioperi antifascisti del marzo 1944. Ormai, è però un nome noto ai militi del Regime, che lo arrestano il 20 marzo e lo portano a San Vittore. Il successivo 27 aprile, il carcerato fa parte di un convoglio che conduce numerosi prigionieri al campo di concentramento di Fossoli, dove resterà tre mesi. L’avanzata Alleata costringe la chiusura del campo e i prigionieri vengono velocemente spostati. Bracesco finisce prima a Bolzano e poi a Mauthausen, come ricorda nel suo libro di memorie il partigiano Siro Riboldi. Le vite di Bettega e Bracesco finiscono, così, per riunirsi troppo velocemente e nel punto sbagliato della Storia. Non sappiamo se s’incontrarono di nuovo all’interno del campo, ma di certo entrambi subirono la stessa drammatica fine. Enrico morì l’8 dicembre 1944.
Il calcio, gli scioperi antifascisti del marzo 1944 ed il campo di Mauthausen sono i punti di collegamento con un’altra storia, quella di Ferdinando Valletti. Nato a Verona il 5 aprile 1921, passa l’infanzia in collegio, perché «suo papà morì poco dopo la sua nascita e la mamma che lavorava non sapeva a chi lasciarlo – ricorda la figlia, Manuela Valletti, in un’intervista per The Pitch – e fu lì che si fece le ossa, sia caratterialmente che calcisticamente». Ben presto inizia a giocare come mediano nelle giovanili dell’Hellas Verona. Nel 1938 si diploma e si trasferisce a Milano per lavorare nella fabbrica dell’Alfa Romeo, lasciando così la sua città natale e la squadra di cui era tifoso. Viste le sue abilità con il pallone ai piedi, viene indirizzato al Seregno, che allora era il bacino d’utenza del Milan. Infatti, non passa molto prima che i rossoneri lo notino e lo inseriscano in squadra: giocherà due stagioni, dal 1941 al 1943, fino a quando la rottura del menisco lo costringe ad essere operato. Nel frattempo, il giovane Nando – come lo chiamano gli amici – si sposa. È il 1943, lui ha 22 anni e la moglie 21. I due giovani vogliono costruire la loro famiglia, ancora inconsapevoli di quello che sarebbe accaduto di lì a poco.
1° marzo 1944. All’Alfa Romeo, come in tante altre fabbriche dell’Italia Settentrionale, scoppiano gli scioperi antifascisti. Nelle prime settimane di quell’anno, Ferdinando era stato avvicinato dalla Brigata Garibaldi per aiutarli nella distribuzione dei volantini. «Aveva un carattere intraprendente e quando faceva una cosa tendeva a farla al meglio delle sue possibilità – ricorda la figlia – forse per questo fu indicato come uno dei principali responsabili, sebbene in realtà non fosse tra gli organizzatori dello sciopero». Un’intraprendenza che gli costerà molto cara. Infatti, l’arresto avviene la sera del giorno successivo, il 2 marzo 1944. «All’epoca viveva con la madre e la moglie, mia mamma. Quella sera citofonarono le camicie nere della Squadra di Azione Ettore Muti, lui non si aspettava di certo di essere entrato nel mirino dei fascisti, tant’è che scese in ciabatte. Gli dissero che avrebbe dovuto seguirli per degli accertamenti, così lui risalì a casa, tranquillizzò la moglie e la mamma e scese. Da quel momento loro non seppero più nulla di lui. Fu portato direttamente a San Vittore, dove restò due giorni, e poi al Binario 21 della Stazione Centrale dove fu messo su un convoglio diretto al campo di concentramento di Mauthausen. Anche lì non restò molto, circa una quindicina di giorni, poi fu nuovamente trasferito al campo di Gusen II». È qui che Valletti conosce il pittore milanese Aldo Carpi, che nel corso della prigionia riesce a documentare la vita e la morte del campo attraverso un diario che pubblicherà poi al suo ritorno. In quelle pagine si può leggere del giovane Nando.
L’episodio che, molto probabilmente, salva la vita a Valletti e ad alcuni suoi compagni di baracca è legato al pallone che rotola. «Questa è l’unica cosa che papà Nando ha raccontato fin da subito in famiglia», racconta la figlia. «I nazisti la domenica organizzavano piccoli tornei fra di loro, in un campo appena fuori dal lager. Capitò che una volta mancasse un giocatore, così uno dei Kapò si affacciò nelle baracche alla ricerca di un prigioniero che sapesse giocare. Valletti intravede in quella possibilità la sua occasione di salvezza e non si tira indietro, nonostante fosse provato dalla vita nel campo e pesasse 39 kg». Così, viene portato di fronte al comandante in capo per sostenere un provino, probabilmente perché se avesse mentito sulle sue capacità calcistiche sarebbe andato incontro ad una fucilazione immediata. Il mediano Valletti scende sul campo da calcio «con la sua tenuta da deportato, a piedi nudi, ma non molla» e grazie al suo bel gioco supera la prova. Diventa così la riserva ufficiale delle squadre naziste.
I tedeschi, che hanno bisogno di lui per la partita della domenica, lo trasferiscono: dagli scavi nelle gallerie sottoterra alle cucine. «Un cambio eccezionale per lui, perché era meno faticoso, gli permetteva di nutrirsi di più e di aiutare i suoi compagni di baracca, portando loro un poco di cibo che racimolava durante il giorno, nascondendolo tra la pianta del piede e lo zoccolo». Con questo aiuto riesce a rimettere in forze più di qualche compagno, in particolare Romanoni che non si reggeva più in piedi. Nando gli promette che lo avrebbe riportato a casa e quando arrivarono gli americani a liberarli, lo spinge fuori dal lager su una carrozzina. A loro si unirono Vignole, Crippa e Nespoli. Tutti e quattro vengono portati da un tenente americano sul lago di Ginevra, dove saranno curati. Da lì tornano a Milano, dove finalmente Nando poté abbracciare per la prima volta la figlia Manuela. Nel 2017, a dieci anni dalla sua morte, Ferdinando Valletti è stato proclamato “Giusto fra le Nazioni” per aver salvato i suoi compagni dell’Alfa Romeo.
Al fianco di Valletti in quelle partite appena fuori Mauthausen, in quel campo d’odio travestito da terreno di gioco, c’è un altro mediano con trascorsi da professionista: Vittorio Staccione. Vittorio avrebbe potuto essere la chioccia per il giovane promettente, se solo si fossero incontrati in un altro periodo della storia. Invece si ritrovano con la divisa a righe, di colori molto meno sgargianti di quelle indossate in carriera, a giocare qualche partita surreale contro i loro aguzzini. Una partita che però non bastò a Staccione per salvarsi la vita.
Vittorio Staccione nasce a Torino il 9 aprile 1904 da una famiglia di fede granata. A soli 11 anni viene scoperto in un campetto di periferia dal grande capitano dell’epoca, Heinrich Bachmann, che lo porta alle giovanili del Toro. Vittorio è un mediano roccioso, uno dei più forti della sua generazione, che si fa apprezzare sia in campo che fuori. Ben presto, grazie al fratello Francesco, si avvicina al giovane Partito Socialista. Inevitabile per chi viene da una famiglia proletaria con un padre che lavora in fonderia. Non è un violento, ma un’antagonista di pensiero mosso da ideali di libertà. Nel frattempo, il 3 febbraio 1924 fa il suo esordio assoluto in maglia granata contro l’Hellas Verona. Fin da subito, il regime fascista cerca di mettergli i bastoni fra le ruote a causa della sua inclinazione politica: nella stagione 1924/1925 si trasferisce in prestito alla Cremonese per fare il servizio militare. Nei grigiorossi di Cremona si mette in mostra, anche se «era stato segnalato al ras fascista della città, Farinacci, come un pericoloso sovversivo, tanto che nelle cronache sportive mettevano una X al posto del suo nome», racconta il nipote Federico Molinario nel libro “Il mediano di Mauthausen”. 25 presenze e un ottimo campionato convincono il Torino a riportarlo a casa. La stagione 1925/1926 non lo vede però protagonista, come in tanti si sarebbero aspettati. Solamente 6 presenze e la mancata partecipazione alla partita d’inaugurazione dello Stadio Filadelfia, in quanto pochi giorni prima le camicie nere gli avevano rotto due costole. L’anno successivo, con 17 presenze, partecipa al primo storico Scudetto del Torino, famoso anche perché verrà successivamente revocato per il caso Allemandi.
Il gerarca fascista della città piemontese fa pressione sulla società granata perché il socialista Staccione venga ceduto. Ad accoglierlo è la Fiorentina del marchese Ridolfi, con la quale si consacrerà definitivamente, tanto da essere inserito nella Hall of Fame della società viola come il miglior giocatore degli anni ’20 e ’30. A Firenze Vittorio conosce la moglie, Giulia Vannetti, e sembra aver trovato il suo posto nel mondo: beniamino della tifoseria e felicemente innamorato. In realtà, è solo l’inizio della fine. Durante il parto della loro prima figlia, la moglie Giulia e la piccola neonata muoiono. La tragedia colpisce tremendamente Vittorio, che non riuscirà più a riprendersi conducendolo fino alle porte dell’inferno. Non è più lo stesso uomo e nemmeno lo stesso calciatore. La parabola discendente lo conduce a giocare tre stagioni in Serie C al Cosenza e poi al Savoia di Torre Annunziata, dove la sua carriera s’interrompe nel 1935 a causa di un ginocchio spaccato.
Terminata la carriera calcistica, decide di accettare un lavoro a Torino come operaio in FIAT. Qui riallaccia i contatti con i movimenti socialisti, tanto da essere segnalato e schedato più volte dall’OVRA, la polizia segreta del Regime. Nel 1939 scoppia il conflitto bellico e Vittorio inizia a collaborare con i gruppi antifascisti, tanto da essere picchiato più e più volte dalle camicie nere. Come per gli altri protagonisti di questo articolo, è il 1° marzo 1944 la data che lo condanna definitivamente: viene denunciato come organizzatore delle rivolte operaie. Il 12 marzo viene arrestato dalla Polizia fascista. Il nipote Federico Molinario racconta l’episodio, che è stato tramandato in famiglia: «Il commissario di polizia cercò di salvarlo, gli spiegò che doveva andare a lavorare in Germania, dove faceva molto freddo e gli disse di andare a casa a mettere in valigia abiti pesanti. Gli stava offrendo la possibilità di fuggire, ma lui non lo fece. Tornò con la valigia, consegnandosi ai tedeschi. Questo dice tanto della sua natura». Ormai la vita di Vittorio si sta dirigendo verso la fine: il 16 marzo è sul convoglio numero 34 che si dirige verso Mauthausen, dove gli verrà tatuato il numero di matricola 59160. Nel lager austriaco viene assegnato alla ‘scala della morte’, 186 gradini che dalla cava portano al campo e sulla quale i detenuti devono trasportare pesanti blocchi di granito. Non gli resta che giocare la sua ultima partita, contro i suoi aguzzini, prima di spegnersi il 16 marzo 1945 dopo essere stato selvaggiamente picchiato dai nazisti.
Queste storie ci restituiscono l’immagine di uomini che hanno scelto di opporsi, tenendo la schiena dritta. Uomini che non hanno abbassato la testa per sopravvivere e che hanno messo in pericolo la loro vita per un ideale di libertà. Uomini che avrebbero potuto avere una vita più agiata, magari con al collo qualche medaglia sportiva. Ma come disse Gino Bartali, indimenticato ciclista che durante l’occupazione nazista, forte della sua condizione di campione in allenamento, trasportava documenti falsi per mettere in salvo gli ebrei, «Queste sono medaglie che non si appendono alla giacca, ma all’anima». Queste sono storie di Campioni. Perché per essere Campioni non basta essere grandi sportivi, ma è sufficiente essere grandi uomini.
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