Dall’Egitto allo Yemen. Le ombre del mercato italiano delle armi

Le proteste in Kazakhstan e l’accordo di cooperazione militare

Nel corso delle massicce proteste per l’aumento del costo del gas che hanno scosso il Kakakhstan nei primi giorni di gennaio, il presidente Kassym-Jomart Tokayev ha proclamato lo “stato di emergenza” e ha autorizzato l’esercito e le forze dell’ordine a sparare sulla folla senza preavviso. Secondo quanto riportato, si conterebbero decine di morti e migliaia di arresti. La brutalità della repressione nei confronti dei manifestanti ha portato all’intervento dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite ai diritti umani, Michelle Bachelet, mentre dalla vicina Russia e dai paesi del CSTO (Collective Security Treaty Organization) sono stati inviati nel paese migliaia di soldati in sostegno del governo di Nur-Sultan e della stabilità regionale.

Dal 2012 il governo italiano ha un accordo di cooperazione militare con il Kazakhstan che prevede l’esportazione di armi e sistemi militari italiani. Il volume del traffico di armi tra Roma e Nur-Sultan ammonterebbe a circa 1,7 milioni di euro, e nel solo 2020 l’Italia ha esportato 465mila dollari di armi e munizioni. Si tratta principalmente di armi leggere, che potrebbero essere state utilizzate dai corpi di polizia nel corso delle proteste e che quindi potrebbero aver contribuito alle morti di decine di manifestanti nelle ultime settimane.

Il commercio di armi nell’ordinamento italiano

La legge n. 185 del 1990 che regolamenta le esportazioni di armamenti, prevede espressamente il divieto di esportare armamenti e sistemi militari «verso i Paesi in stato di conflitto armato», «verso Paesi la cui politica contrasti con i principi dell’articolo 11 della Costituzione» e «verso i Paesi i cui governi sono responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani, accertate dai competenti organi delle Nazioni Unite, dell’UE o del Consiglio d’Europa» (art. 1). La brutalità della repressione messa in atto dal regime e lo stesso intervento di Michelle Bachelet rendono evidente come il Kazakhstan non possa essere considerato un partner affidabile nel commercio di armi e che il mantenimento degli accordi di cooperazione militare rappresenti, di fatto, un escamotage volto ad aggirare i divieti imposti dalla legge del 1990 e a consentire maggiore agibilità al mercato delle armi.

Il volume della vendita di armi al regime kazako, tuttavia, rimane marginale rispetto ai principali partner dell’Italia nel settore bellico. Secondo quanto rivelato da Rete italiana Pace e Disarmo, per il quinto anno consecutivo la maggior parte degli armamenti e dei sistemi militari italiani è stata destinata, nel 2020, a Paesi situati nelle aree del Nord Africa e del Medio Oriente. Per il secondo anno consecutivo, l’Egitto si è confermato come maggiore acquirente di armi italiane. Oltre all’Egitto, la maggior parte delle vendite sono andata al Qatar, al Turkmenistan e all’Arabia Saudita. Secondo il rapporto Sipri del 2021 la vendita di armi italiane verso l’estero è calata del 25% rispetto all’anno precedente. Si parla di 4 miliardi di operazioni autorizzate, per cui l’Italia vanta il 2,2% delle esportazioni del mercato globale. Il partner prediletto, come detto, resta l’Egitto con un totale di 991,2 milioni di euro di esportazioni. Azienda leader del settore resta Leonardo, che ha come maggiore azionista il Ministero dell’Economia. L’ex Finmeccanica nel 2019 ha fatturato più di 11 miliardi di euro. A livello globale, i trend confermano che lo scoppio della pandemia non ha comportato un’effettiva flessione nello scoppio dei conflitti né nel flusso e nella produzione di armamenti.

Gli affari con l’Egitto del rais al-Sisi

Il primato dell’Egitto come primo partner italiano nel commercio di armi si spiega in gran parte con la licenza di vendita di due fregate – la Spartaco Schergat e la Emilio Bianchi – prodotte da Fincantieri nell’ambito del programma Fremm. La vendita delle due fregate faceva parte di un progetto ancora più ampio, il cui valore complessivo si aggirava intorno ai 9 miliardi di euro e che è stato concluso solo in parte. Secondo quanto ipotizzato già nel 2020 dalla stampa araba indipendente, la maxi-commessa avrebbe lo scopo di evitare escalation con il governo italiano sul caso Regeni. Con l’acquisto di sistemi italiani, al-Sisi si garantirebbe, almeno in parte, toni bassi sulla vicenda che da ormai sei anni anima l’opinione pubblica degli attivisti di tutta Europa. 

Si potrebbe parlare, in questo caso, di un approccio di condizionalità inversa: non solo, come teorizzato dal presidente francese Macron, il rispetto dei diritti umani non può condizionare gli affari, ma gli affari stessi e il flusso di denaro sarebbero sufficienti a seppellire e a far dimenticare le più brutali violazioni perpetrate nei confronti di liberi cittadini.

La guerra in Yemen e i rapporti con le monarchie del Golfo

Nel giugno dello scorso anno una decisione del governo italiano ha portato allo stop nella vendita di bombe e missili verso la colazione saudita impegnata da anni nel sanguinoso conflitto dello Yemen. La decisione cancellerebbe le licenze rilasciate nel 2016 dopo lo scoppio della guerra. La revoca, avvenuta nelle stesse ore della decisione dell’amministrazione Biden per una “sospensione temporanea” della vendita di armi a Arabia Saudita e Emirati, ha portata storica e ha causato la reazione dell’azienda Bombe Rwm Italia, che ha sede legale nella provincia di Brescia e i cui stabilimenti si trovano nel Sulcis, nel Sud della Sardegna. Proprio pochi giorni fa Al Jazeera ha documentato il crescente attivismo della società civile sarda nei confronti della tedesca Rwm e del ruolo invasivo che “l’industria della morte” esercita sul territorio. 

L’ultima decisione del governo ha sancito il superamento della clausola end-user certificate che vieta l’utilizzo delle armi italiane nella guerra in Yemen. Resta in vigore il divieto di esportazione di bombe e missili, ma ancora una volta i principi sanciti dalla 185/90 vengono sacrificati in nome degli interessi commerciali e diplomatici. Nella fattispecie, il divieto di vendita di armi viene alleggerito per non compromettere i rapporti con le monarchie del Golfo, che da diversi anni a questa parte sfruttano peso e caratura internazionale per imporre le proprie condizioni ai partner occidentali.

Alcune delle vittime della guerra nello Yemen © Mohammed Hamoud/Getty Images

I proiettili italiani in Myanmar

Secondo quanto riportato da diverse organizzazioni della società civile italiana, Italia e Francia starebbero vendendo velivoli, armi e munizioni alla giunta militare al potere in Myanmar. Nei confronti della Birmania, dal 1996, è in vigore un embargo che comprende “parti di ricambio, riparazioni, manutenzione e il trasferimento di tecnologia militare” e, dal 26 aprile 2018, include anche “il divieto di esportazione di beni a duplice uso per gli utenti finali militari e della Polizia di frontiera (e) restrizioni all’esportazione di apparecchiature per il monitoraggio delle comunicazioni che potrebbero essere utilizzate per la repressione interna, l’addestramento militare e la cooperazione militare”.

Già nella scorsa primavera erano stati ritrovati proiettili italiani utilizzati dai militari nel corso della sanguinosa repressione delle proteste popolari. Nelle scorse settimane, poi, le nuove inchieste hanno portato alla luce il sistema di triangolazioni con cui l’Italia starebbe eludendo, tramite l’utilizzo di paesi terzi, l’embargo verso il Myanmar e i limiti imposti dalla 185/90. Sono diversi i paesi asiatici che continuano a fare affari con i golpisti al potere (Cina, India, Thailandia), e con ogni probabilità uno di questi è stato coinvolto nella triangolazione per l’invio di armi. L’ex Birmania, già prima dei disordini della scorsa primavera, era più volte stata sotto accusa per crimini di guerra e violazioni dei diritti umani nei confronti della minoranza dei Rohingya. Ancora una volta, le priorità del governo italiano vanno oltre il quadro normativo. 

Una legge che non trova applicazione

Lo scorso maggio, 33 organizzazioni della società civile italiana hanno lanciato un appello al governo italiano per la tutela e il rispetto della legge 185/90 che regolamenta il commercio di armi e l’export militare. La legge esiste da oltre trent’anni ma è stata disattesa in numerose occasioni. La 185/90 prevede che le aziende produttrici di armamenti chiedano al governo le autorizzazioni ad esportare e vieta di fornire armi a Paesi in conflitto armato, in contrasto con l’articolo 11 della Costituzione (in cui si afferma che l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli), o che si rendano colpevoli di violazioni dei diritti umani. Un divieto che viene aggirato nei modi più disparati da aziende e governo, sia utilizzando il sistema della triangolazione (come nel caso del Myanmar) sia attraverso la firma di accordi di cooperazione con paesi stranieri (come nel caso del Kazakhstan), indebolendo il controllo sugli accordi di vendita e il quadro di riferimento dei criteri di esclusione.

Con ogni evidenza, gran parte della produzione di armamenti, in Italia, è rivolta all’export e alla vendita verso l’estero più che alla difesa e alla sicurezza del paese. Quello delle armi è un giro di affari che risponde alle logiche di mercato e di profitto delle industrie di armamenti: lo stretto legame tra le aziende produttrici e il governo rischia di gettare più di un’ombra sulla trasparenza e sull’integrità del processo politico. 

Classe 1989. Ho studiato scienze politiche e cooperazione internazionale. Appassionato di montagna e di sport, seguo e studio la realtà mediorientale

la tua finestra sul mondo

Iscriviti alla newsletter:

    SEGUICI: