La disumanità del calcio

L’11 settembre 2001 è un martedì che ancora presenta per gli studenti italiani gli ultimi scampoli di vacanza da godersi, con le scuole che ricominciano solamente il giovedì seguente. «L’estate sta finendo e un anno se ne va» cantavano i Righeira nel 1985, ma il verso della loro canzone descrive perfettamente il sentimento che accompagna quel martedì qualsiasi. L’improvvisa interruzione della Melevisione, in onda in quel momento sui Rai 3, è il ricordo più nitido che un’intera generazione, ancora troppo piccola per comprendere la gravità di quanto sta accadendo, si porta dentro di quella tragedia.

Tonio Cartonio sta rimproverando Fata Lina per aver trascurato i suoi amici, quando improvvisamente la Melevisione viene interrotta dall’annuncio di un’edizione straordinaria del Tg3.

Sono le ore 15:45, quando l’intero panorama televisivo italiano interrompe la propria programmazione per trasmettere le immagini dello schianto di due aerei sulle Torri Gemelle di New York. L’intero pianeta si ferma a guardare sgomento quanto sta accadendo negli USA: le persone non parlano d’altro e probabilmente non pensano ad altro. Anche a Nyon, in Svizzera, dove ha sede la UEFA, il sentimento deve essere stato lo stesso.

Il tempo massimo, per un iniziale e comprensibile shock che aveva paralizzato ogni reazione, è da fissarsi alle ore 16:28, quando in mondovisione crolla anche la seconda torre. Al massimo organismo calcistico europeo si rendono conto della gravità della situazione e si trovano a dover prendere una decisione, perché quella sera sono in programma otto partite di Champions League: Dynamo Kiev-Borussia Dortmund; Liverpool-Boavista; Maiorca-Arsenal; FC Schalke 04-Panathinaikos, a Gelsenkirchen; Nantes-PSV Eindhoven; Lokomotiv Mosca-Anderlecht; Roma-Real Madrid; Galatasaray-Lazio, a Istanbul.

Dopo aver contattato le autorità sportive dei Paesi interessati, che però non hanno risposte, il Segretario della UEFA, Gerhard Aigner, decide di consultarsi con i vertici dell’Unione Europea e con Joseph Blatter, Presidente della FIFA e “burattinaio” del calcio mondiale. Come spesso accade nel calcio, le autorità decidono di non decidere: qualsiasi decisione andrà concordata con i Ministeri dell’Interno dei paesi interessati.

La prima giornata di Champions League

Nel frattempo, a Oporto, la Juventus è in ritiro all’Hotel Palacio, in vista della sfida del giorno successivo contro il giovane Porto che negli anni successivi conquisterà la doppietta Coppa UEFA-Champions League sotto la guida di José Mourinho. Nei momenti convulsi di quelle ore, qualcuno chiama la polizia portoghese avvisandoli dell’imminente esplosione che ci sarà di lì a poco al World Trade Center, un centro commerciale nei pressi dell’albergo dei bianconeri. L’intera squadra viene fatta evacuare immediatamente dalle camere.

L’immagine del secondo aereo che si schianta sulle Torri Gemelle di New York, 11 settembre 2001. – Fonte: Twitter

La Roma invece si trova a Trigoria, sede del centro di allenamento, in vista della partita contro i Galagticos del Real Madrid. Per la squadra Campione d’Italia in carica non si tratta di una partita normale: è il ritorno in Champions League, a 17 anni dall’ultima partita in questa competizione, la finale persa contro il Liverpool nel maggio del 1984. L’attesa in città è palpabile, ancor più dopo al decisione di mettere sul mercato anche i seimila biglietti per i Distinti Nord, destinati ai tifosi madridisti e rimasti invenduti. I tagliandi in eccesso vengono venduti in meno di mezz’ora e l’Olimpico si preannuncia vestito a festa. Le notizie provenienti da New York mettono però fine alla concentrazione che precede un match così sentito.

Eravamo basiti, incollati allo schermo, come tutti. Le immagini parlavano da sole, sconvolgenti, abbiamo ancora davanti agli occhi il terribile schianto dei due aerei sulle Torri Gemelle. Furono momenti di sgomento, ma noi dovevamo pensare che di lì a poco ci saremmo trovati di fronte il Real… E invece arrivammo allo stadio discutendo solo delle notizie che provenivano da New York.

Vincenzo Montella, a “SkySport

The show must go on…

Alle ore 18:00, a Mosca, comincia ufficialmente la prima giornata dei gironi di Champions League 2001/2002, con la sfida tra la Lokomotiv Mosca e i belgi dell’Anderlecht. Dalla UEFA, nel frattempo, continuano a non arrivare notizie. Anche perché i segnali provenienti dai vari paesi interessati sono contrastanti: la polizia di Istanbul, ad esempio, fa presente che gran parte del pubblico ha già preso posto all’interno dello Stadio Ali Sami Yen e che evacuarlo significherebbe provocare problemi di ordine pubblico.

La presa di posizione della FIGC arriva mezz’ora più tardi, con un fax del Presidente Franco Carraro in cui chiede alla UEFA l’annullamento delle partite per ragioni di «sensibilità e logisitca». Anche Franco Sensi, compianto presidente giallorosso, comunica al Prefetto della Capitale la volontà di non giocare.

Tutto sembra portare nella direzione di un rinvio, tanto che i bagarini fuori dallo stadio fanno crollare i prezzi dei biglietti. Il Presidente del CONI però non è persuaso da questa soluzione, ascoltata anche l’opinione delle forze dell’ordine riluttanti a far evacuare l’Olimpico a ridosso della partita. Petrucci riesce così a convincere Aigner a optare per la più cerchiobottista della soluzioni: si gioca, ma con il lutto al braccio, il minuto di silenzio e senza inni. I palazzi del calcio si dimostrano, per la prima volta nell’epoca contemporanea di questo sport, incapaci di gestire una situazione che dovrebbe far passare tutto il resto in secondo piano, anteponendo il the show must go on davanti a tutto.

Batistuta e Montella durante il minuto di silenzio per le vittime dell’attentato alle Torri Gemelle di New York.
Roma-Real Madrid 1-2, Champions League, 11 settembre 2001. – Fonte: YouTube

«Lo stadio era stracolmo, c’erano 70mila spettatori che fremevano dalla voglia di tornare a respirare il grande calcio». Il ricordo di Montella di quella sera di Champions delinea uno scenario ben diverso da quello raccontato dai media nei giorni successivi, che parleranno di clima irreale. Invece, nonostante le tremende immagini del pomeriggio, la partita si svolse in un clima più “normale” possibile. Il calcio, come sempre, è capace per due ore di anestetizzare qualsiasi emozione esterna al terreno di gioco. E così fece anche quella sera: cancellando la paura e la tristezza di un Olimpico tutto esaurito.

La follia di Istanbul

Al fischio dell’arbitro inglese Graham Poll, che decreta l’inizio del minuto di silenzio, dallo stadio si leva un fragoroso applauso. In parecchi intonano l’Inno di Mameli: la nostra ancora di salvezza nei frangenti di paura. Intanto, a Istanbul, la Lazio sta vivendo una situazione ancor più surreale: il minuto di silenzio viene fischiato dal pubblico turco. Addirittura, secondo quanto riporta la Gazzetta dello Sport, in diversi avrebbero gridato: «Usa, Usa, vaffanculo». 

L’allenatore del Milan di quel momento, il turco Fatih Terim – uno che chiamano l’Imperatore non a caso -, il giorno successivo si esibisce in una conferenza stampa degna dei migliori diplomatici del mondo. Da ex allenatore del Galatasaray, e quindi ottimo conoscitore della tifoseria giallorossa, dichiara che «in Turchia i fischi sono segni di protesta e non di approvazione. Quei fischi, dunque, potrebbero essere un segno di protesta nei confronti dei terroristi». Anche perché il paese «è da trent’anni obiettivo delle azioni terroristiche».

Fatih Terim nel 2018, durante la sua quarta esperienza da allenatore del Galatasaray. – © Wikimedia Commons

Al termine delle partite di quell’11 settembre è ormai chiaro che non si sarebbe dovuti scendere in campo. Il Presidente della Roma, Franco Sensi, davanti ai microfoni dei cronisti ribadisce la posizione espressa anche prima del match: «Quello che è successo negli Stati Uniti è incredibile. È dalla fine della Seconda Guerra Mondiale che non si vedevano scene così. Una tragedia così grande forse meritava un’interruzione del calcio». Per la cronaca, a seguito delle numerose e feroci critiche ricevute, la UEFA annulla le restanti otto partite in programma per il giorno successivo.

La reazione dello sport americano

Negli States, invece, l’approccio fu diametralmente opposto: il 18 settembre inizia la stagione di baseball, lo sport più nazional-popolare degli USA. La scelta di iniziare regolarmente il campionato di MLB è mossa dal desiderio di regalare agli americani un po’ di normalità. I New York Mets e i New York Yankees, le due franchigie della Grande Mela, si misero a disposizione della città per far fronte alla grave emergenza, tanto che lo Shea Stadium – casa dei Mets – fu trasformato in un rifugio per sfollati e volontari. Nel frattempo, in tutti gli stadi d’America, tifosi e giocatori indossavano cappellini con le sigle della polizia e dei vigili del fuoco di New York. Riprese così a scorrere gli vita degli statunitensi.

Al Comiskey Park di Chicago ricomincia la stagione del baseball americano. I Chicago White Sox ospitano i New York Yankees nella prima partita dopo l’attentato delle Torri Gemelle. 18 settembre 2001.

L’arretratezza del calcio

A vent’anni di distanza appare evidente come la UEFA, ma il calcio più in generale, non sia stata capace di migliorare il proprio approccio a tutti quegli eventi e quelle tematiche con una rilevanza ben più importante dello sport. Basti pensare solo all’ultimo caso, avvenuto durante Euro 2020, quando la UEFA ha negato all’amministrazione di Monaco di Baviera di colorare lo stadio con la bandiera arcobaleno a sostegno del movimento LGBTQ, per non urtare la sensibilità degli ungheresi, che avrebbero dovuto giocare contro la Germania.

Invece, sono gli atleti ad aver acquisito una maggior consapevolezza del proprio “potere” mediatico ed aver sviluppato una coscienza politica sui temi sociali. Come dimostrano il concetto di More Than an Athlete, promosso da LeBron James, e le numerose iniziative messe in campo dalla NBA e dai suoi giocatori a sostegno del movimento Black Lives Matter.

Micheal Jordan: figlio del suo tempo

Certamente, quella notte è stata il punto di rottura che ha costretto il mondo dello sport ad interrogarsi seriamente sull’impatto che può avere sul mondo. Una transizione che può essere raccontata attraverso due episodi della vita di Micheal Jordan.

Da una parte la battuta, databile 1990, – di cui, per altro, resta in dubbio la veridicità – “anche i repubblicani comprano le sneakers“, che His Airness avrebbe detto ad un amico per spiegare il mancato supporto al senatore Harvey Gantt nella corsa per lo Stato della Carolina contro il repubblicano Jesse Helms. Dall’altra, invece, quanto accaduto due settimane dopo i tragici fatti dell’11 settembre, quando Jordan annunciò il suo ritorno al basket giocato, con il numero 23 dei Washington Wizards.

Eravamo seduti negli spogliatoi e stavamo sentendo in TV le parole dei membri della famiglia di alcune delle persone che avevano perso la vita. Io guardai MJ ed era bloccato fissando lo schermo, e i suoi occhi iniziarono a inumidirsi e si morse il labbro inferiore come se stesse cercando di reagire alle lacrime. Poi disse al personale dei Wizards di donare il suo intero anno di stipendio alla famiglia delle vittime dell’11 settembre.

Etan Thomas

Due semplici episodi che, probabilmente, nulla raccontano di che uomo sia stato Jordan, ma che esemplificano perfettamente cosa abbia significato l’attacco delle Torri Gemelle per il mondo dello sport: un cambio di approccio al mondo. Anche se per il calcio, come sempre, c’è ancora da attendere.

Giovanni è un milanese doc trapiantato a Roma, che non pensa minimamente di rinnegare la cotoletta fritta nel burro, come da tradizione meneghina. Vaticanista, che sogna di raccontare un conclave. Sottovoce sostiene che Guccini sia leggermente meglio di De André. Nel suo mondo ideale vorrebbe vedere Vinnie Jones marcare Neymar

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