Disunited States of America – 1. Il fortino del Nordest

Come ormai abbiamo imparato, le elezioni negli Usa non si decidono su scala nazionale ma stato per stato. Nessuna delle 50 stelle è uguale all’altra – e siamo d’accordo – ma alcune di loro hanno caratteristiche storiche, sociali, culturali e in definitiva politiche abbastanza omogenee. Questa è la prima di otto tappe con cui The Pitch proverà a condurvi nelle pieghe del gigante americano. Molto meno monolitico e più sfaccettato di quanto siamo abituati a pensare. Perché ancora una volta sarà una manciata di stati-chiave a definire il nome del prossimo Presidente.

Dove si decideranno le prime elezioni americane post-pandemia? Sicuramente non nel Nordest, verrebbe da dire. Lo dicono i risultati elettorali degli ultimi decenni e lo confermano i sondaggi: FiveThirtyEight, la piattaforma dello specialista Nate Silver, non inserisce nessuno degli 11 stati nordorientali nella lista di quelli in bilico e dà al presidente uscente più dell’1% di chance di vittoria solo in Maine (18%) e New Hampshire (28%). Insomma, un vero e proprio fortino “blu”, dal colore tradizionalmente assegnato al Partito democratico Usa. È sempre stato così? Assolutamente no. Lo sarà ancora per molto? Non s’intravedono indicatori che possano far pensare il contrario ma quando si tratta di politica, tanto più se americana, è tutto talmente fluido che è difficile fare previsioni a medio-lungo termine. Di certo c’è che quassù quattro anni fa Trump non è nemmeno stato della partita.

L’esito delle elezioni del 2016. Dei 92 grandi elettori assegnati dal Northeast (sui 538 totali), 91 andarono a Hillary Clinton.

Una breve premessa, a scanso di equivoci. Negli Stati Uniti ogni stato assegna un numero di grandi elettori proporzionato alla propria popolazione: per intenderci si va dai 55 della California ai 3 di quelli meno popolosi. Al di là di alcune eccezioni (su cui sorvoleremo per comodità e rapidità) basta un solo voto in più per portarsi a casa l’intero bottino messo in palio da uno stato. Ecco perché Trump – come altri quattro presidenti prima di lui – nel 2016 riuscì a conquistare la Casa Bianca pur avendo raccolto meno voti totali rispetto alla sua sfidante. Nel Nordest, come detto, non ci fu partita: solo un piccolo distretto del Maine (il pallino rosso all’interno della macchia blu in alto a destra nella mappa) separò la Clinton dall’en plein. En plein che i democratici continuano a centrare ininterrottamente dal 2004: l’ultimo a strappare uno stato del Nordest ai dem fu George W. Bush con il New Hampshire.

Ma perché questa regione è da ormai una trentina d’anni un feudo inespugnabile del Partito Democratico? La risposta più semplice, ma non per questo priva di fondamento, è che stiamo parlando di una delle aree più progressiste del paese: anche quando quassù dominavano i repubblicani (erano decisamente altri tempi), si trattava dell’ala più riformista del Grand Old Party, quella più marcatamente anti-schiavista e più convintamente liberale, tanto che quando il partito iniziò a spostarsi gradualmente sempre più a destra molti dei rappresentanti del Nordest passarono armi e bagagli nelle file dei democratici. Come noto, siamo nella “culla della Nazione”: qui (Massachussetts) s’insediarono i primi coloni europei, qui (Pennsylvania, non inclusa in quest’articolo per motivi che spiegheremo meglio più avanti) fu firmata la Dichiarazione d’indipendenza, qui (D.C.) ha sede la capitale federale.

Di cosa stiamo parlando

È la zona culturalmente più vicina all’Europa e laddove si è costruita una società fondata su valori di matrice illuminista, da subito caratterizzata da un forte dinamismo imprenditoriale e dal “culto” della mobilità sociale. Un’area, poi, molto densamente popolata (per gli standard del paese, s’intende): in un fazzoletto di terra grande meno del 3% dell’intero territorio Usa vive più di un americano su otto, tanto che spesso ci si riferisce alla regione come alla “megalopoli Bos-Wash“, da Boston a Washington. E metropoli in America è quasi sempre sinonimo di voto dem, anche (ma non solo) per l’alta percentuale di minoranze etniche presenti nelle grandi città. Last but not least il livello d’istruzione nel Nordest è uno dei più alti del paese e l’area ospita molte delle università più quotate al mondo (Columbia, Harvard, Princeton e Yale, solo per citare le più note): garanzia di mentalità cosmopolita.

I sei stati che formano il cosiddetto New England (33 grandi elettori in tutto) sono, come suggerisce la definizione, i più legati all’antica madrepatria. Il Vermont è patria del senatore Bernie Sanders, noto per le sue posizioni molto radicali in tema di welfare e accusato dai detrattori di aver costretto il candidato dem Joe Biden a spostarsi su posizioni sempre più estremiste per assicurarsi i voti dei suoi agguerritissimi sostenitori. Il Massachusetts è considerabile alla stregua dell’Emilia-Romagna in Italia per quanto inscalfibile è il dominio della sinistra e su posizioni analoghe sono i due piccoli vicini, Connecticut e Rhode Island. Discorso leggermente diverso va fatto per Maine e New Hampshire, non a caso citati all’inizio come gli unici due stati in cui Trump non è dato perdente in partenza. Il primo per il sistema elettorale cervellotico di cui sopra, il secondo per una storia molto particolare.

Ogni stato americano ha un motto. Questo è quello del New Hampshire.

Se il Maine è, insieme al Nebraska, l’unico stato in cui non vige il principio del winner takes all o del all-or-nothing (con un voto in più mi prendo tutti gli elettori) e in più ha storicamente un numero molto alto di elettori registrati come indipendenti, il New Hampshire è caratterizzato da una fortissima componente libertaria ben sintetizzata dal motto “Live free or die”. Qui, per dirne una, non è obbligatoria l’assicurazione sui veicoli e moltissime norme per noi assolutamente naturali sono considerate una violazione della libertà personale. Un retroterra culturale che in politica spiccia si traduce in una leggerissima contendibilità in più rispetto agli stati vicini. Non a caso è uno dei pochi stati del Nordest in cui Trump sta impegnando risorse ed energie elettorali. Gran parte degli altri li dà per persi. A partire dalla “sua” New York (29 grandi elettori), dove non ha speranze.

In realtà anche qui bisognerebbe distinguere tra la metropoli e le aree rurali dello stato che si estende fino al confine col Canada: se il colore della Grande Mela non è mai stato in discussione e tanto meno lo è quello delle altre città più popolose (Buffalo, Rochester e la capitale Albany), le campagne continuano a votare repubblicano. Simile a quello di Nyc è il comportamento elettorale del New Jersey (14 grandi elettori) che della megalopoli è dirimpettaio e in buona parte “dormitorio”. Infine, se il Maryland (10) è molto legato demograficamente – e quindi elettoralmente – alla vicina Washington D.C. (3), roccaforte dem in quanto abitata in gran parte da funzionari federali e “lavoratori della politica”, il Delaware (3) è lo stato di Biden. Che difficilmente quindi i democratici perderanno, dopo quarant’anni di dominio incontrastato.

Insomma, Trump può sperare ma non deve illudersi.

Emiliano Mariotti è nato a Milano nel 1991, si è laureato in Storia e poi ha frequentato la Scuola di Giornalismo “Walter Tobagi”. Giornalista di nome ma comunicatore di fatto, sogna di scrivere come Gianni Mura ma si accontenterebbe di fare il corrispondente da Istanbul.

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