Disunited States of America – 5. In Texas c’è partita?

Come ormai abbiamo imparato, le elezioni negli Usa non si decidono su scala nazionale ma stato per stato. Nessuna delle 50 stelle è uguale all’altra – e siamo d’accordo – ma alcune di loro hanno caratteristiche storiche, sociali, culturali e in definitiva politiche abbastanza omogenee. Questa è la quinta di otto tappe con cui The Pitch proverà a condurvi nelle pieghe del gigante americano. Molto meno monolitico e più sfaccettato di quanto siamo abituati a pensare. Perché ancora una volta sarà una manciata di stati-chiave a definire il nome del prossimo Presidente.

Una popolazione sempre più vicina ai 30 milioni di abitanti, una storia peculiare e una forte e precisa identità socio-politica. Il Texas più che a uno stato facente parte della federazione assomiglia in tutto e per tutto a uno stato nazionale indipendente. Non a caso è l’unica delle 50 stelle a essere stata, seppur per un breve periodo di transizione, una Repubblica autonoma. D’altra parte però resta un luogo profondamente americano, nel senso più tipicamente valoriale del termine. In Texas individualismo, spirito d’impresa (e d’avventura) e fiducia nell’ascensore sociale sono una sorta di religione. La grande disponibilità di pascoli e terreni coltivabili prima e di ricchezze del sottosuolo poi hanno attratto quaggiù milioni di americani (e non solo) alla ricerca del successo. Ecco perché è oggi uno dei luoghi più ricchi degli Usa e del mondo, in netto contrasto con gli stati circostanti.

Di cosa stiamo parlando: di uno stato grande, strategico, ricco e da sempre a metà tra conservatorismo ed eterno mutamento

Da un punto di vista politico, nell’ultimo secolo non s’è distanziato troppo dal resto degli stati del Sud: di forti tendenze conservatrici, anche il Texas ha conosciuto tra gli anni ’60 e ’70 il “balzo” dal Partito democratico a quello repubblicano. Se l’ultimo dem a vincere qui fu Jimmy Carter nel lontano 1976 (è passata un’era geologica), fino a mezzo secolo fa il Lone Star State era una vera e propria roccaforte democratica, sia a livello elettorale sia a livello di estrazione della classe dirigente: su tutti il texanissimo Lyndon Johnson. Da allora Texas è diventato sinonimo di Gop, quasi lo stato repubblicano per antonomasia. Eppure qualcosa recentemente sta cambiando e se oggi i sondaggi danno Biden (45%) ad appena due punti percentuali da Trump è evidente che la leggenda dello stato non più contendibile vacilla. Se cade il Texas, per i repubblicani il futuro è tutt’altro che roseo.

I 38 grandi elettori che assicura, secondi solo ai 55 della California (l’altro stato-nazione degli Usa), costituiscono da decenni le fondamenta sulle quali ogni candidato presidente del Gop tenta di costruire la propria autostrada verso la Casa Bianca. In assenza di questi, l’autostrada rischia di trasformarsi in un sentiero tortuoso e senza uscita. E non si tratta solo di un problema contingente: i mutamenti demografici e sociali in corso nello stato (e nel paese) potrebbero condannare i repubblicani all’inseguimento per le prossime due, tre o quattro elezioni. Motivo per cui le preoccupazioni dell’establishment del partito vanno ben oltre il 3 novembre: conservare il controllo del Texas per qualche pugno di voti vorrebbe dire salvare la faccia solo temporaneamente. Perché nel frattempo lo stato sta cambiando volto e lo sta facendo a una velocità che ha spiazzato molti. Non solo nel Gop.

Quando una mappa dice più di tante parole…

Come in tutti gli stati precedentemente sotto il controllo messicano (California, New Mexico, Arizona e Nevada) la presenza di minoranze ispanofone è sempre stata una costante. Il Texas però sta conoscendo una crescita esponenziale delle percentuali di ispanici (ora attorno al 38%): già nel 2010 i “non hispanic white” avevano perso la maggioranza assoluta e a breve, secondo qualsiasi previsione demografica, avverrà il sorpasso. Merito dell’elevato tasso riproduttivo e dell’attrattività economica di un’area che, grazie anche al basso prezzo delle abitazioni, continua a calamitare migranti dal centro e – in misura minore – dal sud del continente. La rappresentazione più plastica di come gli Usa si stiano avviando da realtà a maggioranza bianca a paese senza un gruppo etnico predominante: da qualche anno si parla del Texas come di “America del futuro”.

Non solo: lo sviluppo – più recente rispetto ad altre zone del paese – di grandi aree metropolitane (solo la conurbazione tra Dallas, Fort Worth, Houston, San Antonio e Austin ospita l’80% dell’intera popolazione texana) ha contribuito a trasformare uno stato rurale, bianco e conservatore in uno densamente popolato, profondamente urbanizzato e decisamente multiculturale. E se – come abbiamo già visto: in questo il Texas non fa eccezione – il Gop viene votato principalmente dalla maggioranza bianca che vive nelle aree rurali e dal segmento più anziano della popolazione, i democratici locali sognano il colpaccio grazie al contributo di ispanici, giovani, donne e professionisti colti delle città. Un colpaccio che nel caso arrivasse – oggi o tra quattro anni – rischierebbe di cambiare per sempre gli equilibri politici dell’intera nazione. Biden spera, Trump non può sbagliare.

Nelle puntate precedenti:
1. Il Fortino del Nordest
2. “Rust Belt” ancora decisiva?
3. Il (profondo?) Sud
4. Il rebus della Florida

Emiliano Mariotti è nato a Milano nel 1991, si è laureato in Storia e poi ha frequentato la Scuola di Giornalismo “Walter Tobagi”. Giornalista di nome ma comunicatore di fatto, sogna di scrivere come Gianni Mura ma si accontenterebbe di fare il corrispondente da Istanbul.

la tua finestra sul mondo

Iscriviti alla newsletter:

    SEGUICI: