Drammi d’autore e ritorno alla violenza. Il cinema francese contemporaneo

Non è facile definire i connotati del cinema francese posteriore agli anni ’60. Questo perché l’identità era stata molto marcata negli anni precedenti: l’atmosfera del Noir definiva uomini cupi immessi in situazioni di tragedia continua, e non era differente il Realismo Poetico nel definire un’umanità non sofisticata. Era poi venuto il tempo della Nouvelle Vague la quale, come abbiamo visto, fu in realtà segnata significativamente dalla stagione 1959-60, almeno al botteghino, anche se il suo lascito culturale fu sbalorditivo, tanto che ancora oggi chi non si occupa di cinema con scrupolo o per motivi professionali tende ad associare la storia tutta del cinema francese a quel solo movimento circoscritto. Dopo gli anni Sessanta, la Francia tornò gradualmente al suo sistema di Star e di cinema tradizionale. Belmondo fu utilizzato anche in ruoli meno “ameni” e giocondi, i più disparati, nei quali ebbe la possibilità di mettere in mostra un talento trasversale, orizzontale. Continuò parimenti l’ascesa di Delon, che entrato nei ’70 era ormai forse l’attore europeo più noto al mondo: fu per lui un decennio di assestamento che lo traghettò verso i più “commerciali” anni ’80; furono in ogni caso due decenni che fecero comprendere bene che i divi francesi non rientravano più solo in una dimensione nazionale ed europea.

Nel 1973 Due contro la città (Deux Hommes dans la ville, di José Giovanni) segnò quasi un generazionale passaggio di testimone: nel film comparivano Delon e Gabin, insieme per la terza a ultima volta, insidiati da un giovane attore di talento, non ancora protagonista, che diverrà una stella di lì a poco configurandosi come il primo attore francese per almeno i tre decenni a venire: Gerard Depardieu.

Claude Sautet e il cinema d’autore per eccellenza

Da una parte il cinema contemporaneo francese, o quantomeno quello degli ultimi trent’anni, tende a riprendere una certa idea sofisticata della Francia con film drammatici dai forti toni. Dall’altra invece, e questo anche in particolare nell’ultimo periodo, la Francia si rifà “maschia”, un po’ selvaggia, molto violenta: certo il contesto noir è cambiato, non c’è più il bianco e nero degli anni d’oro a fare da sfondo e a creare un’atmosfera all’ “americana”, però lo spirito di un certo cinema di “genere” permane: film violenti, ambientati in città grandi, solitamente Parigi o Marsiglia. Film egualmente pessimisti, di un pessimismo talvolta radicale, giocati sulla mancanza della dicotomia bene-male e sull’impossibilità di mantenere il controllo in un gioco di separazione reale tra crimine e forze dell’ordine.

Allo stesso modo, sull’altro versante la Francia mette in campo tutta sé stessa e il migliore nel farlo è forse il regista Claude Sautet. Tra il 1970 e il 1995 gira commedie impegnate o drammatiche che definiscono l’universo stesso del Paese, e fanno centro sia per la capacità di analisi che per la profondità di pensiero. L’amante (1970) e Il Commissario Pelissier (1971) sono i primi suoi film, in apertura degli anni Settanta, a scandire questo ritmo dopo che il regista si era impegnato nella prima gioventù in altri filoni. A chiudere il quadro, negli anni ’90, due capolavori segnano l’immaginario del cinema d’autore francese: Un cuore in inverno (1992) e Nelly e Mr. Arnauld (1995), che ne ricalca la tematica di fondo.  Un cuore in inverno è l’archetipo del dramma d’autore francese, forse il titolo che meglio può identificare un ritorno del paese a un cinema impegnato per sfumature, sottrazioni, raffinatezza di argomentazione nei dialoghi. Imperniato su una storia d’amore mancata, attraverso un meccanismo perfetto fa ruotare tre personaggi di cui uno femminile e due maschili, colleghi e antagonisti in amore; ma è l’incapacità d’amare il vero protagonista del film, la freddezza di fondo che attanaglia Stephane e lo rende come il protagonista del capolavoro letterario di Michail Lermontov al quale si ispira il film, Un eroe del nostro tempo (1849), il testo che fece da apripista al periodo d’oro della letteratura russa, introducendo la figura dell’ uomo inutile.

Olivier Marchal e il ritorno al Noir

Come la Francia prosegue sulla via del dramma d’autore, così anche finisce per riscoprire le sue radici ancestrali, quelle cioè del Noir violento e cupo. Al regista Olivier Marchal si deve questo ripristino “dell’ordine”, l’inconfutabile reazione di un cinema che viene fatto tornare alla ribalta e che in realtà è null’altro che l’essenza del Paese. 36 Quai des Orfèvres (2004), L’ultima missione (2008), A Gang Story (2011): una trilogia nella quale almeno i primi due titoli sfiorano il capolavoro per la durezza, l’intensità, la forza narrativa con le quali si mettono in mostra violenze e deviazioni del mondo poliziesco in Francia, ambiente che l’ex poliziotto Marchal conosce assai bene.

Jacques Audiard, un tramite tra i due

Tra gli autori più brillanti della Francia contemporanea si afferma Jacques Audiard, che ha la capacità di condensare le due anime di cui si parlava poc’anzi in una sola: da una parte la vivacità un po’ maschia della Francia tradizionale, dall’altra la sensibilità femminile di quella che guarda meglio alla materia culturale. È un fenomeno per questo, Audiard: il suo cinema trova la sintesi perfetta tra i due poli che accompagnano la storia dei transalpini. Testimone della volontà del regista di mantenersi sulla scia di Marchal, perfezionando il genere e riproponendolo ai fasti antichi, è Il profeta, sontuoso capolavoro che stregò nel 2009 la Giuria di Cannes, che gli “affibbiò” il Grand Prix Speciale. Nove furono invece i Premi César, tra cui quello di miglior film. Avevano visto giusto le differenti giurie di Francia: ritmo serrato, dialoghi secchi e incalzanti, ritmo narrativo classico senza stecche. Più che un omaggio o una revisione, un vero e proprio reimmergersi nel genere noir-carcerario.

Sulla scia di una sensibilità accorta, tra i contemporanei si assesta anche François Ozon, parigino doc che affianca alla grazia per un innato talento alla regia anche il gusto per film lenti e riflessivi che non escludono situazioni drammatiche, forti, di rottura. Il dramma famigliare è la materia in cui si muove meglio, sempre con il piglio e la profondità che scaturiscono da un’analisi verticale e “introversa” dei personaggi, nell’alternanza di dialoghi e lunghi silenzi. È un cinema di parola e insieme di immagine quello di Ozon: l’erede di una tradizione che in fondo trae spunto da Nouvelle Vague, ma ancor di più da quella commedia drammatica raffinata (e non intellettuale) che segue dopo la fine degli anni Settanta.

Luigi Luca è nato a Milano nel 1992, ha studiato Storia e si è specializzato in Editoria. Lavora nella comunicazione digitale. È un cinefilo da sempre e si è dedicato alla materia da autodidatta, con un focus sulle cinematografie nazionali francese e statunitense.

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