Fu davvero il San Paolo a uccidere le “Notti magiche”?

«Io credo che tiferanno Totò, però dimostreremo ancora una volta noi napoletani che siamo maduri e non fischieremo l’inno come hanno fatto a Milano e a Torino». Due luglio 1990: siamo nel parcheggio di Trigoria, centro sportivo della Roma da 5 settimane feudo della Selección di Bilardo, in partenza per Napoli. Un Maradona teso e scuro in volto viene avvicinato da un’inviata del Tg2 cui non viene in mente niente di meglio che chiedere all’asso argentino perché mai voglia «dividere i tifosi napoletani da quelli italiani?». «Io non voglio dividere nessuno – ha gioco facile a rispondere il 30enne di Lanus – Io dico come stanno le cose: chi lo vuole nascondere lo nasconda. Sono sei anni che vivo in Italia e quello che dico è quello che ho visto». Quello che dice, da quando si è profilata all’orizzonte la semifinale Italia-Argentina, è che il paese si ricorda di Napoli solo quando gli fa comodo.

La bomba è lanciata. E ora? Davvero i napoletani leggeranno nelle parole del loro idolo l’invito a “tradire” la patria e a sostenerlo nella sua battaglia? Davvero Maradona è convinto che nel suo stadio i suoi tifosi invocheranno comunque il nome di Schillaci? È tutta pretattica o spera veramente di far breccia nel cuore di una città che lo ha accolto, adottato, idolatrato e perdonato per sei anni? Ancora a trent’anni dal Mondiale sono molti i ragazzi di Vicini che danno al fattore ambientale un peso determinante nella fine ingloriosa delle “Notte magiche”. Trent’anni in cui le descrizioni dell’atmosfera del San Paolo che «non era la stessa dell’Olimpico» si sono sprecate fino a rendere impossibile capire dove stia il confine tra realtà e menzogna, tra verità e alibi. «Chi vince festeggia, chi perde spiega», ama dire Julio Velasco (altro argentino adottato dal Belpaese). E quella sera l’Italia perse.

Maglia da gara, fascetta di dubbio gusto e tanta voglia di fare polemica.

Italia ’90 è anche un mondiale di campanilismo, di accordi sottobanco e di compromessi: e non poteva essere diversamente visto il paese ospitante. In cambio delle partite degli Azzurri all’Olimpico, San Siro ottiene la partita inaugurale, quella in cui l’Argentina campione del mondo in carica cadrà al cospetto del Camerun. Sempre a Roma i padroni di casa giocheranno, in caso di vittoria del girone, anche ottavi e quarti di finale salvo poi essere costretti a spostarsi per il penultimo atto. Due le possibili sedi: Napoli e Torino, visto che ancora l’Olimpico ospiterà la finalissima. L’Argentina invece giocherà proprio a Napoli le due restanti partite del girone e, arrivando prima nel raggruppamento, rimarrà ai piedi del Vesuvio anche per ottavi e quarti. Tutto ciò però resterà solo sulla carta perché Maradona e compagni strapperanno il pass come migliori terzi classificati, scombussolando tutti i piani.

Molti napoletani, accorsi in massa ad ammirare il loro beniamino contro Urss e Romania, dovranno rivendere al migliore offerente i biglietti già acquistati per continuare a seguirlo anche nelle due successive partite; Maradona si vedrà costretto ad affrontare il pubblico ostile prima del Delle Alpi (1-0 al Brasile) e poi del Franchi (vittoria ai rigori contro la Jugoslavia); e l’Italia, sicura di incontrare in semifinale il Brasile al San Paolo e di spedire Diego a Torino a giocarsela coi tedeschi, dovrà rivedere tutti i piani. Quella secondo cui i napoletani avrebbero fatto incetta anzitempo di biglietti per la semifinale con l’obiettivo di sostenere il loro 10 contro l’Italia, quindi, è una tesi che non regge alla prova dei fatti. La Nazionale italiana, poi, non era mai stata così “azzurra”: il bomber Carnevale e soprattutto i campani Ferrara e De Napoli sono più di una buona ragione per sostenere i ragazzi di Vicini.

Boutade giornalistica?

Le 72 ore che passano tra il goal di Schillaci (e chi se no?) all’Eire, che sancisce l’ufficialità della sfida fratricida in semifinale, e il fischio d’inizio di Vautrot davanti ai 60 mila del San Paolo sono un concentrato di veleno: frotte di giornalisti – sportivi e non – si fiondano a Napoli per testare il polso della città. Per quanto fondamento scientifico si possa attribuire al metodo della vox populi, a rivedere le immagini dei tg di quei giorni lo schieramento “lealista” nei confronti della Nazionale sembra in effetti mettere in minoranza la fronda sensibile al richiamo di un Diez in versione Masaniello. A ogni «Diego è il nostro eroe, non possiamo abbandonarlo» e «Siamo napoletani, non italiani» risponde un coro di «Se gioca l’Italia dobbiamo stare uniti» e di «L’Italia è la nostra patria». Ma non sapremo mai quanti napoletani, in pubblico come nel privato delle loro abitazioni, ebbero il cuore diviso a metà.

Di certo, viene accolto l’invito di Maradona a non fischiare Oid, mortales!, l’inno nazionale del paese del sole che ride. Le bordate di fischi di San Siro e del Delle Alpi sono rimaste nelle orecchie e nei ricordi di Diego che con Milano e Torino ha sempre avuto un rapporto tutt’altro che idilliaco. Napoli no. Napoli non si macchia di lesa maestà e il capitano albiceleste, in favor di telecamera come accadrà anche qualche giorno dopo a Roma, dimostra di apprezzare il gesto. Poi, qualche timido “Diego, Diego!” – sovrastato prontamente dal grido “Italia, Italia!” – e si gioca. Al quinto, rocambolesco goal di Schillaci in tre settimane il San Paolo esplode, e in seguito si percepiranno distintamente sia l’esultanza al momento dell’espulsione di Giusti sia i fischi quando a presentarsi dal dischetto è lo stesso Maradona. Fischi mossi più dalla paura che da istinti regicidi.

“E…segna…”: tutta la rassegnazione di Pizzul.

Il resto è storia: Donadoni e Serena si fanno parare il rigore da Goycochea, tra gli argentini non sbaglia nessuno e all’Olimpico a incontrare la corazzata tedesca ci vanno loro. Nel post-partita Maradona, non si sa se per riappacificarsi o per gettare benzina sul fuoco, si presenta con indosso la maglia dell’Italia appena scambiata con Baggio. Minà, suo grande amico, torna sulla polemica («proclama» lo chiama) della vigilia, Maradona – diplomatico per la prima volta dall’inizio del Mondiale – nega ogni addebito: «Noi stranieri sappiamo benissimo che i napoletani (non più noi napoletani, ndr) sono italiani a tutti gli effetti». La conferenza stampa dell’indomani però racconterà tutt’altra storia: l’onta del pubblico anti-italiano nascerà lì. Non tutti gli azzurri si accoderanno (molti milanisti, nonostante il finale di stagione al veleno, si dissoceranno apertamente) ma ormai la giostra è partita.

«Napoli – aveva scritto Giorgio Tosatti alla vigilia – è una donna divisa tra l’amore per il proprio uomo e la lealtà verso la famiglia, l’orgoglio di appartenervi. Il richiamo del sangue e quello del cuore. Quale che sia la sua scelta, le resterà il rimorso di aver commesso un tradimento. Prevarranno i vincoli più antichi, com’è tradizione nei romanzi rosa: l’eroina piangente dirà addio al suo amato, per non disobbedire a papà. Tanto, fra due mesi saranno di nuovo insieme. Ma ci sarà una piccola frangia di secessionisti». E non solo per la gratitudine nei confronti del campione capace di regalare loro gioie immense: «il legame con Maradona – proseguiva il direttore del Corriere dello Sport – è più profondo: lo hanno creato i fischi, gli insulti, gli striscioni intrisi di razzismo, con cui il miglior calciatore del mondo è stato accolto in tanti stadi italiani perché rappresentava Napoli, il Sud, i terroni».

«Conosci la storia di Masaniello?»
«No»
«È un personaggio che guidò gli straccioni di Napoli a una rivolta, poi finita malamente»
«Io non voglio finire malamente».

Otto mesi dopo verrà squalificato per doping.

Emiliano Mariotti è nato a Milano nel 1991, si è laureato in Storia e poi ha frequentato la Scuola di Giornalismo “Walter Tobagi”. Giornalista di nome ma comunicatore di fatto, sogna di scrivere come Gianni Mura ma si accontenterebbe di fare il corrispondente da Istanbul.

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