Georgia on my mind

Jon Ossoff e Daniel Warnock sono riusciti, inaspettatamente, a spuntarla. Il miliardario David Perdue e la manager Kelly Loeffler hanno perso quelle che, a detta di molti esperti, sono state le elezioni locali più importanti della storia recente della politica americana. Sconfitta che produce un senato esattamente rappresentativo del Paese, spaccato a metà, ed in cui il voto della Vicepresidente Kamala Harris sarà decisivo per la “maggioranza” democratica. Ma, soprattutto, sconfitta che arriva in uno stato del profondo sud statunitense, simbolo di quella confederazione che tanto si batté nella guerra civile per emanciparsi dal nord, e che, ancora oggi, non si sente assolutamente integrato nel “codice genetico” della nazione e continua ad essere visto come una minaccia dal resto del Paese, come l’iconoclastia estiva ci ha mostrato, troppo spesso scambiata per rivolta dai motivi razziali alle nostre latitudini ma che, diversamente, è stata l’espressione plastica di un tentativo di cancellare l’alterità meridionale rispetto ai valori ed alle ideologie settentrionali. Classica mossa imperiale.

Ecco che, di conseguenza, ciò che è successo il 5 gennaio richiede di essere vivisezionato per cercare di realizzare come sta cambiando la popolazione americana, la demografia, le idee e le sensazioni dei cittadini, in particolare delle minoranze.

Punto centrale in questo ragionamento non può che essere l’azione, il carisma e la personalità di una donna sempre più in ascesa nelle gerarchie dei Dem: Stacey Abrams. Classe 1974, nata in Wisconsin ma trasferitasi da bambina al seguito della famiglia in Georgia, importante componente della cosiddetta Bible Belt, fin da giovanissima è testimone dei grandi cambiamenti che stanno avvenendo nel Peach State, e non esita a prenderne parte, ricoprendo piccoli ruoli da assistente per politici locali fin dai tempi del college.

La svolta personale avviene nel 2008, quando per la prima volta una persona afroamericana viene eletta a capo del paese, Barack Obama; in quell’istante, Abrams realizza che un cambiamento è davvero possibile, e quindi decide di essere sempre di più coinvolta nelle attività del proprio stato, da sempre roccaforte repubblicana, molto conservatore e dove le persone che hanno la pelle del suo stesso colore troppo spesso non hanno voce in capitolo: sono famosi e soprattutto provati i tentativi con cui le varie autorità susseguitesi nel tempo hanno rimosso centinaia di migliaia di nominativi di persone afroamericane dalle liste elettorali, parallelamente ad altre attività volte a “proteggere” l’egemonia repubblicana.

Il suo obiettivo principale è di incoraggiare e convincere quanti più elettori emarginati a recarsi alle urne, in qualsiasi elezione, nella convinzione che solo facendosi sentire e combattendo per i propri ideali il risultato può essere ottenuto. L’apice viene raggiunto nel 2018, quando alle elezioni per il governatore dello Stato Abrams non solo diventa la prima candidata donna afroamericana di un partito americano ad un’ elezione, ma arriva ad un soffio dalla vittoria: il repubblicano Brian Kemp vince di soli 50000 voti, dopo quasi dieci giorni di proteste per procedure di voto non troppo chiare ed una campagna elettorale incendiaria.

Ad oggi, questa tornata elettorale rimane la più combattuta nella storia dello Stato, ma ciò che fa impressione è l’anatomia dell’elettorato dell’astro nascente Stacey Abrams: il voto afroamericano è aumentato del 40% rispetto alla media delle precedenti elezioni, quello latino triplicato e la raccolta fondi ha mosso una quantità impensabile di milioni di dollari: tutto grazie alla forza di volontà di una donna che, dopo la delusione per la sconfitta, insieme all’associazione da lei creata per contrastare la soppressione del voto delle minoranze “Fair Action”, si prefissa un altro, ambizioso obiettivo: contribuire alla riconquista del suo partito della Casa Bianca; obiettivo centrato il 3 novembre, quando Joe Biden diventa il primo candidato democratico a portarsi a casa i grandi elettori dello stato dai tempi di Bill Clinton nel 1996.

Da quel giorno, l’attenzione, mediatica e non solo, oltre che alle fantomatiche trovate di Trump e del suo team per reclamare inesistenti brogli, resta incentrata sulla Georgia: a seguito delle elezioni per i due seggi in Senato, che non avevano dato un vincitore, secondo le regole locali il 5 gennaio si sarebbero tenuti due ballottaggi, diventati l’ago della bilancia per la composizione del nuovo congresso ma soprattutto per capire quanto margine di manovra avrebbe avuto il nuovo presidente democratico per attuare la sua nuova, roboante politica economica.

Il movimento era ormai troppo strutturato e galvanizzato per essere fermato, ed il valore e peso di queste elezioni erano troppo grandi per non esprimere la propria idea, per non fare lo sforzo di registrarsi nelle liste elettorali ed esprimere il proprio pensiero. Un pensiero di riscatto. Motivazioni che, ovviamente, non mancavano negli avversari repubblicani, “spremuti “al massimo dal presidente uscente e da una raccolta fondi milionaria volta a fermare quella che, secondo molti sostenitori e votanti, sarà una rivolta socialista nel paese.

Ma è proprio qui che la propaganda repubblicana ha dovuto fare i conti con la realtà: questa ci dice che Trump è stato il presidente repubblicano più votato di sempre, ottenendo risultati molto importanti tra le minoranze, ma non riuscendo, tuttavia, ad allargare a sufficienza la propria base; tutto ciò, probabilmente, aggravato dalle continue accuse di brogli da parte di buona parte dell’establishment del partito, le quali hanno scoraggiato gli elettori facendo provare in loro una sensazione di impotenza davanti ad un tale sistema corrotto.

Beneficiari di queste dinamiche sono stati il giovanissimo Jon Ossoff, talentuoso politico in rampa di lancio per il Partito Democratico, che con le sue idee progressiste rappresenta l’ala più giovane ed energica del movimento (non necessariamente estremista); ed il pastore religioso afroamericano (guarda un po’) Raphael Warnock, che per l’intera campagna elettorale è stato vittima, fin troppo facile, di continui attacchi dal fronte opposto, e che quello stesso fronte non potrà mai accettare dopo aver dichiarato, in un sermone del 2011, che “nessuno può servire Dio e l’esercito. Dio ed il denaro”. Episodio cavalcato al massimo durante questa campagna elettorale. Anatema per qualsiasi repubblicano contemporaneo.

Per concludere, molti analisti si sono già affrettati a dire come nei prossimi anni, almeno fino alle midterm elections del 2022, il nativo di Scranton avrà terreno libero per attuare la sua rivoluzione globalista, femminista, ambientalista, basata sull’elargizione sempre più potente di welfare. Per non parlare delle scelte di politica estera, grazie alle quali gli USA torneranno ad essere punto di riferimento per tutte le democrazie mondiali che non siano d’accordo col modello di sviluppo economico e di consenso politico adottato da Pechino.

Chiaramente, non sarà così: la maggioranza è risicata a dir poco, ed il vicepresidente giocherà un ruolo che praticamente mai nella storia politica americana ha giocato nelle decisioni della camera alta; molte delle proposte più radicali potrebbero essere invise ai parlamentari più moderati, costringendo Biden a dover scendere a compromessi persino con il suo partito. Ma c’è un aspetto, centrale in qualsiasi analisi dell’attualità politica, tanto più in quella statunitense, che tutti questi aspetti tralasciano (come dimostrano anche i commenti all’assalto del Congresso avvenuto nel pomeriggio americano di mercoledì 6): le sensazioni della pancia del paese.

Ad oggi, l’America è divisa in due, e la polarizzazione ha pervaso qualsiasi ambito della vita e del dibattito pubblico. Impensabile portare avanti una politica di totale rottura col passato. Mancano le basi materiali. Manca la volontà di una popolazione che si sente tradita dalla sua classe dirigente, dalla sua élite, come ci ha mostrato in questi ultimi quattro anni in modo cristallino (è doveroso ammetterlo) il presidente uscente Donald Trump.

Ecco che allora le elezioni del 5 gennaio in Georgia sono e saranno importanti, senza alcun dubbio, almeno per la prima parte della presidenza Biden, ma non saranno la fonte di un cambiamento radicale. Sono piuttosto una spia enorme dei cambiamenti che la popolazione americana sta subendo, e di riflesso la sua politica. Starà alle forze politiche in primis, ed a noi lontani osservatori in secundis, coglierli ed analizzarli senza farci trasportare da inutili, e spesso ingenui, moralismi.

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