Hasta la victoria siempre, Diego


Gracias Dios, por el fútbol, por Maradona, por estas lágrimas
Victor Hugo Morales

Una filastrocca breve, di quattro sillabe, otto parole. Una di quelle che entra in testa così bene e facilmente che, oggi, farebbe sobbalzare dalla sedia il creativo che l’ha pensata. Cosa sei stato, Diego, per chi non ti ha mai visto? Questo, per davvero: una filastrocca magica che dovevi conoscere per forza se volevi avere il diritto di rincorrere un pallone sul campo in ghiaia di un oratorio; una parola d’ordine capace di spalancare le porte su un mondo d’intesa anche con chi non si conosceva; un’ideale irraggiungibile, in grado di rendere subito un paragone grottesco; una canzone nata dall’amore di una città e appartenuta poi a un Paese intero. Ci siamo nutriti della tua grandezza senza averla veramente vissuta, ma comprenderla era così semplice che è stato impossibile, per te, non appartenere a tutti. Poi siamo cresciuti, e sei divenuto umanità: amore, tradimento, vizio, tenacia e debolezza. A quel punto, eri già troppo grande perché potessimo cambiare idea, ammesso che avremmo dovuto. Perché no, avevi ragione, la pelota no se mancha. E pure se non c’eravamo, anche noi abbiamo visto Maradona.

La notizia ha squarciato un tranquillo pomeriggio di un giorno d’autunno di un novembre avanzato con il cielo già bruno. Uno schiaffo emozionale che tra giorni persi in pigrizia e giovanili ciarpami colpisce duramente le nostre vite. Ci prese come un pugno, ci gelò di sconforto, sapere a brutto grugno che Maradona era morto.

Le parole che Guccini usa per raccontare il suo ricordo della morte di Che Guevara, in terra boliviana, bene si sposano con questo pomeriggio. Non ero ancora nato il giorno dell’assassinio del Comandante da parte della CIA, ma posso immaginare che la notizia abbia colpito l’anima delle persone come un meteorite che si abbatte sulla terra, lasciando la desolazione intorno al punto d’impatto. Le sensazioni dovevano essere più o meno le stesse. Le emozioni sempre uguali quando chi ci ha fatto sognare e volare con la fantasia se ne va.

Diego, el revolucionario del fútbol, ci ha lasciati.

Stagioni, di F. Guccini (1999)

Aveva compiuto 60 anni solo lo scorso 30 ottobre, ma a causa dello stile di vita che in passato era stato esagerato e delle patologie sopraggiunte negli anni, il Pibe ne dimostrava molti di più. È stato colpito un arresto cardio-respiratorio nella sua casa nel barrio San Andrés, nella metropoli di Buenos Aires, dove si era trasferito dopo l’operazione al cervello alla quale era stato sottoposto. Nonostante il trasferimento in ospedale e i tentativi dei medici di rianimarlo non c’è stato nulla da fare.

In un 2020 buio in cui lo sport già è stato segnato dalla prematura e tragica scomparsa di Kobe Bryant, oltre ad una pandemia che ha sconvolto il pianeta, la morte di Maradona segna una cerniera nella storia. Perché oltre ad essere uno splendido fenomeno sui campi di calcio, è stato molto di più. Un uomo politico e un trascinatore di folle, con un angelico piede sinistro ed un’inventiva illuminante.

Il feretro di Maradona con la Dièz del Boca Juniors e dell’Albiceleste, appoggiate sopra la bandiera argentina. In migliaia si sono recati alla Casa Rosada (il palazzo presidenziale), dove è stata allestita la camera ardente, per un ultimo saluto al Pibe.

Per capire Maradona, come prima cosa, occorre comprendere la natura contraddittoria intrinseca all’uomo, fatta di coerenza e contraddizione. Non ha mai nascosto il suo amore per i soldi e non ha mai nemmeno nascosto il suo disprezzo, da uomo di sinistra, per il denaro che circola nel calcio. Per lui il Gioco è stata la cosa più pura.

Nato nel barrio di Villa Fiorito a sud di Lanùs nel 1960, Diego è cresciuto in un’Argentina governata dalla dittatura militare, sporcata dalla tragedia dei desaparecidos e costantemente alle prese con la crisi economica. Diego ha incarnato la voglia di rivalsa e il desiderio di dignità di un intero Paese. Il suo spirito socialista, sempre dalla parte di chi ha subito ingiustizie, lo ha contraddistinto anche sul rettangolo verde, dove tirando calci ad un pallone ha sempre portato avanti con fierezza le sue idee anti-imperialiste.

Quarti di finale di Coppa del Mondo 1986, Stadio Azteca di Città del Messico. Maradona sblocca la sfida con l’Inghilterra con la celebre Mano de Dios, vendicando per conto dell’Onnipotente la morte di centinaia di giovani argentini, quando gli inglesi avevano invaso le Falkland-Malvinas quattro anni prima. O almeno, questa è sempre stata la spiegazione data dallo stesso Diego. Un gol rapinato rivendicato per la lotta politica al potere imperialista del Regno Unito.

Il narrador uruguagio, Victor Hugo Morales, racconta il celebre gol della Mano de Dios.
Città del Messico, 22 giugno 1986.

Maradona è stato il punto di congiunzione tra la polvere del barrio, i luccichii di divi e starlette e i colletti bianchi delle stanze del potere. Una condizione psicologica che gli pesava terribilmente, schiacciato dal troppo affetto che il mondo del pallone, e non solo, gli riservava. Nel corso della sua carriera ha girato il mondo ed incontrato i più importanti leader politici del pianeta. Nella sua biografia “Io sono El Diego” scrive del pensiero condiviso con Marx e con i grandi comunisti dell’America Latina, in particolare Che Guevara, di cui porta un tatuaggio sul braccio.

Il punto di svolta nell’impegno politico di Maradona avvenne però con il ritiro dal calcio giocato, quando, dopo la cura dimagrante e la disintossicazione seguite a Cuba su “invito” di Fidel Castro, diventò un militante attivo. A La Habana Diego finalmente riuscì, dopo diversi tentativi andati male, a disintossicarsi dalla cocaina che negli anni di Napoli gli aveva bruciato il naso ed il cervello. Colpa – anche – delle losche amicizie con il clan Giuliano. Invece, quella che lo legò al Líder Máximo fu una vera e profonda amicizia, come anche ad Hugo Chavez e Nicolas Maduro. L’incontro con queste tre figure cambiò Diego, che fino a quel momento, ancora prima di ritirarsi, era stato un ribelle, un cavallo ingovernabile. Non solo per il suo stile di vita costellato dai vizi, ma anche per il suo modo di approcciarsi al mondo politico. Come racconta sempre nella sua autobiografia a proposito di un’udienza privata con Giovanni Paolo II, durante la quale esortò il Pontefice polacco a vendere beni e oggetti del Vaticano per aiutare concretamente i poveri.

Diego Maradona e Fidel Castro (1987). – © Granma

Si era «allontanato dalla Chiesa perché pensavo non facesse abbastanza per i bisognosi». L’elezione di Bergoglio, argentino come lui, ha cambiato la sua visione: «De ahora soy el capitán del equipo de Francisco». Il capitano della squadra di Papa Francesco, del quale apprezza l’attenzione ai poveri e la rivoluzione che ha portato all’ombra del Cupolone. Si sono abbracciati più volte, e non è impossibile – anche se non ci è dato saperlo – che nei loro incontri abbiano condiviso del mate, tipica bevanda argentina simbolo di socialità. «Papa Francesco è molto più di Maradona. È lui il vero fuoriclasse», dichiarò Diego dopo un’udienza nel Palazzo Apostolico.

I due più importanti leader politici dell’America Latina del ‘900 – insieme al presidente cileno Allende – videro in Maradona il loro “erede politico”. Un uomo famoso in tutto il mondo, con un carisma invidiabile e capace di portare il verbo della Rivoluzione proletaria in tutto il pianeta. Il rapporto con il cubano era molto intimo, confidenziale e di profonda stima, tanto che il volto di Castro è tatuato sul corpo di Maradona insieme a quello del Che; mentre il rapporto con Chavez è stato molto più riverente. Un rispetto che nasce dall’aver «liberato il Sud America dalle grinfie degli Stati Uniti d’America», per averci «presi per mano» e averci «fatto alzare la testa, rendendoci orgogliosi di essere latini e di camminare da soli».

Maradona ed il presidente del Venezuela Hugo Chavez, al ‘People’s Summit’ organizzato allo stadio Mar de La Plata (Argentina) il 25 novembre 2005 contro il ‘IV° summit of the Americas’ e la ‘Free Trade Area of the Americas’. Il calciatore argentino indossa una maglietta con scritto “war criminal” e la faccia di George W. Bush, allora Presidente degli USA in carica. – © Martin Bernetti / AFP

Maradona comunista? Forse. Di sicuro castrista, chavista, peronista di sinistra, nazionalista argentino, anti-statunitense, anti-inglese, anti-imperialista. Ed infatti, non ha mai esitato a schierarsi dalla parte di quei leader che hanno sempre messo le persone al centro del cosiddetto Terzo Mondo, considerati pericolosi caudillos dagli Stati Uniti. Ha sostenuto il presidente boliviano Evo Morales e Pepe Mujica, il presidente dell’Uruguay che si tagliò lo stipendio, guidava un’utilitaria e che non aveva esitato ad imbracciare il fucile durante la Rivoluzione, ma anche l’ex presidente dell’Ecuador Rafael Correa, molto meno estremista degli altri leader socialisti dell’America Latina, ma che Maradona considerava l’emblema del rivoluzionario moderno, che ha studiato in Occidente ed ha toccato con mano i difetti del capitalismo. Ha amato Ortega, Lula e Kirchner. Era l’esatto opposto dell’uomo di sport che non prende posizione. Diego era generoso, istintivo e trasparente, esattamente come quando aveva il pallone tra i piedi.

Maradona intervista Fidel Castro per il suo programma televisivo La noche del Diez (2005).

Maradona è stato un «Dio sporco», come lo definì lo scrittore uruguagio Eduardo Galeano. Una divinità in campo, un genio della bellezza. Ma anche un Dio caduto. Caduto per colpa della cocaina, dell’alcol, delle feste sfrenate e delle cattive frequentazioni. Una vita passata a camminare sull’orlo dell’abisso. E quelle volte che ha capitolato ha sempre trovato la forza di rialzarsi. La positività alla cocaina nel 1991 mise fine alla sua esperienza in maglia azzurra. Nel 1994 venne ancora trovato positivo durante il mondiale USA: la FIFA lo espulse dalla competizione. Più tardi, nel 2008, diventò commissario tecnico dell’amata Albiceleste, ma l’esperienza del Mondiale sudafricano fu disastrosa: 4 a 0 dalla Germania ed esonero. Tonfi ed errori che non hanno mai intaccato la cieca devozione degli argentini (e dei napoletani), ma anzi ne hanno alimentato l’umanità. Diego, un genio dall’anima fragile.

Nel corso degli ultimi vent’anni, la notizia della morte di Maradona era stata data più volte, rivelandosi poi sempre inesorabilmente falsa. E noi, amanti del calcio, avevamo ormai interiorizzato che se anche avessimo letto su qualche giornale della morte di Diego, sarebbe stato solo per tre giorni.

Dio è morto, di F. Guccini (1967)

Per questo, quando siamo andati a coricarci, colpiti in piena faccia della notizia dell’arresto cardio-respiratorio di Maradona, nell’angolo più ignoto ed intimo del nostro cuore abbiamo sperato che fosse – per l’ennesima volta – un fake news. Purtroppo il sole di un nuovo giorno ha fissato la verità su una lapide di pietra: Diego se fue.

Due tifosi argentini con le maglie di Boca Juniors e River Plate, le due grandi rivali di Buenos Aires, si abbracciano in lacrime prima di entrare nella camera ardente allestita per Maradona.
Photo © Juan Ignacio Roncoroni / EPA

Nel suo saluto a Maradona per il New York Times, Rory Smith ha scritto che «i suoi demoni e i suoi difetti certamente non verranno dimenticati, nemmeno con il tempo. Il suo ricordo sarà per sempre complesso e sfaccettato». Allo stesso tempo, però, Smith ammette che, in qualche modo, è stata proprio l’oscurità legata alla figura di Diego a rendere ancor più intensi, quasi accecanti, i contorni della luce con cui ha illuminato diverse generazioni del mondo intero. Una metafora perfetta che, fatalità, qualcuno ha trasformato in fotografia durante la notte europea, quando alla Bombonera di Buenos Aires, lo stadio più passionale del mondo, la sola luce del palco del Pibe restava accesa tutta la notte, come un vero squarcio nelle tenebre.

La luce del palco esclusivo di Maradona, presso lo stadio della Bombonera di Buenos Aires, è rimasta accesa in ricordo di Diego, per tutta la notte tra il 25 e il 26 novembre 2020. – © Boca Juniors

In un’intervista di qualche anno fa, in cui Maradona intervistava se stesso in diretta tv, si chiese «Cosa ti diresti al cimitero?». Rispose: «Grazie per aver giocato a calcio».

Tranquilo Diego, la pelota no se mancha!

Il discorso d’addio al calcio di Maradona in una Bombonera ricolma di lacrime. Qui, davanti suo pubblico, come un grande attore, dichiara: «Il pallone non si macchia».

Giovanni è un milanese doc trapiantato a Roma, che non pensa minimamente di rinnegare la cotoletta fritta nel burro, come da tradizione meneghina. Vaticanista, che sogna di raccontare un conclave. Sottovoce sostiene che Guccini sia leggermente meglio di De André. Nel suo mondo ideale vorrebbe vedere Vinnie Jones marcare Neymar

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