Il sistema americano mostra i suoi limiti

A due giorni dal voto negli Stati Uniti, si può dire che lo scenario che si sta materializzando poteva essere ampiamente previsto. Il conteggio ancora in corso, unito allo stretto margine con cui i Grandi Elettori di alcuni Stati sono stati assegnati (o sono ancora in attesa di assegnazione), dovrebbe consentire a Trump e al Partito Repubblicano di ricorrere, contribuendo così a creare una paralisi istituzionale che potrebbe durare per settimane – si spera non oltre la data del 14 dicembre, entro la quale le regole prevedono che il nuovo Presidente degli Stati Uniti venga ufficialmente confermato dai Grandi Elettori. Largo dunque ai team di avvocati dei due partiti, che nei prossimi giorni si sfideranno nel tentativo di confermare la vittoria di Biden o garantire invece la permanenza di Trump alla Casa Bianca.

Al di là del possibile prolungamento di una situazione incerta, possiamo però cominciare a trarre alcuni elementi importanti di riflessione da queste elezioni. Innanzitutto, la grande confusione esistente tra i sistemi di voto e conteggio, diversi tra Stati, e che andrebbero rivisti e uniformati nel tentativo di assicurare un risultato il più possibile rapido e certo all’indomani della chiusura delle urne. È chiaro che il sistema attuale dei Grandi Elettori, congegnato come un “first past the post” a livello di Stati federati, è un portato della tradizione democratica statunitense teso ad accentuare l’investitura al Presidente “dal basso”,  da ogni stato, che nel corso della storia ha contribuito a costituire  gli Stati Uniti d’America – a differenza ad esempio di gran parte degli stati europei che si sono formati dall’alto attraverso una imposizione verso il basso; tuttavia, i limiti di tale sistema si stanno rivelando sempre più evidenti in una società complessa ed estremamente polarizzata come quella americana del 2020.

Comunque vada a finire, Trump e i cittadini che lo sostengono hanno comunque vinto una battaglia ideologica: all’inizio del suo mandato nel 2017 sembrava totalmente “unfit” (inadatto) a governare gli USA, e molti commentatori non avrebbero scommesso una lira sul fatto che sarebbe durato alla Casa Bianca. Invece, quattro anni (e una Presidenza fuori dal comune) dopo, la sua forza elettorale è rimasta pressochè intatta con quasi metà degli elettori che hanno confermato la fiducia riposta in lui quattro anni fa. Non è dunque un caso se in Parlamento si replicherà in buona sostanza la situazione attuale, con i Democratici che non sono riusciti a sfondare né al Senato né al Congresso e dovranno dunque fare i conto una consistente opposizione repubblicana. La distribuzione del voto conferma inoltre l’estremo livello di divisione insito nella società americana, presente tra città e campagna, tra gruppi etnici (bianchi contro afroamericani e latinos), ma soprattutto tra diverse fasce sociali e culturali. E poi c’è un’altra frattura, quella intorno a come si intende il modo di governare il Paese: c’è infatti chi vuole un capo “alla Putin”, forte, autorevole e poco incline alla condivisione; e chi lo vuole invece più simile ad Angela Merkel, mediatore, collegiale e inclusivo.

Che dire, infine, a proposito dell’economia? Le Borse stanno registrando una buona performance, grazie alla grande liquidità immessa sul mercato dalla Federal Reserve e ai dati positivi del terzo trimestre, che hanno consentito al PIL statunitense di recuperare buona parte del terreno perduto durante la prima metà dell’anno. I programmi economici, chiunque sarà proclamato vincitore, non usciranno in maniera troppo netta dal sentiero tracciato in questi ultimi anni, sia a livello interno che per quanto riguarda i rapporti commerciali con i principali partner (sarà infatti difficile aspettarsi svolte radicali nel breve termine sia con l’Europa che con la Cina). Questo dovrebbe bastare a rassicurare i mercati finanziari nei prossimi mesi anche se la Casa Bianca dovesse rimanere contesa per diverse settimane.

Quello su cui possiamo essere certi è la forza del sistema istituzionale americano. La tenuta democratica degli Stati Uniti non può infatti essere messa in discussione, così come il sistema di alleanze internazionali. Per questo motivo, è dunque lecito attendersi che gli USA rimarranno il principale alleato dell’Europa, all’interno della quale c’è ovviamente l’Italia. Per il nostro Paese, in particolare, sarà indispensabile mantenere un alleato forte con il quale condividere valori liberal-democratici e interessi in aree strategiche come quella del Mediterraneo, nella quale abbiamo bisogno del sostegno degli USA per poter giocare un ruolo di primo piano. 

Giovanni Castellaneta è stato Ambasciatore di Italia negli Stati Uniti di America dal 2005 al 2009. Consigliere diplomatico del Presidente del Consiglio dei Ministri dal 2001 al 2005 e suo rappresentante per i vertici del G7. Portavoce del Ministero degli Affari Esteri e Capo del Servizio Stampa dal 1989 al 1992. Ambasciatore di Italia in Australia dal 1998 al 2001 ed in Iran dal 1992 al 1995.
Collabora con diversi organi di stampa nazionali ed ha scritto “Obama e l’ombra cinese” edizioni Guida e “In prima fila, quale posto per l’Italia nel mondo” edizioni Guerini.

Classe 92', fondatore e direttore di The Pitch. Stefano vanta una laurea in Storia, una in Relazioni Internazionali, oltre a innumerevoli esperienze lavorative sottopagate. Sogna di commentare un’elezione presidenziale negli USA e il Fano in Serie B: ambedue da direttore di The Pitch.

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