Il Vittoriale degli Italiani: Cento anni di Piacere

E’ il 1921 quando il complesso del Vittoriale degli Italiani comincia a prendere forma.Da breve soggiorno di lavoro, la sosta a Gardone Riviera diventa per Gabriele d’Annunzio l’orizzonte di una vita, e il panorama sul Lago di Garda, l’ultimo che vedrà prima di morire.

Gabriele D’Annunzio affiderà all’Architetto e amico Gian Carlo Moroni il compito di trasporre in linee, edifici e finestre la sua “vita inimitabile” . Ma soprattutto gli onori degli Italiani che tanto avevano combattuto. Tra quelle foglie verdi e le statue e i torrioni ambienterà le sue missive nella memoria di Eleonora Duse . Mentre ricordava di un passato battagliero che neanche il tempo riuscirà a scalfire.

L’Anfiteatro del Vittoriale, Wikimedia/BlueSky2012

Il Vate aveva preso possesso delle ricche stanze già nel febbraio di quell’anno. Le aveva prese in affitto per 600 lire, un soggiorno che doveva durare un anno e portarlo finalmente a terminare il “Notturno” che già aveva visto i natali mentre il poeta era steso a letto, supino e cieco, vittima di un incidente. Lo aveva composto utilizzando oltre 10000 cartigli, ognuno dei quali conteneva solo una riga di testo. Il compito di raccoglierli ed organizzarli era infine spettato alla figlia Renata, che lo vegliava al capezzale.

Ma nell’ottobre del ’21 D’Annunzio aveva già deciso di rimanervi, in quella Villa di Gardone Riviera dov’erano stipati innumerevoli volumi in una biblioteca polverosa appartenuta al precedente proprietario, il critico d’arte Henry Thode. Il Vate prende tutto: il pianoforte di Liszt, i manoscritti di Wagner, i libri. Ma vuole via l’animo di Thode, vuole che quel luogo diventi suo, anzi degli Italiani. Iniziano i lavori, e sullo sfondo, Mussolini, che cerca di avvicinarsi, far sua la volontà del Vate, tirarlo a sé con tutti i mezzi.

Gabriele D’Annunzio nel 1916, Wikimedia/Unknown Artist

D’Annunzio sarà il Signore del Vittoriale fino al ’38, quando in seguito ad una emorragia cerebrale si accascerà alla scrivania della Zambrata, il suo studio, mentre è intento a scrivere. Ma la casa-museo è già regalata ai compatrioti nel 1923, quando inizia il culto, e D’Annunzio si veste di un’aurea mitologica, ultraterrena e quasi sacra. Le imprese, accuratamente testimoniate, e gli scritti lo rendono un’icona del tempo, forse una delle prime figure in grado di trascinare le masse, di affascinare con le parole, l’apparenza, il coraggio di esporsi.

Il Vittoriale sarà, alla stregua di un’antica Piramide egizia, un’opera che D’annunzio non vedrà mai finita, ma che sarà completata, se così possiamo dire, dal Moroni, con la realizzazione proprio del Mausoleo, che dalla collina di linee pulite e bianche, lisce superfici, domina il lago che così spesso aveva visto D’Annunzio navigare le sue acque nelle gite mondane con gli amici.

Ma cosa è il Vittoriale? Una casa? Un museo? Un parco?

Non è nulla di tutto questo, o forse lo è tutto, ma elevato all’ennesima potenza, arricchito, ridondante, uno specchio, ma anche un esempio costante dei contrasti che caratterizzavano la figura di D’Annunzio.

Un uomo, un eroe, un semplice, un letterato, un esteta, un semi-dio della cultura, un combattente, un poeta, un politico, un solitario. Tutto, mentre si muovono i primi passi verso la Prioria, il corpo centrale della proprietà, sa di lui. Le innumerevoli citazioni dei suoi scritti, primo tra tutti “io ho quel che ho donato” che accoglie il visitatore. O gli scherzosi accenni di doppio senso presenti sugli stipiti delle porte, e il fatto che tutto, tutto al Vittoriale, abbia un nome. Non è infatti l’abitazione futura, ma lo Schifamondo.

E’ la Sala del Monco, e non lo studiolo, la stanza adibita alla corrispondenza in cui il poeta si prendeva gioco di tutti, perché non voleva rispondere, non voleva scrivere una lettera e quindi eccola, la sua mano tagliata, appesa sulla porta.

Non è lo studio, ma l’Officina: quel luogo sacro dove il busto della Duse è coperto da un velo, perché la bellezza si sa, distrae, ma anche perché lei, Eleonora, la Musa, era testimone velata del duro lavoro che lì si svolgeva, con una Nike di Samotracia e una delle prime bottiglie di Acqua Minerale della fonte ternana Amerino di Acquasparta, di cui a D’Annunzio venne addirittura dedicata una “confezione speciale”. E poi il Viale di Aligi, il Portico del Parente, l’idrovolante Alcyone, il Parlaggio, l’Arengo. Termini magici, che parlano di un ingegno sconfinato e di un certo bisogno di distanziarsi da ciò che è basso, normale, accettato e comune.

La Scrivania nell’Officina, Wikimedia/Tanzania

D’Annunzio diventa Andrea Sperelli, il protagonista del suo Piacere ed è continuamente vinto dai contrasti tra le mura della tenuta: nel bagno blu tra le mille suppellettili e cineserie, una statuina di Budda si specchia sulla porcellana. Più in là, oltre l’angolo nel corridoio, visioni di Santi. E poi c’è lui, il vero oggetto di culto, il volante deforme del motoscafo su cui morì Henry Segrave. Sacerdote della Religione del Rischio, quella che secondo D’Annunzio andava pregata e seguita costantemente. Il pezzo di metallo poggia su un altare nella cappella allestita dal Vate in una stanza della Prioria, quella delle Reliquie. Qui, sacro e profano si fondono e diventano indistinguibili, testimoniando ancora che per il Poeta nulla è pagano, ma tutto è un modo per raggiungere non Dio, ma il Divino.

Il Mausoleo del Vittoriale, Wikimedia/Janericloebe

E il MAS diventa una preghiera, non più un’imbarcazione, Memento Audere Semper, ricordarsi sempre di osare, da ripetere all’infinito, a mani giunte, prima di dormire. E si prega in una chiesa fatta di alberi maestri e assi di legno e pareti imbullonate faticosamente trasportate via treno e ricostruite con minuzia fino a fondersi col verde intorno. La nave Puglia guarda lontano e accoglie i fedeli da decenni, i fedeli dell’entusiasmo, della creatività e del sogno.

Andrea Sperelli è diviso tra l’amore puro e l’amore sensuale, tra il fuoco così caro a D’Annunzio e la quiete pacifica del candore. Tra culto e cultura, tra sacro e profano. Non sceglierà mai, lo Sperelli, mentre D’Annunzio sceglie già prima di morire chi essere. Vuole essere tutto, prendere tutto, avere tutto. Avido e generoso, costruisce un inno alla memoria non solo di ciò che lui ha creato ed è stato, ma di quello che siamo stati tutti noi, Italiani, persone comuni, ma in fondo anche noi, come il Vate, piccoli eroi nella nostra Prioria.

Cento anni dalla prima pietra, ma ancora vivida è la memoria dell’insegnamento D’Annunziano: osate, siate intelligenti, viviate sempre appieno, con orgoglio e convinzione. E non vergognatevi mai.

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