La babele jazzistica londinese scardina i vecchi miti

Il mondo del jazz è spesso soffocato da una cortina di elitarismo e di compiacimento autoreferenziale: non è una storia nuova per il genere. Già alla fine della seconda guerra mondiale il dirompente be-bop si affermava con disappunto dei critici musicali. Frantz Fanon all’interno della sua opera “I dannati della terra” afferma che la critica è stata morbosamente legata all’idea che “il jazz non deve essere altro se non la nostalgia spezzata e disperata d’un vecchio negro perso tra cinque whisky, la maledizione di sé e l’odio razzista dei bianchi”.

The comet is Coming – Summon The Fire

L’attaccamento a questa immagine, tanto cara ai critici e ai nostalgici, oltre a relegare il genere ad essere mera espressione di un tipo di rapporti immutabili, tende a creare una sorta di venerazione verso un passato glorioso e intoccabile, ammantandolo di una sorta di sacralità che toglie linfa al futuro e agli interpreti del genere stesso. Il passato del jazz ha avuto una portata che potremmo definire epocale sul nostro immaginario, frutto tanto dell’energia vitale intrinseca del genere quanto del suo dirompente impatto sulla società; ciò ha tuttavia contribuito ad alimentare una narrazione che, mitizzandolo, spesso imprigiona il jazz in una torre d’avorio.

Come possiamo, allora, rendere onore a quell’energia vitale e scardinare questo processo di mitizzazione?

Per l’America il mito si distrugge con il mito. Ci vogliono figure gigantesche come quella Kendrick Lamar con il suo album “To pimp a butterfly” che adopera il jazz in maniera libera, innestandolo in un contesto hip-hop e servendosi della collaborazione di Kamasi Washington e Thundercat, due alfieri del neo-jazz che si sono fatti strada nella sperimentazione con i loro album “The Epic” e “Drunk”.  

Diversa invece è la risposta del Regno Unito. I jazzisti britannici si muovono nel campo della sperimentazione, mescolano i più diversificati background musicali e raggiungono un pubblico molto eterogeneo. Le radici risalgono ai discendenti delle colonie inglesi africane e caraibiche la cui migrazione verso l’Europa, soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, aumentò notevolmente e molti musicisti furono inviati nel Regno Unito per studiare musica. Attorno a questo nuovo clima si iniziarono a contaminare le sonorità classiche del jazz britannico con suoni tipici jamaicani, dell’hip-hop, del funk e dei ritmi africani. Sicuramente il contributo musicale più importante viene fornito dall’afrobeat, reso famoso in tutto il mondo da Fela Kuti, che oggi costituisce la chiave di volta musicale del contemporaneo jazz londinese, giocando un ruolo fondamentale sia nel genere che nella scena del clubbing.

Gary Crosby ( a destra) con gli allievi del progetto Tomorrow’s Warriors

Un personaggio chiave che ha contribuito alla scena del neo-jazz è Gary Crosby, contrabbassista jazz di origini jamaicane che, insieme a Janine Irons, educatrice musicale britannica, ha dato vita al progetto Tomorrow’s Warriors e che dal 1991 forniscono un’istruzione musicale gratuita ai giovani ed in particolare ai discendenti della diaspora afro-caraibica, che non possono permettersi di accedere al sistema jazz londinese che ruota attorno al mondo dei conservatori e delle scuole private. Oltre a Tomorrow’s Warriors, a svolgere un ruolo cruciale è stato il collettivo Jazz:Re:Freshed, nato nel 2003 con l’organizzazione di eventi settimanali diventati presto di culto, con il dichiarato intento di assecondare l’eclettismo assoluto del jazz contemporaneo. La proposta jazz inglese si avvicina alla club culture e si riappropria della sua antica dimensione ballabile che sembrava sepolta sotto una cortina oscurantista di fruitori ingessati e compiaciuti del loro status symbol.

In questo ciclo di approfondimento parleremo di tre artisti che personalmente apprezzo tantissimo e che reputo tra i più rappresentativi della scena jazz contemporanea inglese: Shabaka Hutchings, Nubya Garcia, Emma Jean Thackray.

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