La Definitiva – parte 2

Dopo la prima parte, prosegue la narrazione.

Ricordava di aver fatto lezione le prime due ore, in terza B. E di aver accompagnato la classe nel parco, per la ricreazione.

Era una magnifica giornata di fine settembre: l’erba odorava di saporita rugiada e il sole, tiepido, alle undici, s’infiltrava oltre i cappotti scaldando le membra con la più perfetta dolcezza. Un noce, enorme, al centro del prato, dispensava la sua ombra fuori dal cancello.

I ragazzi trangugiavano le loro merende con contenuta vivacità, ora chiacchierando serenamente, ora impegnandosi in placidi azzuffamenti scherzosi. Le ragazze, radunate in un gruppetto a parte, confabulavano quatte quatte, lanciando ogni tanto, di sottecchi, una fugace occhiata ad Asia, che se ne stava ai piedi del noce, le braccia conserte, assorta nei suoi ragionamenti circa l’infanzia, il tempo che passa e il tempo sprecato.

Dopo la fine della ricreazione doveva recarsi in terza C: Asia richiamò gli allievi della terza B, che si radunarono vicino a lei, messia non voluta, in quel giardino scolastico di fiaba. Li ricondusse di sopra, agli odiati interni, attraverso la scala antincendio. S’affacciò in terza C: sulla sinistra, seduto alla cattedra, un uomo dalle spalle curve (Asia lo credette un collega) se ne stava appollaiato dietro un plico di fogli sbilenchi; zitti zitti i ragazzi, inchiodati ai banchi, penna alla mano, con espressione ansiosa, erano impegnati in un compito.

Asia si avvicinò silenziosamente a quell’uomo tarchiatello dal viso rubizzo e i capelli neri a spazzola: il ventre prominente, tirato e ben cucito dietro una camicia blu, sedeva scomposto, spaparanzato con una gamba fuori dalla seggiola e l’altra piegata perfettamente a novanta gradi sotto il legno malconcio del tavolone.

Sussurrando, Asia pigolò: “Scusi, lei è il collega di…?”.

“Sto somministrando un test”.

“Ah, capisco” annuì la novella prof, che aggiunse, con fare autorevole, alla classe: “Forza ragazzi, consegnate i compiti che fra poco comincia la lezione”.

L’uomo, sbattendo con ottusità gli occhi, con gentilezza riprese: “I ragazzi devono svolgere il test le prossime due ore”.

“Ma come… Io ho lezione adesso… Ma lei cosa insegna?”.

“Non sono un docente. Sono un esterno: è per le giornate dell’orientamento…”.

“Ah, capisco”, flautò Asia, con espressione ingenua. “Quindi ci sta lei con la classe”.

“Sì…”.

“Perfetto. Arrivederci allora”.

Asia salutò gli allievi e il commissario esterno, infilò lo zaino nero in spalla, uscì all’aria aperta, diretta a casa.

Ma a casa le sorse il dubbio: “Non è che per caso dovevo restare lì?”.

Telefonò alla scuola e il segretario, col suo minaccioso accento napoletano, le intimò di rientrare assolutamente.

In totale fibrillazione si infilò di nuovo il cappotto, salì in macchina cercando di raggiungere la scuola con rapidità (ma senza commettere infrazioni). Il paesaggio sfilava attorno a lei, da dietro il finestrino, irreale, rarefatto, perdendo di consistenza. In una bolla d’angoscia, marionettisticamente, compì tutte le operazioni necessarie: guidò, parcheggiò, scese dall’auto, raggiunse l’edificio, salì le scale, entrò in aula, firmò il registro, si sedette accanto al commissario esterno, cercando di capire cosa stesse succedendo. In piedi, di fianco alla cattedra, provava a darsi un ritegno, o perlomeno, cercava di mantenere un po’ di silenzio in aula.

Il commissario esterno… chi era?

…era il Dottor Billotto.

Ora ricordava: che sciocca che era stata! Durante la prima ora era arrivata in aula una circolare che informava circa… l’arrivo di questo… psicologo. Sì, era uno psicologo.

“Incontri con il Dottor Billotto”. Ore: dalle undici alle tredici. Dove? In terza C.

Terza C! La sua classe. Durante la sua ora di lezione. Ma Asia… Sei deficiente? Ripeté la giovane fra sé e sé. Ma stai collegata alla realtà? Dove vivi?

Bussarono alla porta, e s’affacciò un’inserviente: “Ah, la prof c’è. Volevo solo sapere se era arrivata. All’una e dieci… scenda in presidenza, ok?”.

“Ok” asserì Asia, diligentemente. Un secondo dopo, la bidella aveva già tolto il disturbo.

I questionari che il Dottor Billotto aveva cordialmente deciso di somministrare riguardavano il futuro scolastico e professionale degli allievi. Le domande erano banali, ma celavano un interesse paternalistico e maternalistico verso le nuove leve.

“Qual è il tuo libro preferito? Qual è il tuo film preferito? Segna tre scuole superiori che pensi di frequentare, in ordine di preferenza, uscito dalle medie”.

“In base a quale criterio sceglieresti il tuo lavoro? Retribuzione? Attitudine? Sicurezza del posto? Immediatezza dell’inserimento?”.

E i ragazzi, e le ragazze, giù a riflettere a voce alta: “Prof io non ho un libro preferito… Ma va bene anche un fumetto?”.

“Io non ho un film preferito… va bene una serie Netflix?”.

“Io non so che lavoro voglio fare… cosa barro?”.

E giù, e giù, a rendere tutti partecipi delle loro indecisioni. Io, io, io…

“Ragazzi. Scrivete, barrate e fate la cortesia di tenere per voi ogni dubbio. Le domande sono banali”.

E due. Asia non riusciva proprio a smettere di utilizzare quell’aggettivo: banali. Banale.

Una ragazzina in prima fila, molto cortese e ben educata, alzando la mano, con fiato sottile sussurrò: “Prof… Qui c’è scritto di scrivere tre nostri difetti… Io scriverei che sono poco intelligente… perché mi sento poco intelligente in effetti”.

“Giada”, cominciò Asia, con piglio materno: “Non credo che tu sia poco intelligente. Però se ti reputi poco intelligente, e sei convinta che la mancanza di intelligenza sia attribuibile ad un difetto, scrivi, sulla casellina: poco intelligente”.

Nel delirio di schiamazzi, di persone indecise circa il proprio futuro e di combriccole sonanti formatasi a gilde da quattro o da cinque ai lati della classe, Asia ritirò i test, assieme al Dr Billotto.

Suonò la campana. Accompagnò tutti fuori. Si diresse in presidenza.

E fu licenziata.

L’indomani, Asia scrisse questa mail:

Alla spett.bile diocesi di Torino,
Martedì, 21 Settembre 2021
Buongiorno. Sono una ragazza non più adolescente da un pezzo, da un punto di vista anagrafico, vivo a *******. Da che ho concluso il liceo, ho studiato antropologia per 5 anni, laureandomi, e per due anni ho frequentato una scuola di fumetto. Vi scrivo perché da 4 anni circa soffro di forti crisi esistenziali; vorrei prendere i voti e donare tutta la mia vita a Dio, pregando e lavorando in opere di carità. Finora non ho mai voluto ascoltare fino in fondo questa voce, presa dal percorso di studi, che mi sono imposta di concludere. Ora, di nuovo, sento di non essere al mio posto. Ho preso un biglietto di sola andata per Torino (arriverò il 4 Novembre alle 9.20 circa). Vorrei staccarmi dalla mia realtà, meditare sulla parola di Dio e poi prendere i voti. Fatemi sapere se il 4 Novembre siete aperti per un incontro. Vi lascio il mio numero di telefono, per qualsiasi cosa potete contattarmi dalle 14.30 in poi, tutti i giorni.
Federico Sabba <sabba.f@torinodiocesi.it> Gent.ma Asia,
ho ricevuto la sua mail con la richiesta di un colloquio il 4 novembre prossimo. Ho letto con attenzione la sua mail nella quale esprime il suo desiderio di donarsi al Signore nel servizio della carità verso i poveri.
Il suggerimento che le do è il seguente: avere o cercare una guida spirituale a ******. Questo è un elemento essenziale per ogni scelta di vita consacrata. Penso che non manchino saggi preti che la possono aiutare a fare il giusto discernimento del suo desiderio. Non credo sia una buona decisione il venire a Torino con un solo biglietto di andata. Le dico subito che nessuna comunità religiosa accoglie una persona senza prima conoscerla attraverso degli incontri di discernimento.
Fare i voti, come lei desidera, implica un lungo cammino di valutazione e di formazione. Inoltre le comunità non sono tutte uguali. Ognuna ha il suo stile e la sua missione come può constatare tra le comunità religiose di ******. Un altro suggerimento che mi permetto di darle, oltre a avere una guida spirituale, è di contattare qualcuna delle comunità religiose che sono presenti nella diocesi di ******. C’è anche un monastero di monache carmelitane. Potrebbe chiedere un colloquio con la Priora o con un’altra monaca per un confronto di discernimento.
Fuggire da ****** non le serve a nulla. Non è una buona decisione. Venendo a Torino dove e come vivrebbe? Il Signore ci incontra dove siamo e dove e come viviamo. E non è detto che il Signore la aspetti a Torino per realizzare il suo desiderio. Come le ho suggerito, cominci a verificare nella sua città la solidità o meno del suo desiderio con una guida spirituale. Senza una guida corre il rischio di fare passi sbagliati.
Un cordiale saluto, don Federico Sabba Sabino
Curia Metropolitana di Torino
Vicario Episcopale per la Vita Consacrata
Via ******** 3 - 10149 TORINO
Tel.: 011/++++++

Come aveva potuto ridursi a quel modo? Asia non riusciva più a alzarsi dal letto, né ad uscire di casa. La diagnosi era chiara: depressione. La capacità di reazione: le mancava. In fondo, doveva solo ritornare a volere, desiderare: darsi una mossa, correre, uscire…

Ma non ci riusciva. Restava ferma. Immobile, nel suo letto. Si sentiva soffocare, le mancava l’aria. Sapeva benissimo che avrebbe potuto fare una corsa, leggere a voce alta, proporsi per qualche lavoro, intraprendere, essere intraprendente, stare nel mondo dentro il suo corpo, senza imbarazzo. Ma il suo corpo impazziva, il suo corpo si rifiutava di esistere, non voleva esistere: quante volte le era capitato… di sentirsi addosso gli sguardi del mondo, e di desiderare la fuga. Giorno dopo giorno Asia si era lasciata divorare dalla tristezza, fino a consumarsi nel fisico. Si ingobbiva sempre più, il petto affossato dentro le spalle curve, e il suo viso, emaciato, smunto, cianotico…

Mangiava, dormiva – togliersi il pigiama era un’impresa. A volte ascoltava audiolibri. Altre volte provava a guardare un film, o a leggere un libro: aveva iniziato un romanzone d’avventura da 800 pagine di Cristian Jaques, si chiamava Nefer, ed era ambientato in un immaginifico Antico Egitto. Scriveva, anche. Distruggersi fisicamente era un pretesto per essere viva intellettualmente.

Una sera, verso le diciassette, ebbe la forza di uscire per fare la spesa.

Prima domenica di Ottobre: nessun proposito di suicidarsi. Ma nemmeno di farsi suora: dopotutto, prendere i voti era solo un pretesto per esimersi dal peso di una scelta più sensata.

Chiudersi dentro a un saio, avere una vita strutturata, perdere ogni capacità decisionale, e affidarsi a Dio, questo sconosciuto… Asia sospirò, il viso affondato nel cuscino.

Quel giorno Asia sarebbe rimasta a letto, un po’ dormendo, un po’ sognando, riposando… La mente che correva ancora là, a quella scuola media, da dove era stata cacciata. Chiuse gli occhi e ricordò.

“Professoressa, quello che è successo è gravissimo: lei è passabile di denuncia, lo sa questo?”.

“…”.

“Lei deve solo scegliere: o la denunciamo, o abbandona l’incarico”.

Il segretario della direzione amministrativa era scuro in viso. Con accento napoletano, espressione contrita e severa, fissava Asia, tenendo le mani conserte sulla scrivania.

“Questa è la decisione della Preside. E ringrazi che le diamo l’opportunità di scegliere: una denuncia non sarebbe certo il miglior modo per iniziare la sua carriera…”.

“Senta… sono al mio primo incarico, non so niente della scuola, sono stata buttata dentro così, senza sapere nulla”.

“Se vuole insegnare, può tranquillamente reperire tutte le informazioni necessarie per svolgere questo mestiere. Allora, scelga. Come vuole procedere?”.

“Io… firmo le mie dimissioni”.

Il segretario dettò, Asia prese nota. Le parole si confondevano, mentre la mano, tremante, sembrava aver perso i riferimenti spaziali.

“In alto a sinistra, in basso a destra…” informava il segretario, mentre Asia, come una bambina sparuta, eseguiva. Inerte. L’inchiostro era blu o nero? Non ricordava.

“Si ricordi di depositare i libri”.

“Certo: già fatto”.

Asia, dopo le dimissioni, era scesa in aula insegnanti; dall’ufficio presidenziale, passando davanti all’ingresso principale, aveva imboccato la scala che declinava nel seminterrato; sepolta dietro una doppia porta con maniglione antipanico, l’aula insegnanti era un ambiente piccolo e buio; le pareti d’un verde ospedaliero, claustrofobico, custodivano un tavolo di legno scuro, spesso, ma piccolo, troppo piccolo per ospitare un intero corpo docente. Tre o quattro computer riposavano a destra dell’ingresso, e qualche insegnante in mascherina pigiava pigramente dei tasti. Asia aveva salutato, con garbo. Poi aveva riposto i libri nell’armadietto, conscia di sparire, desiderosa di sparire via da lì il prima possibile.

Risalendo, aveva incrociato nuovamente il segretario, che l’aveva ammonita ancora: “Si ricordi di depositare i libri”.

Già fatto.

“Ma mi ascolti, stronzo?”

Aveva attraversato di nuovo l’atrio principale, sfilando vergognosamente davanti alla bidella, che l’osservava angustiata. Dentro il suo cappotto nero, i piedi calzati negli stivaletti di pelle scamosciata, i ricciolini ravvivati col ferro, il rossetto, il fondotinta… Asia si sentiva un pagliaccio senza vita.

Il sole splendeva, alle tredici e trenta di quel giorno. Asia entrò in macchina, infilò le chiavi. “Sono un burattino senza estro e senza volontà. Non so che fare. Sono in cortocircuito. Non so più niente: per ora, so solo che devo tornare a casa. E che me la sono svignata.”

“Me la sono svignata”.

Me la sono svignata. E adesso?

Da qualche parte, nel mondo, deve pur esserci un luogo fuori dal mondo, dove, serenamente, vivere.

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