La stagione dell’ombra

Quando l’ombra scese sul mondo

Nel cuore dell’Africa sub-sahariana, una notte, un incendio devasta il villaggio del clan dei Mulongo. La mattina dopo, dodici giovani uomini sono scomparsi. I Mulongo vivono protetti dalla fitta foresta, in luoghi difficilmente accessibili. Nulla del genere era mai accaduto. Le madri, quelle i cui figli non sono stati ritrovati, vengono alloggiate in un’unica capanna, separate dalla comunità, affinché il loro dolore non si sparga per tutto il villaggio. Lasciate in balia del silenzio, non sanno se possono piangere, perché le lacrime sono riservate solo ai corpi senza vita. Il villaggio è stato attaccato. Da chi e a quale scopo non si sa. Una notte, le donne i cui figli sono scomparsi, fanno tutte lo stesso sogno: la voce del proprio figlio che chiede Mamma, aprimi, così che possa rinascere. Sulla capanna cala una nebbia fredda. Un’ombra che annuncia, per i Mulongo, la scomparsa del loro mondo.

Poco inclini alla guerra, i Mulongo si attardano smarriti in infinite consultazioni, mentre galoppa veloce il carro sterminatore della storia. Il motto del clan è Sono perché siamo: non tentare l’impossibile per ritrovare gli scomparsi sarebbe come gettare al vento una parte di se stessi. Tre persone del villaggio partono alla ricerca. Tra queste, una madre, nella cui testa risuonano le parole che il figlio le ha detto in sogno: Mamma c’è solo acqua, la strada del ritorno è sparita, c’è solo acqua… Scoprirà nel viaggio che i Mulongo e i vicini Bwele non sono gli unici clan a popolare il mondo. Ci sono ricchi villaggi sulla costa, ai confini del mondo, dove la terra finisce e si apre, verso chissà dove, l’Oceano. Qui, da qualche tempo, sono arrivati degli stranieri dai piedi di pollo. Non hanno delle vere e proprie zampe da uccello, ma gli indumenti che indossano danno questa impressione. Hanno lance strane, che sputano fulmini. Gli abitanti della costa commerciavano da tempo con questi stranieri, giunti da nord attraversando l’oceano. Prima li rifornivano di olio di palma e zanne d’elefante, adesso procurano uomini, in cambio di merci.

Il romanzo di Léonora Miano racconta gli albori del traffico transatlantico di schiavi, con lo sguardo di chi è rimasto. Dedicato «agli abitanti dell’ombra che ricopre il sudario atlantico», obbedisce all’imperativo di dare un viso e una voce ai milioni di anonimi dispersi dalla storia. Con echi della tradizione orale, narra lo spazio epico della fine di una civiltà, in un tempo e in un luogo che escono dalla storia per abitare il tempo tragico della fondazione. Miano è nata in Camerun, vive oggi a Parigi ed è tra gli autori impegnati a trasformare la letteratura africana. Recupera la storia e la memoria di un evento che la ossessiona fin da quando è bambina, non parla direttamente della schiavitù o della tratta di schiavi ma usa gli strumenti della letteratura per dare forma all’esperienza umana di chi ha visto morire i propri cari, deportati interi villaggi, di chi ha dovuto dare un senso, di chi ha visto il proprio mondo crollare.

La storia del commercio degli schiavi che dall’Africa furono deportati in tutto il mondo conosciuto, è parte fondante della storia del mondo moderno ed è un tassello importante per la comprensione del mondo contemporaneo. Il commercio di esseri umani ha innescato trasformazioni globali, ha lacerato il tessuto sociale, culturale ed economico del continente, segnando una rottura radicale nella storia dell’Africa. Il volume complessivo di africani deportati, dal tardo Quattrocento fino al 1867, superò i 12,8 milioni di persone. È stata la più grande migrazione umana fino a oggi e la prima grande migrazione del mondo moderno.

E’ quasi certo che la schiavitù esistesse in Africa già prima della diffusione dell’Islam e dell’arrivo degli europei (fattori determinanti nello sviluppo della storia della schiavitù nel continente africano) ma l’incidenza del fenomeno era marginale. Le prime caravelle portoghesi arrivarono sulla costa atlantica africana intorno alla metà del Quattrocento, aprendo così una nuova rotta che permetteva di approvvigionarsi di oro, avorio e altre merci preziose, scavalcando gli intermediari arabi che commerciavano nel Mediterraneo. Inizialmente, il commercio di schiavi fu abbastanza limitato: quanto bastava per soddisfare il bisogno di manodopera in Portogallo, che era scarsamente popolato, o nelle isole produttrici di zucchero scoperte in quegli anni: Madeira, São Tomé e Principe. Dopo pochi decenni cominciarono a procurare schiavi anche per l’America spagnola. Con lo sviluppo delle piantagioni di canna da zucchero in Brasile, la domanda di forza lavoro era in crescita costante e aumentò di conseguenza la richiesta di schiavi dall’Africa. All’inizio del Seicento, la tratta cominciò a essere molto più consistente, al punto da far sembrare quasi irrilevanti le precedenti esportazioni di esseri umani dall’Africa. Nel Settecento, con l’introduzione delle produzioni intensive di tabacco, caffè e cotone, la migrazione forzata oltreoceano si intensificò ulteriormente. Colpisce pensare che in questi stessi anni, sempre in America, veniva approvata la Dichiarazione d’indipendenza, che stabiliva, con incontrovertibile certezza, che tutti gli uomini sono creati eguali e che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti tra cui la Vita, la Libertà, e il perseguimento della Felicità. Il 4 luglio 1776, su circa due milioni e mezzo di abitanti delle colonie nordamericane, gli schiavi importanti dall’Africa erano mezzo milione. All’atto di nascita degli Stati Uniti d’America, mentre si proclamava l’uguaglianza naturale di tutti gli uomini, un quinto della popolazione viveva in schiavitù.

Per circa quattro secoli il mondo è stato attraversato da un intenso e florido traffico commerciale attraverso i tre continenti. Le navi iniziavano il loro viaggio dai porti più importanti dell’Europa, dove ricevevano un carico di alcolici, armi e utensili vari, da scambiare lungo le coste africane con schiavi. Cariche di merce umana, le stesse navi partivano alla volta dell’America. Durante la traversata oltre il 10% degli schiavi moriva o si suicidava, i sopravvissuti venivano venduti e mandati a lavorare nelle piantagioni. Col denaro guadagnato le navi venivano nuovamente caricate, questa volta con merci coloniali come lo zucchero e il cotone che raggiungevano infine i dinamici mercati europei, alla faccia dei Lumi e delle magnifiche sorti e progressive.

Le classi dirigenti africane furono, in modi diversi, completamente coinvolte nel sistema della tratta. In alcuni casi la cattura di schiavi era l’esito di guerre tribali; in altri frutto dell’avidità e della smania di potere di alcuni capi africani, che compravano armi dagli europei per affermarsi militarmente nei territori vicini; in altri ancora, catturare uomini di clan vicini era un modo per salvare gli uomini del proprio clan, che sarebbero stati presi dagli europei qualora il numero di schiavi fornito non fosse sufficiente. I mercanti bianchi non si addentravano nell’entroterra africano, ritenevano più vantaggioso lasciare agli africani la cattura di altri africani, limitandosi ad esigere delle date quantità di carne umana. La forza di attrazione del mercato internazionale trasformò le tradizionali forme di schiavitù da elementi marginali, interne alla struttura gerarchica delle società, a elementi chiave di un sistema economico. La schiavitù divenne una vera e propria istituzione produttiva, base fondamentale dell’economia di molte società africane. Il risultato fu l’emergere di società schiaviste dove prima c’era stato solo un numero esiguo di schiavi. Parallelamente l’asservimento fu un mezzo di controllo sociale, mentre il sistema politico si strutturava sempre più in relazione al potere militare. Chi vendeva gli schiavi comprava le armi dagli europei e imponeva il suo potere sui clan vicini.

La schiavitù in America fu abolita nella seconda metà dell’Ottocento. In Africa molto più tardi. Secondo lo storico canadese Paul Lovejoy «con l’abolizione della schiavitù fu spezzato il modo di produzione che legava schiavizzazione, tratta schiavista e impiego degli schiavi. Ma, nonostante i funzionari coloniali in Africa parlassero di morte naturale dell’istituzione, la schiavitù non è morta tanto presto». Sparì gradualmente, criminalizzando le forme di asservimento e del commercio di esseri umani, ma non attraverso l’automatica emancipazione degli schiavi. Nel mondo atlantico, la schiavitù è stata la base di un sistema di lavoro associato alla colonizzazione, oltre a un mezzo di popolamento di nuovi territori che si stavano sviluppando come colonie dell’imperialismo europeo. La tratta degli schiavi ha fondato una comunità diasporica dispersa in tutto il mondo, ma per le terre d’Africa il saldo demografico è stato negativo. Una gran parte della sua popolazione in età produttiva, soprattutto maschile, lasciò il continente. Molti morirono nelle guerre e nelle razzie di schiavizzazione, o in carestie che seguivano i frequenti disordini politici.

Se la memoria del passato schiavista è stata un coagulante per le identità afro americane, più problematica e ambigua è la memoria di chi è rimasto nel continente africano. La stagione dell’ombra di Leonora Miano vuole far emergere l’impatto che la tratta ha avuto sul popolo africano, nella percezione di sé e della propria storia. La tratta è stato uno spartiacque nella definizione dell’identità: non esistevano gli africani, né i neri, il concetto di razza non apparteneva alle società sub sahariane prima dell’arrivo degli europei. Non ci può essere coscienza di sé, secondo Miano, se si sceglie di ignorare la genesi della dialettica identitaria, cinquecento anni di una storia che ha interconnesso il pianeta e tracciato equilibri che ancora oggi pesano sui popoli.

La donna dice che quella terra si chiama Bebayedi. È il paese che hanno scelto quelli che sono sfuggiti alla cattura. Lì, i ricordi degli uni si mescolano a quelli degli altri per tessere una storia. L’anziana chiede come si possa vivere senza l’aiuto degli antenati, senza riconoscere sul terreno l’impronta del loro passaggio. Come si possa andare avanti, se altri non hanno già tracciato un cammino. La donna risponde che gli avi non sono all’esterno, ma dentro di loro. Sono nel rullo dei tamburi, nel modo di preparare il cibo, nelle credenze che perdurano, che si trasmettono. Chi le ha precedute sulla terra dei vivi abita la lingua che parlano in quel momento. Si trasformerà entrando in contatto con altre lingue, le impregnerà e si lascerà impregnare da loro. Gli antenati sono lì. Il tempo e lo spazio non sono dei limiti per loro. Risiedono dove vive la loro discendenza.

Nasce a Venezia dove si laurea in antropologia. Si diploma attrice a Milano. Vive a Roma nel quartiere di TorPignattara. Non sapendo dipingere, si dedica senza successo all' arte del collage.

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