La statua della discordia
La mattina del 11 maggio 1945 i carri sovietici T-34 attraversano i ponti costruiti sulla Moldava ed entrano finalmente a Praga: la seconda guerra mondiale è davvero terminata.
A differenza di altri centri che si sono liberati autonomamente o dove sono scoppiate insurrezioni, Praga è l’ultima città ad arrendersi e il merito pare sia da attribuire alla maniacale attenzione per l’ordine pubblico e la sicurezza del Reichprotektor delle SS di Boemia e Moravia Karl Hermann Frank, odiato collaboratore di Reinard Heydrich, tristemente noto per aver ordinato la distruzione del villaggio di Lidice e il massacro dei suoi abitanti dopo l’attentato allo stesso del 27 maggio 1942.
Alla testa del corpo di armate corazzate che hanno assediato e piegato la capitale boema c’è Ivan Stepanovič Konev, generale tra i più famosi in patria e all’estero: profilo fiero, corpo snello e sguardo da generale scafato. I corpi di armate al suo comando hanno liberato Ucraina, Polonia, Boemia e Moravia e arrivano fino a Berlino nel maggio 1945. Konev è considerato il generale più popolare e amato dell’Armata Rossa secondo, forse, solo al maresciallo Georgij Žukov vincitore della battaglia di Stalingrado, per le sue doti strategiche e il fervente credo politico bolscevisco.
La sua carriera, però, forte della stima di Stalin, conosciuto nel lontano 1924, non si arresta con la fine del secondo conflitto mondiale: durante la Rivoluzione ungherese del 1956 è a comando delle truppe sovietiche che sedano nel sangue la rivolta, nel 1961 è nominato comandante in capo delle truppe della DDR e, nel 1968, durante la Primavera di Praga, prepara l’invasione sovietica della Cecoslovacchia.
In suo ricordo, nel 1980, nel quartiere di Bubeneč, nel sesto distretto della città, è stata eretta un’enorme statua. Ricordo che, però, lo scorso 3 aprile dopo una discussa decisione del settembre scorso da parte concilio del distretto, capitanato dal politico locale Ondrej Kolar, è stato rimosso creando moltissime polemiche e scontri incrociati tra i gruppi politici nazionalisti, il presidente ceco Milos Zeman che ha accusato Kolar di approfittare dell’emergenza Coronavirus per fare propaganda politica e il leader del partito comunista Vojtech Filip che, dall’emittente Radio Prague, ha condannato la decisione considerandola come un vero e proprio gesto di ingratitudine nei confronti della Russia.
Le proteste da parte russa non si sono fatte attendere: il ministro degli esteri Sergei Shoigu, già ministro della Protezione civile famoso per aver avanzato la proposta di istituzione di una legge per punire atti di revisionismo storico antipatriottici, ha infatti condannato duramente il gesto e ha chiesto che la statua venga restituita; offerta declinata dalle autorità ceche che si sono rifiutate di restituire la statua, la quale – stando a note governative – sarà esposta in un museo, di prossima apertura, sulla storia ceca ed europea del XX sec. È successivamente intervenuto anche il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov che ha esplicitamente chiesto che il monumento venga riposizionato appellandosi al senso di gratitudine che i cittadini di Praga nutrono nei confronti verso Ivan Konev.
È, invece, notizia del 10 aprile l’apertura di un’indagine degli investigatori federali russi per la rimozione della statua del generale Konev che potrebbe provocare ulteriori tensioni e potrebbe essere intesa come una vera e propria ingerenza della Russia nella politica interna di un altro stato.
Non è la prima volta però che il terreno storico diventa campo di battaglia politico, magari con intenzioni revisionistiche, a causa di interpretazioni “divergenti” riguardo eventi e/o fatti riguardanti la seconda guerra mondiale: è sufficiente ricordare la polemica del gennaio scorso, durante le celebrazioni per il 75° anniversario della Liberazione di Auschwitz, innescata dalle parole del primo ministro ucraino Volodymyr Zelenskiy che ha lanciato accuse di collusione con la Germania nazista nei confronti dell’ex Unione Sovietica, in riferimento alla firma del patto Molotov-Ribbentrop.
Oppure le polemiche sollevate dalle dichiarazioni di Putin, a seguito della decisione del Parlamento Europeo di istituire la giornata Internazionale degli Eroi che hanno combattuto i totalitarismi nella giornata del 25 maggio, in ricordo dell’esecuzione dell’internato e membro dell’Armia Krajowa Witold Pilacki, in cui la Polonia viene accusata di essere stata responsabile dello scoppio del secondo conflitto mondiale e che l’occupazione sovietica del territorio polacco avrebbe salvato molte vite. Accuse, peraltro, molto simili a quelle che il 4 giugno 2009, sul sito del ministero della Difesa russo, lo storico militare Sergej Kovaljov, avanzava verso la Polonia sostenendo che: «Tutti sanno che la guerra incominciò per il rifiuto della Polonia di soddisfare le pretese tedesche».
Da un lato, l’utilizzo pubblico della Storia e le sue deformazioni e i suoi appiattimenti in nome di una presunta “Verità” di Stato con accese venature patriottiche si sta trasformando, nella Russia di Putin, in un vero e proprio strumento politico; non è un caso infatti che gli attacchi più feroci siano stati scagliati verso quelle nazioni, Polonia e Repubblica Ceca in primis, che maggiormente si stanno affrancando dall’influenza russa e che invece si avvicinano sempre più alla sfera d’influenza dell’Unione Europea.
Dall’altra parte, è chiaro che il gesto di Kolar, sostenuto dalla destra estrema ceca ma che avuto eco anche nelle vicine Polonia e Ungheria, oltre che ha configurarsi come un attacco politico in funzione anti-russa, va nella direzione di una precisa idea di politica pubblica della memoria dove gli elementi di unità nazionale, rappresentati da monumenti e simboli, testimonianza di un passato che non passa e che porta con sé ferite ancora aperte, sono utilizzati come strumenti di propaganda partitica.