L’età d’oro del cinema italiano

A cura di Giacomo Somazzi

Parte I: la rinascita (1929-1943)

Esattamente cent’anni fa, nel 1919, il cinema italiano riceveva la sua prima battuta d’arresto dopo un inizio che era stato tra i più ricchi e importanti a livello mondiale: i Kolossal storici torinesi, seppur con budget inferiori, tenevano testa alle enormi produzioni americane e le nostre dive del cinema muto non temevano il confronto con le stelle hollywoodiane. Ma questa situazione di autarchia cinematografica, che va dal 1905 al 1919, in cui l’Italia era capace di produrre film su larga scala e al contempo riempire le sale, arriva inevitabilmente alla fine quando i produttori italiani non riescono più a fare fronte all’invasione dei film girati all’estero. Non solo dagli Stati Uniti, ma anche da Francia, Austria, Germania e in misura minore dalla Russia giungono una moltitudine di film realizzati da alcuni dei registi più grandi della storia del cinema: DeMille, Gance, Pabst, Lang e Ejzenštejn. Questa convergenza di straordinari autori e meccanismi produttivi eccellenti, come gli Studios americani, porta un gran numero di pellicole di ottima qualità nei cinema italiani, relegando molte delle produzioni nostrane in fondo ai palinsesti.

Terra Madre (Blasetti, 1931)

La crisi italiana perdura per dieci anni, fino al 1929, anno in cui iniziano a lavorare due giovani registi che diventeranno fondamentali per il rilancio del cinema italiano: Alessandro Blasetti e Mario Camerini. La volontà comune è di recidere i legami col cinema del passato e rinnovare il linguaggio con cui i film parlano al pubblico. Sebbene intriso di propaganda fascista il film Sole (Blasetti, 1929), nello sforzo di documentare la risposta del regime ai piani quinquennali sovietici, ha già in sé i germi di un cinema nuovo e a carattere sociale. Così anche Rotaie (Camerini, 1929) si mostra attento ai problemi delle persone e più vicino alla realtà del pubblico di quanto non lo fossero i film stranieri. Sembra dunque emergere una nuova tendenza del cinema italiano a rappresentare temi tratti dal quotidiano e a cercare nuove vie per raccontarli.

Mussolini sul set di Scipione l’africano (Gallone, 1937)

Sempre nel 1929 l’imprenditore e produttore Stefano Pittaluga, forte del sostegno del regime, inaugura i nuovi studi della Cines in Via Vejo a Roma alla presenza del ministro Giuseppe Bottai. Proprio per voce del ministro il regime assume un impegno formale verso la produzione cinematografica nazionale e nel 1931 verrà promulgata una legge con cui, per la prima volta, uno stato europeo impegna capitali a fondo perduto a favore di un’industria dello spettacolo. Questi avvenimenti, al fianco di una nuova generazione di registi interessati a nuovi modi di fare cinema, creano le basi per una ripresa della produzione cinematografica nazionale.

Gli studi della Cines in Via Vejo

Così iniziano gli anni trenta, un fecondo periodo d’incubazione e prima manifestazione dei caratteri e dell’identità del cinema italiano del dopoguerra. Non solo dal punto di vista economico e artistico, ma anche da quello tecnico si presentano delle importanti novità: una su tutte l’avvento del sonoro, che porta a un radicale cambiamento del lavoro dell’attore e del resto della troupe. E’ proprio la Cines che produce il primo film sonoro italiano La canzone dell’amore (Righelli, 1930), che fu un enorme successo di pubblico e che venne anche girato in versione francese e tedesca. In quegli anni la Cines rappresenta la quasi totalità del cinema italiano, producendo sia film di finzione che documentari e film d’arte grazie alla collaborazione con intellettuali e letterati del calibro di Pirandello, voluti dall’allora direttore artistico Emilio Cecchi. Tutto ciò termina nel 1935 quando a causa di un incendio di origini sconosciute la Cines viene rasa al suolo e sostituita da Cinecittà. Sebbene sia sottoposta a un controllo più rigido da parte del regime, Cinecittà si dimostra fin da subito un’oasi di libertà artistiche, espressive e professionali grazie soprattutto all’influenza del Centro Sperimentale, affidato agli intellettuali Luigi Chiarini e Umberto Barbaro, noto antifascista, che forma le nuove leve del cinema italiano.

Inaugurazione di Cinecittà alla presenza di Benito Mussolini, 1937

Proprio nel 1935 Blasetti, che era stato il regista di punta della Cines, inizia un nuovo periodo di fervente attività che lo porta a girare Vecchia guardia, un film che racconta le gesta squadristiche del primo fascismo e che per questo non piace ai vertici che infatti volevano dimenticare quel passato violento, Ettore Fieramosca (1938), La corona di ferro (1941), antologia di miti e racconti popolari, e infine Quattro passi tra le nuvole (1942) che sancisce l’inizio della collaborazione con Cesare Zavattini, lo sceneggiatore più attivo e influente di quegli anni nonché il padre ideologico del Neorealismo. Quest’ultimo film porta Blasetti più lontano dal regime e più vicino a quella generazione di registi che mettono al centro della loro opera persone comuni e una ricerca stilistica che si ispira al verismo di Verga. Su questa scia si muove anche il suo vecchio collega, Mario Camerini, che con Gli uomini che mascalzoni… (1932), film che regala la fama all’attore Vittorio de Sica, mette in scena una commedia sofisticata nella forma ma popolare nei contenuti, capostipite della futura commedia italiana. I suoi film dei primi anni quaranta, come Una romantica avventura (1940), I promessi sposi (1941) e Una storia d’amore (1942), confermano il suo grande talento e la capacità di muoversi da un genere all’altro, ma segnano anche il passaggio di consegne al suo erede naturale, Vittorio De Sica. L’esordio di De Sica alla regia avviene nel 1940 con Rose scarlatte, a cui seguono due commedie, ma il vero punto di svolta arriva con I bambini ci guardano (1943) che rappresenta la sua maturità registica e il fiorire della sua poetica. Negli stessi anni sale alla ribalta un altro regista, formatosi con la regia dei documentari dell’istituto LUCE, capace di indirizzare il cinema italiano versi nuovi orizzonti creativi, Roberto Rossellini. Il suo esordio registico è diverso da quello di De Sica, infatti firma una trilogia di propaganda: La nave bianca (1941), Un pilota ritorna (1942)e L’uomo della croce (1943), rispettivamente sulla marina, l’aeronautica e la fanteria. Un terzo ed ultimo esordio sancisce definitivamente la fine di questo periodo di rinascita del cinema italiano: è il film Ossessione di Luchino Visconti del 1943. Infatti è proprio in quest’anno che si chiude il periodo protezionistico, iniziato con la legge Alfieri del 1938, che per cinque anni ha bloccato tutti i film stranieri alla frontiera. Sebbene abbia giovato ai produttori, non è stato altrettanto vantaggioso per lo stato ed è crollato proprio nel 1943 sotto il peso dei costi: infatti per poter tornare in pari la maggior parte dei film italiani è stata costretta a utilizzare fondi statali, che inevitabilmente vennero persi.

Sulle ceneri del sistema produttivo del regime fascista, che non era frutto di un piano a lungo termine ma di una immediata necessità di ordine propagandistico, si dovrà ricostruire il cinema italiano. La povertà di mezzi unita alle tendenze sviluppatesi negli anni trenta e ai registi della nuova generazione porterà alla nascita del periodo più alto e fecondo del cinema italiano, il Neorealismo.

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