Manovra 2020: ripartire in salita

Al momento del suo insediamento, il 5 settembre 2019, il governo Conte-bis aveva già una destinazione preimpostata sul navigatore: bisognava scongiurare l’aumento dell’IVA, previsto dalle clausole di salvaguardia e che avrebbe dovuto portare nel 2020 circa 23 miliardi di euro nelle casse dello Stato.

Le clausole di salvaguardia sono un meccanismo che prevede, per compensare una maggiore spesa pubblica, l’aumento automatico di determinate imposte a meno che non si trovino modalità alternative di copertura. Sono una sorta di piano B con cui il Governo può permettersi di spendere più soldi in un determinato anno, garantendo di coprirle in futuro con tasse più alte.

Meno chiare erano le indicazioni sulla strada da seguire. In teoria, per evitare l’aumento dell’IVA lo Stato avrebbe dovuto aumentare altre entrate o ridurre le spese. In realtà, dei circa 30 miliardi a cui ammonta la manovra appena approvata, solo 11 provengono da maggiori entrate e circa 3 da minori spese. I restanti 16 sono stati raccolti facendo ricorso al deficit. Le entrate vengono principalmente da lotta all’evasione fiscale, tassa sulla fortuna, e altre tasse su auto aziendali, benzina, plastica e zucchero. La riduzione delle spese prevede un taglio dei sussidi alle imprese inquinanti e l’ennesimo tentativo di ridurre i costi della pubblica amministrazione.

Come sono stati impiegati i soldi? Come detto, 23 miliardi sono serviti a sterilizzare le clausole di salvaguardia sull’IVA. Gli altri 7 sono stati ripartiti tra investimenti per un Green New Deal italiano, riduzione delle tasse per i lavoratori dipendenti con redditi sotto i 35.000 euro, fondi per edilizia ospedaliera e abolizione del superticket, maggiori risorse per i comuni e per la manutenzione di strade e infrastrutture.

Sette miliardi da spartire tra i vari ministeri sono effettivamente pochi, e la complessa trattativa che ha preceduto l’approvazione della Legge di Bilancio è stata una lotta per accaparrarsi le briciole. A rimanere maggiormente penalizzata è stata l’istruzione, nel paese Ue che ad essa destina la quota più bassa della spesa pubblica. Da qui lo scontento dell'(ex) Ministro dell’Istruzione Fioramonti, che ha annunciato le dimissioni dopo l’approvazione della manovra.

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Il post con cui l’ex ministro Fioramonti motiva le dimissioni

A ben guardare, le risorse c’erano, ma sono state male utilizzate: basti pensare che per il 2020 è prevista una spesa di oltre 7 miliardi per finanziare il solo Reddito di Cittadinanza, misura simbolo del Movimento 5 Stelle e del governo gialloverde.

Quello con cui era stata “abolita la povertà”

Lo strumento si basa su due pilastri: sostegno economico ai disoccupati e politiche attive per aiutarli a trovare lavoro. Entrambe le cose esistevano già: un sussidio alle famiglie sotto una certa soglia di reddito esisteva con il nome di Reddito di Inclusione, e per l’inserimento lavorativo dei disoccupati c’era l’Agenzia Nazionale Politiche Attive del Lavoro (ANPAL) e i Centri per l’impiego, il cui compito è far incontrare domanda e offerta di lavoro. Certo, entrambi gli strumenti avevano sicuramente dei problemi e il loro funzionamento non è sempre stato di particolare efficacia. In particolare, i Centri per l’impiego sono risultati poco incisivi nell’inserimento lavorativo dei giovani.

Come hanno trovato lavoro gli occupati nella fascia 20-34 anni. Meno del 5% ha trovato un lavoro grazie ai Centri per l’impiego – Dati ISTAT

Non era quindi sbagliato, di per sé, l’intento di riformare il sistema di accesso al lavoro con strumenti più efficaci. Il problema è che il Reddito di Cittadinanza è finora risultato un fallimento, come emerge dai numeri del suo primo anno: su circa 2,3 milioni di beneficiari, poco meno di 29 mila sono stati assunti (l’1%), e per giunta due terzi di queste assunzioni sono avvenute a tempo determinato. Allo stato attuale, il sussidio viene erogato, ma le politiche attive del lavoro sono ancora in alto mare: tremila navigator dovrebbero trovare lavoro per più di 2 milioni di persone, venendo formati da ANPAL e lavorando proprio in quei Centri per l’impiego che sono finora risultati inefficaci. Inoltre, non è stato previsto alcun meccanismo di formazione per le persone disoccupate, vero e proprio anello mancante di un percorso di reinserimento lavorativo efficace. Risulta infatti difficile pensare che la gente non trovi lavoro semplicemente perchè non si è in grado di far incontrare la gente che vuole lavorare con la gente che vuole assumere: è più sensato pensare che la gente che vuole assumere (ammesso che ce ne sia, e qua si potrebbe aprire un ampio capitolo) non trova personale con le competenze necessarie, che vanno formate.

In assenza di percorsi di riqualificazione professionale il Reddito di Cittadinanza non è uno strumento di politica del lavoro, ma un sussidio con intenti elettorali più o meno dichiarati. È chiaro, quindi, che ripensare o rimuovere il RdC un solo anno dopo averlo approvato sarebbe un suicidio politico per i Cinquestelle, già in piena emorragia di voti.

In conclusione, l’Italia si è ritrovata bloccata (con una crescita del PIL praticamente nulla) nella nebbia dell’economia europea e mondiale (la Germania rallenta e la guerra commerciale Usa-Cina prosegue), in riserva dopo aver sprecato troppa benzina. Il governo giallorosso ha scampato il pericolo della contravvenzione imposta dai vincoli europei, ma solo per quest’anno: le clausole di salvaguardia incombono ancora per il 2021 e il 2022. Le prospettive per l’anno prossimo non sono poi così rosee: la crescita del PIL è prevista fra +0,4% (secondo le stime della Commissione Europea) e +0,6% (secondo le stime del Governo), forbice che ci posiziona, per il terzo anno consecutivo, all’ultimo posto in Europa.

La manovra gialloverde di fine 2018 rischia ancora di lasciarci al verde, o coi conti in rosso, che dir si voglia. E in questo tripudio di colori non può che tornare in mente Corrado Guzzanti con la sua imitazione di Romano Prodi, secondo cui nel trambusto della politica italiana una sola cosa resta ferma, immobile, a dirigere:

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