Non basta più raccontare il mondo. Bisogna cambiarlo

Le tragedie greche hanno più di duemilacinquecento anni ma i registi di teatro continuano a metterle in scena. Spesso attualizzate, ambientate ai giorni nostri per mostrarne le costanti psicologiche o viceversa in uno spazio e tempo sospesi per mostrare delle dinamiche universali. Con Orestes in Mosul il regista svizzero Milo Rau si spinge oltre: la tragedia di Eschilo si fonde con la storia di Mosul e con le biografie degli attori, il racconto mitico diventa esperienza reale del mondo. Il tema è il ciclo della vendetta e la difficoltà di interrompere la catena della violenza, Milo Rau lo affronta nella prospettiva della tragedia dove ogni decisione risulta sbagliata e sembra non essere data la possibilità di una scelta giusta.

Milo Rau. Photo: Thomas Muller

Nato a Berna nel 1977 ma di origini rumene, Milo Rau è un regista internazionale con una formazione in filologia e sociologia. Nel 2007 ha fondato la casa di produzione International Institute of Political Murder che, attraverso diversi linguaggi multimediali, si propone di indagare i conflitti sociopolitici della nostra storia recente. Il lavoro si è focalizzato su alcuni episodi cruciali: la caduta del regime di Ceauseascu in Romania, i massacri in Ruanda, la strage di Utoya, i processi contro l’avanguardia artistica nella Russia di Vladimir Putin e, nel 2018, la guerra contro lo Stato Islamico.

Combinando sperimentazione formale con un lavoro di documentazione solidamente fondato sul metodo storico, Milo Rau ha definito negli anni un preciso modus operandi, espressione di una prassi artistica che è anche prassi politica. Alcuni punti fondamentali: almeno due attori del cast devono essere non professionisti; devono essere usate almeno due lingue diverse; è vietato il puro adattamento di un testo classico: il testo preesistente può sopravvivere solo nel venti per cento della performance finale; almeno un quarto delle prove deve essere realizzato fuori da uno spazio teatrale e in una zona di crisi o di guerra; tutti i momenti del processo creativo e di costruzione della rappresentazione devono essere mostrati. Questo metodo risponde alla necessità di spostarsi rispetto alla tradizione di allestire testi scritti da un autore, tipica del teatro borghese, per andare verso una scrittura collettiva e specificamente teatrale, che sappia individuare le urgenze della nostra epoca e parlare concretamente alla società del ventunesimo secolo.

Mosul. Edifici distrutti all’entrata Nord del souq Bab-al-Sharay. Foto di Alessio Romenzi

L’Orestea è un monumento della tradizione occidentale. Unica trilogia tragica arrivata noi, è stata scritta da Eschilo nel 485 a.C. ed è composta dalle tre tragedie AgamennoneCoefore ed Eumenidi. Di cosa parla in breve: Agamennone, che aveva sacrificato la figlia Ifigenia per condurre l’esercito greco verso quella che sarà la Guerra di Troia, al ritorno da dieci anni di battaglia viene ucciso dalla moglie Clitennestra (che vuol vendicare la morte della figlia) con la complicità dell’amante Egisto (che voleva invece vendicare il padre Tieste). I due figli, Oreste ed Elettra, si sentono chiamati a vendicare il padre: Oreste uccide dunque sia la madre Clitennestra che Egisto. Nell’ultima tragedia, Eumenidi, Oreste è perseguitato dalle Erinni (demoni vendicatori) e cerca rifugio presso il tempio della dea Atena. Qui viene celebrato un processo che si conclude con l’assoluzione di Oreste per intercessione della dea: si spegne la rabbia delle Erinni che diventano spiriti benevoli, Eumenidi appunto. La vendetta si trasforma in giustizia, all’arbitrio individuale e alla legge del sangue chiama sangue si sostituiscono le norme della polis democraticamente governata.

Milo Rau sceglie di raccontare questo mito fondativo della civiltà di diritto in Iraq, a Mosul. All’inizio dello spettacolo l’attrice irachena Susana Abdulmajid riassume la storia di queste terre: Mosul, l’antica Ninive capitale dell’impero Assiro, sorge su uno dei luoghi più fertili e ricchi di petrolio al mondo. La lotta per il controllo di Mosul inizia nei primi decenni del Novecento quando si comincia a capire i vantaggi dello sfruttamento del petrolio e le potenze coloniali cercano di accaparrarsi un accesso più vantaggioso alle risorse. Nel 1918 è assegnata agli Inglesi, dal 1937 è parte dell’Iraq. Nel giugno del 2014 viene conquistata dalle milizie del gruppo Stato Islamico. Qui il terrorista Abu Bakr al-Baghdadi dichiara l’inizio del sedicente Califfato, che estendeva il suo potere tra l’Iraq nordoccidentale e la Siria orientale. Nel 2016 una coalizione guidata dal governo iracheno, con il sostegno dei combattenti curdi e degli Stati Uniti, lancia una campagna militare per liberare Mosul. L’assedio dura nove mesi, i resistenti dell’IS usano i civili come scudi umani, la coalizione bombarda a tappeto. Nel luglio 2017 Mosul è liberata ad un prezzo altissimo: la città è completamente distrutta, il numero delle vittime si stima tra 9.000 e 11.000, anche se è difficile avere dati ufficiali.

Sergey Ponomarev per The New York Times

Lo spettacolo è stato allestito a Mosul e ha coinvolto artisti europei e iracheni. Molte scene sono state filmate, sul palco gli artisti iracheni non ci sono, non è stato possibile far loro avere i visti per l’Europa. L’azione avviene quindi in due luoghi: sul palco del teatro e sullo schermo, dove vengono proiettate le scene girate a Mosul. In scena ci sono sette attori europei, due dei quali di origine irachena. Azione dal vivo e azione filmata si mescolano, moltiplicando i piani: gli attori in scena a volte dialogano con gli attori nel video, altre volte assistono alle scene girate a Mosul. Gli accadimenti del mito prendono vita tra le macerie, gli attori recitano sul tetto da dove venivano lanciati i cittadini omosessuali, Clitennestra compie la sua vendetta in un cortile circondato da edifici bombardati, i musicisti suonano sulla città che si mostra in video devastata.

Prima di essere interpreti di un personaggio gli attori sono testimoni: gli attori iracheni portano il loro vissuto di guerra, gli attori europei ci raccontano l’esperienza del luogo e di come si sono preparati al lavoro. Johan Leysen, che interpreta Agamennone, ha studiato decine e decine di registrazioni di esecuzioni. Ce le descrive, ci parla del fascino e del disgusto, dell’assurda indifferenza che ormai ci abita perché continuamente esposti a scene di violenza. Ci vogliono sei minuti per strangolare una persona. Quando guardiamo la ricostruzione ci troviamo ad essere anche noi guardoni dell’orrore, tra scandalo etico e morbosità. La finzione è esposta, niente magico come se, non ci viene chiesto di credere che ciò che accade in scena sia vero. La nostra attenzione va allora al nostro processo interno: cosa ci succede? cosa stiamo facendo? Si apre un dialogo dentro, si costruiscono domande sempre più grandi: perché tutto questo? Che senso ha? Capiamo che non basta più impressionarsi, scandalizzarsi. D’altronde oggi non è più possibile: la sensazione dura troppo poco, ogni immagine di violenza è spazzata via da un’altra immagine più forte, più intensa o solo più colorata. Questo spettacolo chiama a scoprire una diversa qualità di partecipazione, un’adesione critica, che sappia superare sia l’analisi realistica sia l’ingenuo pietismo.

L’attore Bert Luppes interpreta Egisto. Foto Fred Debrock

L’attrice che interpreta Atena si chiama Khitam Idress, suo marito è stato ucciso dai miliziani dell’IS. La scena del processo finale è girata tra le macerie dell’Istituto d’Arte di Mosul, i giudici rappresentanti del popolo sono studenti di recitazione. Nel video gli studenti discutono con rabbia e passione. “Il mio voto va alla pace – conclude Khitam/Atena – la catena della violenza deve finire. Le uccisioni devono terminare.” Sembra un voto di vita e di speranza. Ma la discussione continua. Cosa succede quando quel voto di perdono o condanna è su qualcosa di reale, quando chi giudica oggi era ieri la vittima?  Uno studente risponde: “Loro ci hanno condannati a morte, è giusto che noi facciamo lo stesso”. Usciamo dal mito: non si parla più di Oreste ma dei terroristi dell’IS. Quando arriva il momento di esprimere il proprio voto sul futuro di Mosul nessuna mano si alza in favore della pena di morte, nessuna mano si alza per perdonare.

Coefore, la seconda tragedia del ciclo, si conclude così:

E di nuovo / ci travolge il vento.. Ma è speranza /o disperazione? Dove si dirige?/ Dove si disperde,/ infine spento, il canto della Morte?

Per placare i demoni della vendetta, nella tragedia di Eschilo è intervenuto un dio.

Una donna cammina tra i negozi distrutti della città vecchia di Mosul. 2 febbraio 2019. REUTERS/Khalid al-Mousily/File Photo

Debutta in Prima mondiale il 17 aprile 2019 a Gent in Belgio. Con: Duraid Abbas Ghaieb; Susana AbdulMajid; Elsie de Brauw; Risto Kübar; Johan Leysen; Bert Luppes; Marijke Pinoy In video Attori: Baraa Ali, Khitam Idress, Khalid Rawi; Musicisti: Suleik Salim Al-Khabbaz, Saif Al-Taee, Firas Atraqchi, Nabeel Atraqchi, Zaidun Haitham, Rabee Nameer; Coro: Ahmed Abdul, Razzaq Hussein, Hatal Al-Hianey, Younis Anad Gabori, Mustafa Dargham, Abdallah Nawfal, Mohamed Saalim, Rayan Shihab Ahmed, Hassan Taha. Testo: Milo Rau & ensemble. Regia: Milo Rau Drammaturgia: Stefan Bläske

Visto il 23 settembre 2019 al Teatro Argentina di Roma. RomaEuropa Festival

Nasce a Venezia dove si laurea in antropologia. Si diploma attrice a Milano. Vive a Roma nel quartiere di TorPignattara. Non sapendo dipingere, si dedica senza successo all' arte del collage.

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