Non è l’attesa della Brexit essa stessa la Brexit?

a cura di Diego Begnozzi e Andrea Sciotto

La storia è nota: il 23 giugno 2016 il popolo del Regno Unito ha deciso con un referendum di uscire dall’Unione Europea. Un evento senza precedenti che ha generato confusione in particolare tra i politici britannici, apparsi incapaci di garantire una strong and stable leadership, per usare le parole dell’ex Primo Ministro Theresa May.

Very strong and very stable…

A meno di ulteriori proroghe, il 31 ottobre il Regno Unito dovrebbe lasciare l’UE. Cos’è successo in questi tre anni?

Un primo effetto notevole è stato la svalutazione della moneta britannica: se prima di Brexit una sterlina valeva circa 1,3 Euro, oggi ne vale 1,1.

Tasso di cambio Euro/Sterlina da gennaio 2016. Salta subito all’occhio la caduta in corrispondenza della data del referendum. Fonte: Bank Of England

La svalutazione non è un male o un bene in sé: bisogna chiedersi chi è svantaggiato e chi è avvantaggiato dal fatto che il cambio si abbassi.

Ad esempio, questa è una buona notizia per un europeo in vacanza a Londra: una porzione di fish and chips accompagnata da una pinta di birra (circa 10£ in tutto) gli costerà 11€ anziché 13. Viceversa, un cittadino britannico in vacanza in Francia o in Italia pagherà di più per mangiare: un aperitivo (dall’astronomico costo di 10€) prima costava ad un inglese 7,7£, ora costa 8,8£.

In generale, i prodotti britannici diventano più convenienti per i cittadini europei e i prodotti europei costano di più ai cittadini britannici. Non è questione da poco, visto che nel 2018 l’Unione Europea pesava per il 46% delle esportazioni e il 54% delle importazioni del Regno Unito[1].

Chi è a favore della svalutazione sostiene che essa fa crescere il valore delle esportazioni e diminuire quello delle importazioni: gli europei comprano più prodotti made in UK e gli inglesi acquistano meno beni made in EU, sostituendoli con prodotti locali. Col doppio effetto di migliorare la bilancia commerciale (la differenza fra export e import) e rilanciare la produzione nazionale. I classici due piccioni con una fava!

Purtroppo non è andata così: il valore dell’export verso l’UE è passato da 194 miliardi di dollari nel 2016 a 225 nel 2018 (+31 miliardi), ma quello dell’import – invece di diminuire – è aumentato da 331 a 360 miliardi (+29 miliardi). La bilancia commerciale non si è mossa.

Come mai? Bisogna chiedersi di che beni si parla: la Gran Bretagna esporta in Europa prodotti ad alta tecnologia, mentre importa soprattutto beni di consumo come cibo e carburante. Sostituire la produzione estera con quella nazionale può essere difficile o addirittura impossibile, come nel caso del petrolio vista l’insufficienza dei giacimenti britannici.

Nel frattempo, per il consumatore inglese spesa e benzina costano di più: dal 2016 l’inflazione ha ripreso a crescere, raggiungendo picchi superiori al 3% e toccando in particolare i beni di consumo.

Tasso di inflazione nel Regno Unito dal 2016. Fonte: Office for National Statistics

Paradossalmente, a pagare il maggior costo della Brexit è stata proprio quella classe medio-bassa che aveva chiesto l’uscita dall’Unione Europea, spinta in parte da motivi legittimi, come una maggiore autonomia politica, ma anche da promesse clamorosamente non mantenute (come il maggior finanziamento del Sistema Sanitario).

Il referendum ha spaccato in due il Paese: Scozia e Irlanda del Nord per il Remain, Inghilterra e Galles per il Leave. A Londra, tuttavia, il Remain ha ottenuto quasi il 60% delle preferenze.

Ora comunque il percorso dovrebbe essere vicino alla fine. Il condizionale è d’obbligo, dato che la scadenza è già slittata dal 29 marzo al 12 aprile e poi al 31 ottobre 2019. Può ancora succedere tutto e il contrario di tutto.

Theresa May ha dovuto dimettersi dopo tre anni di pesci in faccia: le elezioni con cui sperava di rafforzare la propria maggioranza hanno invece fatto perdere ben 13 seggi del Parlamento al suo partito e l’hanno costretta a un’improbabile alleanza con gli Unionisti Democratici dell’Irlanda del Nord.

Il 23 luglio 2019 l’ha sostituita Boris Johnson, tra i più agguerriti sostenitori della Brexit a qualunque costo. Da allora è successo di tutto: il 3 settembre Westminster ha approvato la mozione laburista che costringeva il governo a cercare un accordo con l’Ue. Il partito Conservatore ha prontamente espulso i propri membri che han votato la mozione, e il governo è rimasto senza maggioranza. Persino Jo Johnson, Ministro dell’Istruzione e fratello di Boris, si è dimesso.

In risposta, il premier ha provato a sospendere i lavori del Parlamento sfruttando un regolamento di origine medioevale, ma la Corte Suprema ha dichiarato illegittimo il provvedimento. Il 2 ottobre ha presentato una nuova proposta a Bruxelles, giudicata irricevibile da molti. Una classica mossa per far saltare il banco dando la colpa alla controparte.

Cos’altro può succedere?

I temi ancora aperti sono tre: il confine tra Repubblica d’Irlanda (Stato membro dell’Ue) e Irlanda del Nord (regione del Regno Unito); la libertà di movimento delle persone; gli accordi commerciali. Sul primo punto si sono più volte arenate le trattative. Sul secondo, il governo Britannico ha più volte assicurato tutela ai cittadini europei in UK. Sul terzo punto c’è invece molta incertezza: senza un accordo, il commercio fra Unione Europea e Regno Unito diventerebbe soggetto alle regole dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), con un aumento dei dazi che peggiorerebbe ulteriormente le condizioni dei consumatori britannici.


[1] Fonte: UNCTADStat.

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