Non è stata la mano di Sorrentino

È stata la mano di Dio” è il meno sorrentiniano dei film del regista, ma inevitabilmente quello più vero. Per raccontare la propria tragedia personale Paolo Sorrentino sceglie l’unica via possibile: dirigere come uomo lasciando il sé regista fuori dal film.

Stessa sorte spetta alla sceneggiatura, il suo storico co-sceneggiatore Umberto Contarello non poteva prendere parte alla scrittura di un film cosi intimo. Questa pellicola doveva essere tutta sua e cosi è stato. La tecnica, l’estetica, la cifra che hanno reso Paolo Sorrentino chi è oggi, questa volta erano di troppo. Pochissime musiche, quasi nessun manierismo stilistico dei suoi. Primo e probabilmente unico film girato dal Sorrentino uomo e non dall’artista, dove regna incontrastata la narrativa come è giusto che sia.

Napoli, anni ‘80. Cominciamo dal protagonista: Fabietto Schisa (non Fabio) interpretato da Filippo Scotti (premio Marcello Mastroianni come miglior attore emergente al Festival del Cinema di Venezia 2021). Prima scelta vincente. La somiglianza è tale che lo spettatore non fa nessuna fatica ad immaginarsi il vero Sorrentino adolescente. Per favorire tale somiglianza, risulta evidente che il regista abbia chiesto al giovane attore di assumere una costante espressione rintontita, la sua per intenderci. Tale espressione, per buona parte del film, si modifica soltanto per periodi molto brevi davanti ai soli due stimoli eccitanti della sua vita: zia Patrizia e, ca va sans dire, la prospettiva di Maradona al Napoli.

Fabietto, coerentemente con l’ostentata e forse furbesca autosvalutazione che Sorrentino propone ogni qualvolta sia costretto a parlare di sé, è un ragazzo estremamente mediocre. Sorrentino gli (si) toglie ogni peculiarità, ogni vezzo, ogni cifra. Nessuna dote spiccata o talento in particolare. Fabietto parla pochissimo, abbinando ai vestiti più banalmente anni ‘80 che ci si possa immaginare soltanto quella faccia da pesce lesso e le cuffiette dello walkman. Tuttavia lo spettatore non arriva mai a conoscere quale musica stia effettivamente ascoltando il giovane. I Talking Heads come ci si aspetterebbe? Non ci è dato saperlo. Fabietto non parla è vero, però osserva tanto, quasi da diventare invadente e da peggiorare la faccia da tonto quando è particolarmente attento. Lo stesso Sorrentino non ha mai negato di avere questa abitudine, se non vizio, dopotutto.

Poi incontriamo la famiglia di Fabietto: zia Patrizia (Luisa Ranieri) è il primo personaggio con cui facciamo conoscenza: una bellezza credibile, reale, terrena, non esasperata come solitamente propone la cinematografia. Marchino (Marlon Joubert), il primogenito degli Schisa, e soprattutto suo fratello Fabietto sono molto attratti da lei. La signora “Montalbano” viene chiamata ad emergere in un quadretto di famiglia dove, la bruttezza fisica è il marchio di fabbrica.

Lungi da me, da Sorrentino e da tutti la svalutazione dell’attualissimo tema del “body shaming”, ma il regista non dimentica neanche un difetto fisico o una manifestazione di bruttezza plastica da appioppare ai propri parenti. Questo però non vale per la sua famiglia in senso stretto. Non si può infatti dire che Maria e Saverio Schisa (Teresa Saponangelo e Toni Servillo), come appunto il fratello Marchino e la sorella Daniela (Rossella Di Lucca) siano di brutto aspetto, né nella resa né tanto meno per natura. Sono normali ed è una scelta. La normalità è la chiave estetica che caratterizza l’intera pellicola.

Interessante è anche costatare che, se per i suoi genitori il regista ha scelto degli pseudonimi, i nomi propri dei fratelli sono rimasti corrispondenti a quelli reali. Tornando quindi ai parenti, citazione speciale va alla “consuocera dello zio”, la signora Gentile, nome appositamente scelto per sottolineare il contrasto con il suo essere “la donna più cattiva di Napoli”. Ovviamente nel film, più che mai improntato sul primo dei due sentimenti dominanti nella poetica Sorrentiniana ossia la malinconia, non poteva comunque mancare anche l’altra sua spiccata indole, l’ironia.

Quando si tratta di raccontare la sua famiglia, scopriamo un Sorrentino inaspettatamente coraggioso. Infatti dopo numerosi episodi quotidiani improntati alla tenerezza e, ancora una volta, all’ironia, il regista non ha paura di mostrare gli aspetti più miserabili messi in scena in casa sua, anche se in questo momento non ci è – o perlomeno non mi è – dato sapere quanta e quale sia la corrispondenza con la realtà: la bella zia Patrizia, presunta malata psichiatrica, incontra un millantato San Gennaro (Enzo Decaro) insieme a “’o munaciello” ricevendo cosi il miracolo di una gravidanza dal marito. Avvenimento, all’interno della narrazione, forse vero, forse falso, forse una manifestazione psicopatologica. La donna in risposta subisce la violenza fisica e verbale del marito, Franco (Massimiliano Gallo).

Ancor più intimo è il tema della relazione extraconiugale, esistente da anni, del padre Saverio con una collega da cui nel finale si scopre abbia anche avuto un figlio, uno dei tanti passaggi che segnano il passaggio da Fabietto a Fabio, dal ragazzo all’uomo. Qui si apre quindi l’intensa scena dell’isteria materna, che si estende poi anche a Fabietto, il quale fa proprie le crisi della madre, parzialmente arginate dal tentativo del fratello Marchino di mantenere la tranquillità in famiglia e di sventare la catastrofe.

All’apice della teatralità del momento, in cui il regista non ha paura di rivelare quelli che, nelle case, sono solitamente vissuti come dei segreti che nessuno si sognerebbe mai di far trapelare al difuori delle mura domestiche, figuriamoci di metterli in vetrina mondiale con un film, arriva il primo miracolo: suona il telefono, è un collega di Saverio dalla banca che è rimasto al lavoro fino a tarda notte per preparare le fideiussioni. Le voci che circolavano da giorni, dividendo ancora una volta religiosamente i napoletani tra scettici e fedeli (la sua stessa parentela si frammentava cosi) sono finalmente confermate: Maradona è stato comprato dal Napoli. Nell’appartamento degli Schisa l’isteria lascia il posto all’euforia, Maradona ha fatto il primo miracolo.

Nel sospetto che fosse proprio lui, nei giorni precedenti Marchino e Fabietto si erano casualmente trovati attoniti, insieme a tutti i passanti sul posto, ad osservare un possibile Maradona fermo nel traffico alla guida di un’auto modestissima, abitudine reale che serviva a Diego per contenere l’assalto dei tifosi quando se ne girava per la città. L’importanza del possibile arrivo di Maradona per Fabietto era inoltre stata ben quantificata poche scene prima, quando alla precisa domanda del fratello aveva risposto di preferire Maradona al Napoli rispetto alla zia Patrizia.

Tuttavia il culto di D10S, come in ogni credo religioso, non risparmia ai fedeli sofferenza e rinuncia. Ed è cosi che, a Roccaraso nella loro nuova casa in montagna, fedelmente alla realtà degli avvenimenti, i coniugi Schisa perdono la vita a causa di un’intossicazione da monossido di carbonio. Struggente è la scena in cui i due si addormentano sul divano, proprio perché ogni spettatore sa già che i due non si risveglieranno. La mancanza di colpo di scena, essendo storia molto nota, ne potenzia paradossalmente la resa in termini di angoscia e di tristezza.

Inizia cosi la seconda parte del film, quella in cui Fabietto è costretto a diventare Fabio prima del tempo. L’espressione da tonto scompare per sempre per lasciare posto ad un nuovo volto segnato in parte dalla collera, in parte dal dolore, che s’incollerà alla recitazione del bravo Filippo Scotti fino al termine della pellicola.

Altamente simbolico è il luogo in cui Fabio passa il suo tempo libero, da solo o con Mario (Lino Musella), il bizzarro vicino: altalene per bambini. Si trova proprio lì quando il fratello lo raggiunge di fretta per recarsi a Roccaraso ad avere la conferma della tragedia. è la vita che lo strappa dall’ultimo simbolo di attaccamento all’infanzia. Fabietto poco prima, dialogando con il padre, probabilmente per alimentare la centralità della famiglia nella narrazione, afferma di non avere amici. In questo caso la differenza con il vero percorso di vita di Sorrentino è significativa, tanto che in passato il regista aveva dichiarato proprio di aver passato gran parte dell’infanzia e dell’adolescenza con altri ragazzi su una panchina cercando ogni occasione per ridere.

Tornando al lutto, nel momento della tumulazione delle bare, lo zio Alfredo (Renato Carpentieri) tifosissimo del Napoli, che aveva già minacciato Fabietto “se Maradona non arriva al Napoli mi uccido”, nell’apprendere che il ragazzo non era andato a Roccaraso con i genitori proprio per poter seguire il Napoli in trasferta per la prima volta, chiama ancora al miracolo. Diego Armando Maradona gli ha salvato la vita. Non solo, il gol de “la mano di Dio” è il riscatto del popolo argentino vessato dalla prepotenza inglese, insinuerà più avanti sempre Alfredo di fronte alla leggendaria rete. Ormai i miracoli si sprecano.

Nel frattempo la maturazione di Fabietto avanza sempre più rapidamente: suo fratello che sognava il cinema, di fronte ai calci di punizione di Maradona, goduti di persona durante una seduta di allenamento della squadra partenopea, confessa a Fabietto di voler rinunciare proprio perché gli manca ciò che permette al “Pibe de oro” di segnare tutti quei calci piazzati sotto i loro occhi: la perseveranza. Investe quindi proprio il fratellino di mantenere tale virtù per tutta la famiglia.

Piccola parentesi, il sogno del cinema di Marchino, è anche un omaggio a Fellini, notoriamente altro idolo del regista. Durante i casting per comparse nel film a cui il riminese stava lavorando, Marchino viene scartato e Fabietto, che lo aveva accompagnato, in una sala d’aspetto quanto mai felliniana tra nani e ballerine, ha l’occasione da una porta socchiusa di ascoltare la voce e di intravedere il cineasta.

Altro momento di crescita per Fabietto si consuma a casa della baronessa Focale (Betti Pedrazzi), inquilina del piano di sopra della famiglia Schisa. Fabietto vi si concede (seguendo l’indicazione paterna di non essere troppo pretenzioso la prima volta). Lei inoltre lo invita ad immaginare la donna che gli piace al suo posto e a chiamarla proprio con quel nome (Patrizia, ovviamente), sempre coerentemente con la battuta cardine del film “la realtà è scadente”. Al termine la baronessa chiarisce che tale episodio non si ripeterà, che è servito solamente per sbloccarlo e a permettergli di ricominciare a guardare il futuro, prospettiva che il lutto gli aveva strappato. Fabietto in quella circostanza viene anche iniziato alle sigarette, dettaglio che non sfuggirà al fratello che, insieme ad una nuova attitudine non verbale del protagonista, capirà ciò che è accaduto. Il protagonista è quindi sempre più un giovane che soffre di libertà, che nel lutto non è un valore ma un tormento, e il film lo rende perfettamente.

Nel suo percorso di crescita forzata Fabietto, che in precedenza alla madre aveva risposto di voler studiare filosofia dopo il liceo (classico, più volte ribadito), confessa alla zia Patrizia, ora internata in una struttura psichiatrica, di volersi dedicare alla regia di film. Non Fabietto ma Fabio ha deciso di fare il regista.

C’è poi un nuovo incontro che segna Fabietto: Armando, il contrabbandiere di sigarette (Biagio Manna). Il nome, l’aspetto fisico, la fascetta di Maradona in testa quando Diego è ancora a Barcellona, l’atteggiamento di assoluta libertà anche al di sopra delle leggi e infine la carcerazione. Il sospetto è ingombrante, che rappresenti come Sorrentino immaginasse all’epoca un’amicizia con Maradona?

Fabietto viene quindi trascinato da Armando in numerose peripezie, in un rapidissimo susseguirsi di simpatica incoscienza. Con Armando torna l’irresistibile tentazione Felliniana per il regista: in una Capri oniricamente notturna e deserta, seduti ad un tavolino di un caffè chiuso, i due amici vedono passare “l’uomo più ricco del mondo” accompagnato da una più che appariscente diva di cui Fabietto pero non ricorda il nome.

Nella pellicola sembra esserci pero un grande assente, l’altro mito di Sorrentino, Martin Scorsese. Forziamo un po’ la mano e diciamo che la reazione impulsiva e violenta che Armando ha poche scene prima nei confronti di un turista americano ricorda un po’ quelle di Joe Pesci in “Toro Scatenato”, “Quei bravi ragazzi” e “Casino” (ognuno scelga quella che preferisce), cosi ci sentiamo tutti più leggeri.

Fabietto non vuole tentare di trovare la felicità nelle piccole cose quotidiane, come invece intende fare suo fratello, ben spiegato nel dialogo che hanno durante la vacanza a Stromboli. Lui non può e non vuole superare il lutto, non accetta il futuro e la realtà.

Ora pero Fabietto è quasi pronto, manca solo che entri definitivamente il cinema nella sua vita a ridargli una prospettiva di futuro. E ovviamente questo sta per accadere. Arriva infatti l’incontro tumultuoso ma tanto desiderato con il regista Antonio Capuano (Ciro Capano), quello che poi diventerà il suo maestro. In questo caso al regista non servono pseudonimi. E allora via un’altra fuga notturna, se non proprio un inseguimento, tutto Felliniano come non mai. Simile, ma in accezione positiva, alla scena tra Leopoldo e Sergio Natali ne “i vitelloni”. Qui il dialogo è provocatorio e al contempo intriso di rabbia e sofferenza da parte di entrambi.

Da “senza conflitto è solo sesso, e il sesso non serve a niente” a “tu non hai un dolore, tu hai soltanto una scusa” e poi “non ti hanno lasciato solo, ti hanno abbandonato “ e “non ti disunire” e “la realtà è scadente” e “’a tieni qualcosa ‘a ricere? ‘a tieni qualcosa da raccuntà? E dimmélla”, infine l’invito a non andare a Roma e ad evolversi da Fabietto a Fabio, prima di tuffarsi in mare in una progressione strepitosa di emozioni e intensità. Un vero capolavoro di sceneggiatura e di resa narrativa, che le mie citazioni testuali forse impoveriscono un po’.

Cosi si giunge verso l’epilogo: Maradona porta lo scudetto a Napoli, ma Fabietto, anzi Fabio, spegne il televisore, non partecipa ai cortei, ormai ha, con buona pace di Capuano, deciso di partire per Roma (in realtà prima di tentare la via del cinema il regista studierà economia per qualche anno). L’ultimo miracolo di Diego, tramite la vittoria dello scudetto, è quello di far uscire dal bagno un’ancora piangente Daniela Schisa, sorella di Fabietto, fino a quel momento sempre richiusa, udita ma mai inquadrata.

Quindi parte e dal treno, momentaneamente fermo in stazione, sente il fischio che si scambiavano teneramente i suoi genitori e vede davanti ai binari “’o munaciello”, simbolo ben augurante come ad inizio film per la gravidanza di sua zia, a ribadire che il viaggio verso Roma, ergo verso il cinema, avrà fortuna. Lo sguardo, adulto e diversissimo da quello di inizio film si perde verso il paesaggio e finalmente il pubblico può godere di una canzone riprodotta dallo walkman di Fabio, non più un’esclusiva delle sue cuffiette: “Napule è” di Pino Daniele, che accompagna i titoli di coda dopo l’ultima inquadratura del volto nuovo di Fabio Schisa. È iniziato il viaggio verso “l’uomo in più”.

Ambivo a fare il principe, la vita mi ha costretto a ripiegare sulla medicina. Scrivo male, in tutti i sensi.

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