Propaganda in bicicletta

Il ruolo propagandistico del calcio nell’Italia fascista e nella Spagna franchista è stato straordinario, come testimoniano i successi degli Azzurri negli anni ’30 o del grande Real Madrid delle cinque Coppe dei Campioni consecutivi negli anni ’50. I paesi guidati da Benito Mussolini e da Francisco Franco già all’epoca organizzavano due delle grandi corse a tappe del ciclismo internazionale: il Giro d’Italia e la Vuelta a España. Ma per entrambi i regimi il ciclismo e la bicicletta rappresentano uno strumento di propaganda malriuscita.

L’autunno del 1935 è un periodo spartiacque nella storia coloniale d’Italia. Il 3 ottobre, infatti, comincia ufficialmente la Campagna d’Etiopia, tornata tristemente d’attualità anche quest’anno. Si trattò di un conflitto volutamente simbolico, con il quale Benito Mussolini, oltre a porsi l’obiettivo a lungo di termine di orientare l’emigrazione verso una colonia popolata da italiani e amministrata in regime d’apartheid, utilizzò una grossa quantità di mezzi propagandistici utili a rafforzare il regime, sia internamente, sia sullo scacchiere internazionale. Di lì a poco, infatti, l’intero continente europeo sarebbe entrato in guerra ed al blocco dei regimi totalitari si opposero le democrazie occidentali.

A metà degli anni ’30, in Europa, esisteva un paese fieramente repubblicano che esibiva orgogliosamente la propria bandiera, colorata di rosso, giallo e morato. La Spagna si diede tale ordinamento legislativo nel 1931, in seguito alla cacciata di re Alfonso XIII. Le ultime elezioni democratiche si svolsero nel 1936. Vinse il Frente Popular, ma subito si iniziò a farsi strada l’ipotesi di un golpe dell’esercito, inizialmente previsto per il 25 de julio, giorno di Santiago, santo patrono del País. Nell’estate del ’36 cominciò il triennio più drammatico della storia di Spagna, con il quale la nazione iberica sarà costretta a fare i conti ripetutamente, dall’epoca immediatamente successiva fino ad oggi. E pensare che solamente l’anno prima l’ex ciclista Clemente Lopez Doriga, in collaborazione con Juan Pujol, direttore del quotidiano Informaciones, organizzò la prima edizione della Vuelta a España, corsa ciclistica nata sulla falsariga delle gemelle francesi e italiane. La primera Vuelta consistette in un’edizione da 14 frazioni per un totale di 3431 km. La tappa inaugurale fu la Madrid – Valladolid, percorso inverso del carrozzone di rey Felipe II, che nel XVI secolo ebbe la brillante idea di trasferire la capitale del regno da (per l’appunto) Valladolid, a una minuscola città localizzata nell’esatto centro della penisola iberica.

La bandiera della Seconda Repubblica Spagnola. – © Wikimedia Commons / SanchoPanzaXXI

L’anno successivo si riuscì a svolgere la seconda edizione della Vuelta (per la fredda cronaca: rivinse il belga Gustaff Deloor sul rivale Mariano Cañardo), poi, ovviamente, arrivò la sospensione. Nell’estate del 1939, a tre anni di distanza, la guerra civil terminò con la sconfitta dell’esercito repubblicano ormai allo sbando. Esercito talmente malmesso che, negli ultimi giorni di combattimento, si fece scappare Rafael Sanchez Mazas, poeta e scrittore, principale ideologo della Falange, creatore del motto Arriba España! e del testo di Cara al sol. La mancata fucilazione dell’intellettuale nazionalista, e la sua fuga attraverso i boschi e villaggi catalani, venne riscritta da un giornalista extremeño all’alba del ventunesimo secolo. Nel suo Soldados de Salamina, Javier Cercas riporta in auge una figura, quella di Sanchez Mazas, che, da qualunque parte si voglia guardare la storia, resta di fondamentale importanza per comprendere il debutto dell’ideologia franquista. Il poeta visse in Italia per sette anni, dal 1922 fino al 1929. Si sposò con la signora Liliana Ferlosio, dalla quale ebbe cinque figli, e conobbe l’avvento del fascismo e la sua propagazione sul suolo italico. All’epoca Sanchez Mazas era un giornalista per il quotidiano ABC e durante i suoi trascorsi in Italia raccontò e descrisse l’esperienza fascista con termini entusiastici. L’ideologo comprese fin da subito, e perfettamente, l’importanza e il potere delle propaganda.

Sanchez Mazas e Francisco Franco esaminano il progetto del complesso monumentale ‘Valle de los Caídos’.
© “El Valle de los Caídos: los secretos de la cripta franquista”, di Daniel Sueiro (1983)

Sullo sport, e più in generale sul ruolo della propaganda sportiva durante l’epoca fascista si è già scritto molto. Specialmente a livello calcistico, fascismo e franchismo hanno viaggiato sui medesimi binari, pur appartenendo a due epoche diametralmente opposte. Infatti non va scordato che l’inizio del franchismo in Spagna comincia quando l’esperienza fascista italiana ha raggiunto il suo culmine, da cui inizierà il rapido declino che terminerà con la fine del secondo conflitto mondiale. Probabilmente Benito Mussolini non utilizzò mai la frase “Vincere o morire” in vista dei campionati mondiali del 1938, organizzati nella democratica Francia. Eppure in quel quadriennio la nazionale italiana di calcio conquistò due Campionati del Mondo e un’Olimpiade (nel 1936, a casa degli amici tedeschi), abilmente sfruttati dalla macchina propagandistica del regime. In Spagna avvenne qualcosa di molto simile circa vent’anni dopo. Il grande Real Madrid di Santiago Bernabeu conquistò cinque Coppe dei Campioni consecutive: in tribuna il sorriso sornione di Francisco Franco osservava la più grande squadra spagnola razziare l’Europa continentale tra il 1956 e il 1960. Quel medesimo sorriso che il Caudillo di Spagna esibì nel 1964, quando la “suaRoja conquistò la seconda edizione degli Europei di calcio, sconfiggendo in finale l’ideologia nemica dell’URSS.

E per quanto riguarda gli altri sport? In particolare il ciclismo? Qui la questione si fa decisamente più complessa. Un caso italiano emblematico, infatti, avvenne proprio nel 1938. È l’annata in cui la nazionale di calcio sbanca Parigi e (ri)conquista la seconda Coppa Rimet delle sua storia. Il percorso per arrivare all’ombra della Tour Eiffel è tortuoso e i pericoli maggiori si incontrano allo stadio di Marsiglia, che già all’epoca era il meraviglioso Vélodrome. Sotto gli occhi di Notre-Dame-de-la-Garde il nostro saluto romano viene subissato di fischi dai tifosi francesi, che tifano dichiaratamente gli avversari norvegesi durante la partita inaugurale. Ai quarti di finale, il volume di fischi e il mourinhano rumore dei nemici è ancora più forte poiché giochiamo, letteralmente, in trasferta. La nostra nazionale sbaraglia i padroni di casa vincendo 3-1, mentre in semifinale un leggendario rigore di Meazza elimina il Brasile e spiana la strada verso Parigi, la finale e la Coppa.

Durante quell’estate (l’ultima prima del conflitto mondiale) un altro avvenimento sportivo tiene gli italiani sulle spine. Infatti al Tour de France del 1938 partecipano i migliori ciclisti nostrani, probabilmente spinti oltralpe dal regime. L’Italia che vince, infatti, non deve essere solamente quella autarchica del Giro d’Italia, ma anche e soprattutto quella che può e riesce a farlo a casa del nemico democratico. In particolare in quel 1938 Gino Bartali deve partecipare al Tour de France e, ovviamente, vincerlo. D’altronde Ginettaccio aveva un conto aperto con le strade francesi dall’anno precedente, quando una caduta nel torrente di Colau gli impedì di portare la maglia gialla fino a Parigi, impresa che, invece, gli riesce perfettamente nel giugno del 1938. Forse, sotto sotto, i francesi sono comunque incazzati, ma tributano a quell’italiano in gita un’ovazione memorabile. Eppure Gino, sul podio degli Champs-Élysées ringrazia la Madonna per avergli permesso di arrivare intatto a Parigi. D’altronde stiamo parlando di un corridore che amava gareggiare con il distintivo dell’Azione cattolica e non con la cimice delle camicie nere. Nessun riferimento alla madrepatria e questa notizia trapelata a Roma non fa felice nessuno, specialmente Achille Starace, segretario del Partito Fascista, che impone ai giornali italiani di non tributare nessun omaggio al vincitore del Tour, ma di limitarsi a un routinario bollettino sportivo.

Gino Bartali, mai allineato. – © Flickr / Gazzetta del Popolo

Si può senz’altro affermare che l’amore del fascismo per la bicicletta non sia mai sbocciato. Mussolini amava farsi raffigurare a cavallo, sugli sci, in auto e in moto. Mai e poi mai in bicicletta. Tale mezzo di trasporto apparteneva a un’Italia antica, rustica, popolare, povera e stracciona, per nulla proiettata nel futuro. Il calcio è sport di squadra, corale, in cui vige il rispetto dei ruoli e una precisa gerarchia. Il ciclismo, invece, no. È una sfida individuale tra l’uomo e la natura. Il ciclista vittorioso scende dalla sua bicicletta sfinito e la sua immagine è la perfetta raffigurazione del dolore, della fatica e della sofferenza, distante anni luce dai lineamenti perfetti del corpo di qualsiasi altro sportivo. Si racconta che, durante il ventennio, nei telegrammi provenienti dal Viminale si chiedeva di stare attenti al passaggio dei corridori: le questure erano allertate, in quanto l’enorme sollevazione popolare per ammirare i campioni dell’epoca (Learco Guerra, Costante Girardengo, Alfredo Binda) non piaceva al regime poiché, fondamentalmente, non si poteva controllare.

Al di là dei già citati esempi calcistici (il grande Real degli anni ’50 e la nazionale del ’64) il rapporto tra il franchismo e lo sport spagnolo è stato parecchio ambiguo. La stessa Vuelta a España, che avrebbe dovuto fin dall’inizio rappresentare un’alternativa credibile al Giro e al Tour, ebbe un inizio complesso. La guerra civil bloccò già la terza edizione che avrebbe dovuto avere luogo nel 1937. Nel post- guerra civile, mentre nell’intero continente europeo si continuava a combattere, la ripresa delle attività ciclistiche fu molto incostante. Negli anni ’40 la Vuelta si riuscì a disputare raramente e divenne presto una corsa quasi esclusivamente a partecipazione autoctona, con i ciclisti spagnoli che riuscirono ad arricchire il proprio palmarès, di per sé abbastanza povero. Si può affermare che Franco a sua disposizione non aveva un Bottecchia, un Guerra o un Gino Bartali, ma un manipolo di mestieranti incapaci di rendersi protagonisti oltre i Pirenei.

La pagina centrale del giornale “Informaciones”, con la lista della Primera Vuelta (1935). – © Wikimedia Commons / Museu de Joguet de Verdú

Per questo negli anni ’50 divenne fondamentale quel grande Real Madrid, comunque sia impreziosito da gemme straniere, alcune convertite al Regno di Spagna (Di Stefano, 31 presenze con la Roja), altre meno (Puskas, che scappò da una Budapest lacerata in direzione di Madrid). Nonostante le premesse iniziali lo sport spagnolo sotto il franchismo risultò parecchio deludente, confinando la penisola iberica a un ruolo marginale all’interno del vecchio continente. Gli stessi Giochi Olimpici sotto il franchismo furono sempre e costantemente avari di medaglie, addirittura dai Giochi – ribattezzati dell’austerità – di Londra ’48 (causa guerra civil la Spagna non andò a Berlino nel ’36) fino a Montreal ’76 l’inno spagnolo (all’epoca esistevano le parole) non suonò mai durante una cerimonia di premiazione.

Forse è proprio per questo che, alla vigilia della partenza della spedizione spagnola per Londra ’48, il generale con deleghe allo sport José Moscardó fece un certo tipo di discorso, teoricamente altisonante, agli atleti. In sintesi chiese loro di riuscire a far brillare, anche in terra straniera, le qualità razziali tipiche del pueblo spagnolo, quali il coraggio, l’entusiasmo e l’energia. Eppure, nonostante ciò, il delegato di Franco era pienamente consapevole che il livello dei migliori sportivi del paese non avrebbe potuto impensierire i migliori atleti del mondo. La colpa, però, a posteriori, è riscontrabile in un regime che, propaganda a parte, nulla ha fatto per incentivare lo sport iberico, che, dati alla mano, ha dovuto attendere la transición per recitare un ruolo di assoluto protagonista, tanto negli sport individuali quanto in quelli di squadra.

“E se non dovessimo vincere, non sarebbero una tragedia. Nello sport non conta molto la vittoria in sé, quanto piuttosto la maniera onorabile con la quale si è trionfato, poiché nello sport non vincere non è sinonimo di sconfitta.”

Strano ma vero, verrebbe da dire: a pronunciare questa frase è stato un generale del Caudillo Francisco Franco.

Giacomo Van Westerhout (1992) è laureato in filosofia. Attualmente vive a Parigi, non lontanissimo da Michel Houellebecq. Le cose della vita lo hanno portato a tifare FC Nantes e Real Betis Balompié

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