Rap, more than just word

Che strano questo 2020. Negli USA si ammazzano afroamericani come mosche; ci ha lasciato Kobe Bryant, un artista tra i più geniali e vincenti dell’NBA e dello sport intero; il Covid-19 ha mietuto, ad oggi, più di un milione di vittime; abbiamo i negazionisti, i complottisti e le persone hanno scoperto i testi Rap.

Una scoperta che arriva con un clamoroso ritardo, considerando che è un genere musicale nato negli anni ’70, ma che nella nostra penisola hanno considerato in 5 prima che diventasse mainstream.

Da quando il rap è diventato popolare, si è giustamente (e fortunatamente) ampliato il pubblico e di conseguenza l’insieme di questi sedicenti esperti musicali, creando una fetta di critici che non chiede altro che messaggi sociali e testi corretti. 

Ricordo che era il 2004, io avevo 17 anni e usciva Mr. Simpatia di Fabri Fibra, forse il disco che più di ogni altro mi ha segnato e fatto innamorare del Politically Incorrect. Un compagno di classe mi aveva masterizzato il disco. Non conoscevo ancora Uomini di Mare e mi ero perso Turbe Giovanili (che recuperai immediatamente dopo), quindi mi approcciavo al rapper marchigiano da neofita. Fu una folgorazione: in un testo si poteva scrivere ogni pensiero più oscuro, ogni frustrazione, vomitare tutto il rancore e la rabbia e farlo bene. Musicale. Stiloso.

Se gli dovessi accostare un corrispettivo americano, la mia scelta cadrebbe inevitabilmente su Eminem (cosa che hanno fatto anche alcuni critici) per stile e testi spesso violenti e misogini. Un rapper tra i più iconici, talentuosi e controversi del mondo, che ha scritto testi crudi, disturbantiSin dagli inizi della sua carriera, Eminem fu accusato di scrivere canzoni che inneggiavano alla violenza sulle donne. Che si parli di sua madre, di sua moglie, o delle donne in generale, sono tante le tracce incriminate: “Kill You”, “Kim”, ” ’97 Bonnie & Clyde”, ma la lista potrebbe essere molto più lunga.

E, se è vero che il rap più di ogni altro genere ha portato all’attenzione mondiale quelle che sono le difficoltà e il disagio dei singoli o di intere comunità, i testi in questione non possono non essere riferiti all’esperienza personale dell’autore.
8Mile, film che ha segnato una generazione, descrive molto bene il rapporto tra Eminem e la madre.
Un rapporto che non può che essere portato all’esasperazione nei testi di un genere che ha nell’esagerazione e nell’esasperazione il suo marchio di fabbrica.
                       
Parlando di Marshall e parlando di donne, non si può non menzionare questa traccia.

“Kill You”, canzone d’apertura dell’album “The Marshall Mathers LP” [anno 2000], con protagonista un Eminem iracondo:


“Shut up, slut, you’re causing too much chaos
Just bend over and take it like a slut, okay, Ma?
‘Oh, now he’s raping his own mother
Abusing a whore, snorting coke
And we gave him the Rolling Stone cover?”

“Sta zitta puttana, stai facendo troppo caos
piegati e prendilo come una puttana, okay ma?
“Oh, adesso sta stuprando sua madre, abusando di una puttana,
sniffando cocaina, e gli diamo la cover dei Rolling Stone?”

Nonostante questo, il ragazzo di St. Joseph si è portato a casa 6 Grammy Award per il miglior album Rap e la critica USA lo idolatra e lo considera una delle penne migliori del panorama musicale (non solo Rap).

Perché, forse, il punto focale di tutto il discorso è proprio questo: chi critica i testi – tra l’altro estrapolandoli dal contesto e prendendo ad esame solo quelli che fanno più comodo – non conosce il genere. Si è avvicinato al Rap quando questo ha iniziato ad arrivare in radio, poi in tv e infine nelle classifiche streaming mondiali. Ma questa roba esiste da prima di voi e da prima di me, da quando a New York nei primi anni Settanta nell’ambito dei “block party”, abili disk jockey sceglievano i dischi e i partecipanti si dedicavano alla breakdance, mentre i più creativi inventavano rime andando a tempo.

Queste feste crearono un’identità comune tra i giovani delle metropoli americane; i rapper divennero portavoce della loro voglia di rivalsa, con testi che denunciavano le difficili condizioni delle minoranze nere, dalla rabbia e la sete di riscatto.

La cultura hip hop nasce nel bronx di New York.
Storiograficamente, lo scenario in cui affonda le sue radici sono le feste nel palazzo dei fratelli Campbell (Cindy e Clive, quest’ultimo in arte Dj Kool Herc), che a partire dal 1973 diventano un punto di riferimento per gli immigrati afroamericani della zona.

Dj Kool Herc © Facebook

Il contesto sociale in cui la cultura si sviluppa è dominato dalla povertà, dal degrado e dalla criminalità: il fenomeno delle gang era all’apice e controllava ogni aspetto della quotidianità degli abitanti del bronx. In questo contesto di repressione, le feste organizzate da Dj Kool Herc diventano per i giovani un’opportunità per migliorare la propria vita, dando un senso al disordine causato da violenza, emarginazione, oppressione e povertà: l’hip hop nasce come un nuovo spazio culturale per esprimersi, manifestando la propria personalità e sognando riscatto sociale, libertà, progresso.

La scelta del linguaggio violento era il solo mezzo per l’affermazione sociale all’interno del gruppo di riferimento, per ottenere rispetto e per rispondere alle sfide. Proprio il rispetto, l’affermazione sociale e le sfide, sono elementi cardine della cultura hip hop originaria.

Ma non è solo questo. Il rap è anche un invito ad unirsi: “Vi spingiamo a mescolarvi” dicevano i Public Enemy in Self Destruction, l’unico singolo prodotto per la campagna di sensibilizzazione Stop the Violence Movement creata da KRS-ONE, una delle figure storiche dell’Hip-Hop americano nel 1989 e che vide la partecipazione di numerosi artisti come Public Enemy, MC-Lite e Kool Moe Dee solo per citarne alcuni. Questa volta invece di una canzone, Krs-One registrerà una serie di appelli in cui i giovani verranno esortati a mettere da parte la violenza ed arginare la lunga scia di sangue che macchia sempre più le strade americane.

Il primo “Stop The Violence” fu organizzato come risposta ai testi e agli atteggiamenti sempre più violenti di una parte della musica rap di allora che di li a poco sarebbe sfociata nel “Gangsta-Rap”. L’artista maturò la decisione di organizzare qualcosa di concreto a seguito di una serie di incidenti che culminarono nell’uccisione di DJ Scott La Rock, suo partner storico, nel lontano 1987.

In questo clima bruciante, esplicito e di impatto che era il rap americano di fine anni ’80, anche David Foster Wallace e Mark Costello scrissero un saggio a due mani dal titolo: “Il Rap spiegato ai bianchi“.

Ne esce la storia di un’amicizia nata all’universitàcondividendo letture, serate in vari locali e due mixtape di rap con un sottofondo quasi malinconico ma comunque molto stimolante. I due giovani cercano di afferrare quel bruciante “panta rei” vibrante, contraddittorio, esplicito che era il rap americano nell’89. Ne emerge un mondo, un linguaggio, con le sue figure, i suoi stilemi e i suoi lati elettrizzanti, sensuali, complessi, e controversi, semplicemente diversi dell’esperienza a cui questi due ragazzi bianchi erano abituati. Insomma, un vero e proprio «terremoto culturale»

Mark Costello e David Foster Wallace negli anni del College © ThreeFaces

Il rap è quindi anche una finestra, spesso il cui vetro è «difettoso e pieno di bolle». Molte volte quando ascoltiamo una canzone rap con poca attenzione e spirito critico, notiamo solo quello che è immediato e diretto. Occorre fare un passo in più: decidere di abbandonare il punto di vista bianco, borghese e privilegiato da cui osserviamo il mondo e decidere di incontrare chi vive al di là di quella finestra, per dare voce ad una comunità oppressa, ridotta ad oggetto per secoli, con la schiavitù e il colonialismo: gli afroamericani.

Oggi è il 2020, di candeline ne ho spente (quasi) 33, come Cristo e Lexi Belle e il 18 settembre usciva il disco “17” di Emis Killa e Jake La Furia. Un Joint Album, il loro primo insieme, che ha attirato l’attenzione di tutti – media e fan – creando due schieramenti: da una parte quelli che stanno urlando al miracolo e alla rinascita del rap italiano definendolo il disco un capolavoro; dall’altro chi si aspettava di più dai due artisti Milanesi, in termini di barre, contenuti e suoni.

© Billboard

Tra i tanti che hanno voluto lasciare la propria testimonianza, Margherita Vicario, cantautrice e attrice che ha criticato il testo di Sparami, di Emis Killa e Jake La Furia, con Salmo e Fabri Fibra, definendolo anacronistico e misogino in una storia Instagram. Per tutta risposta, alcuni fan decerebrati di Emis Killa l’hanno riempita di insulti sessisti.

Quello di Emis Killa e Margerita Vicario non è neppure il primo caso. Lo stesso succedeva due anni prima all’Indiegeno Fest tenutosi a Patti Marina (ME). In apertura al rapper Gemitaiz, l’artista CRLN si è vista attaccata da parte del pubblico con cori beceri e fuori luogo.

E qui si passa al punto più spinoso e dibattuto: la responsabilità dell’ignoranza dei fan è da attribuire ai fan stessi, alla famiglia o al messaggio che invia l’artista nei suoi dischi? Perché secondo me sarebbe arrivata anche l’ora di prendersi le proprie responsabilità.

Il problema del sessismo in Italia e nel mondo esiste, è grave e va – fa strano ripeterlo ancora nel 2020 – combattuto partendo dall’educazione non dalla musica e soprattutto non dalla musica Rap, che come il Punk è (era?) una subcultura e non deve fare felice nessuno. Anzi.

Ogni giorno in Italia 88 donne sono vittime di atti di violenza, una ogni 15 minuti. Più di 90 i femminicidi nel 2019. È questo il dato che lascia riflettere e che al contempo fa paura. Pur evidenziando un calo rispetto al 2017, la mappa tracciata sull’intero territorio nazionale preoccupa l’opinione pubblica e non meno il mondo della politica che annuncia misure precise per arginare questo triste fenomeno sempre più dilagante tra le mura domestiche. Restando sul fronte delle cifre, elaborate sulla base dei dati forniti dalla polizia per la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, celebrata domenica 25 novembre, in calo risultano anche i cosiddetti reati-spia: maltrattamenti in famiglia, stalking, percosse, violenze sessuali. E, parallelamente, aumentano denunce e arresti per violenza sessuale (+5,4%), stalking (+4,4%) e maltrattamenti in famiglia (+11,7%). 

Dunque non si confonda causa con effetto. La misoginia è, purtroppo, spesso un tumore che attecchisce sin dalla preadolescenza e già tra le mura di casa. Poco importa con quale codice si scelga di farla uscire allo scoperto, divenuti adulti. Non è dunque con processi rieducativi su larga scala che la si può estirpare dal legame sociale, quanto con l’educazione e l’istruzione delle giovani e giovanissime generazioni.

Inutile provare a riscriverne le regole. Inutile chiedere ad un genere che da sempre vive esasperando ogni singola frase, giocando a dar fastidio, a far la rima più potente, ad essere il più dissacrante possibile, a rompere gli schemi di edulcorarsi e snaturarsi, di pesare le parole e, soprattutto, affidargli il compito di educare i ragazzi e le future generazioni.
Se davvero vi interessa cogliere il messaggio, un messaggio che spesso si nasconde tra le rime crude dei testi, occorre scrollarsi di dosso pregiudizi e sovrastrutture; solo così è possibile aprirsi a un mondo contraddittorio e meraviglioso: il mondo del rap.

Milanese, classe 1987, come il pallone d'oro di Gullit, il lancio della Soyuz TM-2 e Yo! Bum Rush the Snow dei Public Enemy. In fissa con le Ipa, il rap, i film di Tarantino e altre 3/4 cose. Scrivo per sfogo, per mettere ordine. Sono i miei esercizi di stile

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