Sola al mio matrimonio. Un’intervista a Marta Bergman

Lo sguardo maschile, lo sguardo femminile

Per quasi un secolo il cinema “dominante”, occidentale, ha veicolato un’idea del mondo maschile: lo sguardo degli uomini rivolto agli uomini (e non per questo però le donne vi aderivano come delle marionette, anzi tutt’altro). Il cinema europeo d’autore cominciò a muoversi poi in altra direzione, passo dopo passo. Oggi tutto sembra rimescolarsi, così che è possibile leggere il cinema anche come il veicolo per uno sguardo femminile sul proprio mondo, e non solo. È questa la direzione in cui procede Sola al mio matrimonio di Marta Bergman – un nome che porta decisamente bene alla storia della Settima Arte – racconto che fa perno sulla gitana Pamela, (anti)eroina effervescente, intraprendente, ricca di risorse che trova il compagno su internet e parte alla volta del Belgio: un protagonista femminile che  “viaggia come un treno nella notte”, per dirla come l’avrebbero scritto grandi critici di Cinema, in un lungometraggio portato in Italia da Cineclub Internazionale, casa di distribuzione non nuova alla promozione di registi donna passati da Cannes con film raffinati (vedi il recente Sofia, di Meryem Benm’Barek). Quest’opera è finalmente nelle Sale italiane dal 1° Ottobre, dopo la lunga trafila del Covid, quasi a riaffermare il carattere della vita inesausta che non s’arrende.

Con qualche domanda alla regista Marta Bergman, è stato per me più semplice districarmi tra i dubbi, senza svelare troppo:

Una scena del film con i due protagonisti ©Mymovies

Il personaggio di Bruno sembra essere pensato come una figura complementare a quella di Pamela…

Il personaggio di Bruno è complementare a quello di Pamela; è introverso, esageratamente educato e sconnesso dalla sua dimensione sessuale. Pamela arriva portando follia e disordine nella sua vita troppo precisa. Bruno ha inconsciamente bisogno di lei per sbloccarsi; nel corso del film evolve, lo percepiamo nel suo modo di vestirsi e nella sua maniera di rapportarsi ai genitori. Una specie di rivolta adolescenziale tardiva. Per certi aspetti emozionali, Bruno è rimasto adolescente e a contatto con Pamela, che è una donna non convenzionale, cresce anche lui. Amo molto la sua fragilità a tratti inquietante, che ritrovo in molti uomini di oggi…

Il mondo dei Gitani

Il film appare come un’opera matura, quasi antropologica, rispetto a film francesi che hanno trattato l’argomento dei Gitani in maniera completamente diversa. Si pensi a un classico come Lo zingaro (Le gitan)di Josè Giovanni con Alain Delon, oppure a un film più recente come i Lionesi (Les Lyonnais) di Olivier Marchal; qui siamo, forse, su un fronte opposto. È cambiata l’epoca, è diverso anche il genere, differente lo sguardo.

Locandina di “Le gitan” di Josè Giovanni

Lei si è dedicata al mondo Rom in alcuni suoi documentari: che influenza ha avuto questo sullo stile del suo lungometraggio?

L’approccio “documentaristico” nella narrazione è presente prima di tutto nel lavoro preparatorio al film; con l’equipe abbiamo passato tanto tempo a viaggiare nei villaggi rom e conoscere la gente. Questa relazione di vicinanza e intimità con i personaggi filmati è stata importante; ero alla ricerca di una forma non di realismo assoluto, ma di verità. Il contesto rom che si trova nei miei film è certamente legato a delle affinità, amicizie e connessioni che ho con alcune persone della comunità. Non mi interessano le generalità o il folklore, vedo prima di tutto delle persone. Ovviamente l’identità rom è molto presente nella personalità di Pamela, ma è solo uno dei tanti aspetti del suo carattere complesso. Pamela è una donna con i suoi pregi e i suoi difetti, con un background culturale rom che ha dentro di sé con la sua foga ed energia. Anche se a tratti lo nasconde o attenua, in modo ingenuo, diventando bionda.

La neve

La neve è di per sé evocativa. In questo lungometraggio più che mai.

Alcune sequenze nella neve hanno un che di onirico con un impatto visivo forte: è un’impressione mia personale, oppure nella situazione è stata particolarmente ispirata dal fattore metereologico, divenuto parte integrante del film?

La neve non era prevista in sceneggiatura e inizialmente il film avrebbe dovuto essere girato in estate, in un caldo torrido. La fortuna è stata che l’attrice Alina Serban (Pamela) non era disponibile in quel periodo e dunque abbiamo dovuto modificare il periodo di set. Il clima era gelido, con una neve così abbondante che abbiamo rischiato di non riuscire a raggiungere il villaggio dove dovevamo girare. Anche in questo caso, la fortuna è stata dalla nostra parte; la neve si è sciolta un pochino, dandoci la possibilità di raggiungere la casa della nonna dove giravamo, ed è rimasta per regalarci la sua poesia. La neve dona al film una dimensione nostalgica, molto intima, legata alla dimensione mentale ed emozionale di Pamela.

©FilipVanRoe

Un finale democratico?

Spesso i film hanno finali aperti, che si prestano a molteplici interpretazioni.

Il finale appare democratico perché lascia lo spettatore libero d’interpretazione. Era questa la sua intenzione?

La fine del film è da una parte “aperta” perché lascia spazio all’immaginazione dello spettatore, ma dall’altra parte, credo, priva di ambiguità. Dopo i numerosi incontri con il pubblico che ho fatto, la gente ha sentito la direzione profonda della storia, accompagnata da un sentimento di libertà. E questa liberazione ed emancipazione corrisponde all’intenzione che avevo quando scrivevo la sceneggiatura. Il dubbio può esserci sull’azione immediata dei personaggi, ma è secondario perché la traiettoria interiore di Pamela e Marian è chiara.

Luigi Luca è nato a Milano nel 1992, ha studiato Storia e si è specializzato in Editoria. Lavora nella comunicazione digitale. È un cinefilo da sempre e si è dedicato alla materia da autodidatta, con un focus sulle cinematografie nazionali francese e statunitense.

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