Tutto cambia perché nulla cambi

Perché i leader dei Paesi dell’Est si oppongo ad alcune politiche comunitarie? Come mai l’Ungheria si pone in testa ai Paesi di Visegrad?
Le ragioni storiche che hanno posto Orban in testa al gruppo di paesi che contrasta le iniziative dell’Unione Europea

Nel giugno del 1999 si riuniva una gran folla nella piazza degli Eroi di Budapest.
L’occasione era duplice. Erano infatti passati dieci anni dalla caduta del muro di Berlino e nel mese di giugno si celebrava la morte del politico ungherese Imre Nagy, ucciso dal regime sovietico nel 1958 a due anni di distanza dall’invasione delle truppe comuniste in Ungheria.
In quell’occasione prese la parola un giovane politico di trentasei anni, che in 1999 era da un anno a capo del governo ungherese, sostenuto da una coalizione formata da Fidesz, il suo partito, Forum Democratico Ungherese (MDF) e Partito dei Piccoli Proprietari Indipendenti (FKGP).
Il suo nome era Viktor Orban.
Nel suo concitato discorso, davanti a migliaia di persone, il leader ungherese affermava che il 1989, non era stata né una rivoluzione né una rottura come ovunque si era proclamato, bensì un cambiamento nella continuità:


Occorreva che tutto cambiasse perché in fondo niente cambiasse

viktor orban

affermò, parafrasando la famosa frase del Gattopardo.
Intervennero Vaclav Havel e Adam Michnik, due emblemi della resistenza antisovietica e fieri difensori della portata universale e liberatrice dell’abbattimento del comunismo, a smontare le tesi del giovane Orban.

All’affermazione dell’attuale primo ministro magiaro si collega un tratto comune legato alle ragioni dell’antiliberalismo oggi ben presente nei paesi dell’Europa centrale, che ha portato all’elezione di rappresentanti politici e di parlamentari conservatori di chiara matrice nazionalista.
Una di queste ragione è certamente da ricercare nella permanenza di elementi dei vecchi rappresentanti degli apparati comunisti a livello di leve profonde del potere, camaleonticamente sopravvissuti agli scossoni successivi alla caduta del regime nei paesi dell’ex patto di Varsavia. La responsabilità della permanenza di queste personalità all’interno degli apparati viene spesso scaricata sul compromesso accettato dai rappresentanti dei tavoli democratici formatisi all’indomani della caduta del muro di Berlino.

Viktor Orban durante una cerimonia contro il regime sovietico a Budapest, il 16 giugno 1989 (AP Photo/MTI, Istvan Csaba Toth)

I movimenti che dopo il 1989 portarono alla rinascita di entità statali indipendenti furono un vero e proprio miracolo, se visti con gli occhi di chi aveva assistito alle dure repressioni che si erano susseguite nel 1956, nel 1968 e negli anni di fondazione di Solidarnosc in Polonia. Ma sulla portata storica del 1989 emergono, ad anni di distanza, interpretazioni diverse tra chi in Occidente osservava l’evolversi dei fatti e chi questa “rivoluzione” la viveva in prima persona.

Spesso si fa riferimento ai fatti avvenuti all’intero dei paesi del Centro-Europa usando categorie linguistiche coniate proprio dall’occidente.
Jacques Rupnik, nella sua opera “Senza il muro”, fa notare ad esempio come a Praga vi era una certa presa di distanza dall’etichetta “rivoluzione di velluto” che Havel, il simbolo dei movimenti di liberazione in Repubblica Ceca, attribuisce a un giornalista occidentale.
Più in generale in tutti i paesi di Centro-Eruopa vi è una sorta di imbarazzo anche intorno alla parola “rivoluzione”. In effetti è proprio il rifiuto della logica rivoluzionaria che viene presentato dai protagonisti di quegli eventi come la più genuina eredità dell’1989.
Ritornerei a proposito sulle parole di Vratislav Brebenec, citate nell’articolo “(Plastic) People have the power”:

Odio quando la gente parla di quegli anni come “rivoluzione” in Cecoslovacchia. Una rivoluzione dovrebbe cambiare le cose. Ma cosa è cambiato?.

Vratislav Brebenec
Vaclav Havel durante un comizio. Immagine tratta da Havel@80

Già, che cosa è cambiato?
Esistono diverse teorie a riguardo e diversi autori, da Francois Furet a Jurgen Habermas hanno dibattuto sull’argomento.
Le tesi concordano su un punto in particolare: il 1989, diversamente dal 1789 o dal 1917, non ha dato avvio a un nuovo progetto sociale e non ha fatto emergere alcuna nuova idea.
Fu semmai l’inizio del diffondersi, su scala globale, del modello occidentale di economia di mercato e di democrazia liberale.
Seguendo questo ragionamento si giunge a constatare, dunque, come il 1989 non fu altro che un’emulazione di un modello già pienamente affermato e perfettamente funzionante, fino a quel momento, in gran parte del blocco occidentale.

Diversi fattori hanno incrinato la fiducia nei confronti di quel modello, in primis la grave crisi economico iniziata nel 2008 e l’emergere di un conflitto sociale sempre più impari; ma se il principio economico capitalista rimane un pilastro incontestabile, quello che viene oggi messo in discussione da leader come Orban o personalità politiche di spicco come Jaroslav Kaczynsky è proprio il concetto di democrazia liberale.

«Dobbiamo affermare che la democrazia non è necessariamente liberale. Il fatto che qualcosa non sia liberale non significa che non vi sia democrazia»

Viktor orban

Del resto, a conferma del vacillare del senso di fiducia dei paesi del Centro-Europa e, in generale, nei paesi dell’ex blocco sovietico nei confronti del modello occidentale, vi sono alcuni dati: nel 2009 alla domanda di un sondaggio dell’Eurobarometro che chiedeva se nei loro paesi “le cose stessero andando nella giusta direzione”, solo un quarto circa degli abitanti dell’Europa entrati recentemente a far parte dell’Unione Europea rispose positivamente: le percentuali più basse furono registrate in Ungheria (7%), Lettonia(9%), Lituania (13%), Slovacchia (19%), Polonia (24%), Repubblica Ceca (28%).
Altri dati fanno ancora più impressione riguardo alla tenuta del sistema democratico: un “governo di esperti” raccoglie i favori dei tre quarti delle persone intervistate nei paesi da poco entrati nella Ue (il 92% dei cechi e degli slovacchi, l’86% degli ungheresi), ma soprattutto, si registra un’attrazione più preoccupante per la prospettiva di un “uomo forte” alla guida del paese (il 46% a Est rispetto al 27% a Ovest).

Manifestazione pro Fidesz del 6 aprile 2018 in Ungheria. Le elezioni di quell’anno riconfermeranno Viktor Orban alla guida del paese. Il leader è in carica ininterrottamente dal 2010. (Photo by Laszlo Balogh/Getty Images)

Uno spettro sembra dunque aggirarsi per l’Europa: è lo spettro della disillusione, a maggior ragione nei paesi che per anni avevano combattuto per liberarsi dell’altro e più famoso fantasma del comunismo.
Una disillusione profonda alimentata dalla presa di coscienza che i duri sacrifici e l’emulazione del modello occidentale non hanno portato all’orizzonte della “fine della storia” che il crollo del muro di Berlino aveva fatto intravedere. Un disincanto che sfocia nel voto a partiti che si dichiarano contro un sistema che ha mantenuto al loro posto ex funzionari del partito e un’Europa che è la causa di disuguaglianze e i privilegi tipici del vecchio regime.

Se spesso questi slogan si rivelano tutt’altro che veritieri, vi è anche nelle bugie una minima parte di verità.
Un episodio che più di altri fa luce sulle ragioni del disincanto è quello narrato da Krastev e Holmes nella loro opera “La rivolta anti liberale. Come l’occidente sta perdendo la battaglia per la democrazia”:

Quando visitò l’Ungheria fra gli anni Settanta e Ottanta, Hans Magnus Enzensberger ebbe una lunga conversazione con un membro della classe dirigente comunista del paese, il quale, negli anni Novanta, avrebbe fatto parte della nuova élite economica ungherese: “Il partito è la nostra scala mobile sociale, è meglio della Harvard Business School!
Non ha concorrenti, non ci sono alternative… Nel momento in cui gli americani manderanno le loro truppe a Budapest sarò il primo a dire: me ne sbatto di tutto il leninismo!” .

i. krastev, s. homes

Un classico esempio di “Gattopardismo”, termine ormai accostato nell’Enciclopedia Treccani al “trasformismo” di giolittiana memoria.
Rivedendo la storia successiva alla caduta del muro di Berlino, le parole di Viktor Orban acquisiscono un senso e fanno luce su aspetti spesso trascurati. E del resto lo stesso leader magiaro ha saputo far tesoro dell’esperienza e si è dimostrato capace di adattarsi e saper leggere in anticipo i cambiamenti e i malumori interni al suo paese, creando i presupposti per un governo che dura ormai da un decennio.

Occorre tener conto di questi fattori e saper imparare dagli errori se si vuole fino in fondo comprendere le ragioni del dissenso euroscettico dei partiti sovranisti che cavalcano la rabbia e la disillusione di popoli e genti non più disposte ad accettare compromessi.


Riferimenti:

  • Jacques Rupnik, Senza il muro Le due Europe dopo il crollo del comunismo. Roma, Donzelli Editore, (2019)
  • I. Krastev & S. Holmes, La rivolta anti liberale. Come l’occidente sta perdendo la battaglia per la democrazia. Milano, Mondadori, (2020)

Ho 27 anni, una laurea triennale in storia e sto finendo il mio percorso accademico all’Università degli Studi di Milano, dove studio relazioni internazionali. La musica ha sempre fatto parte della mia vita: suono il pianoforte dall’età di 8 anni e strimpello la chitarra da quando ne avevo 14, età in cui tutti ci sentiamo delle rock star. Amo viaggiare, al punto da aver fatto l'Erasmus in Turchia e in Repubblica Ceca.  Sono pigro e adoro perdere tempo per poi essere assalito dai sensi di colpa. Scrivere di musica è per me una bella sfida e un'occasione di mettermi alla prova.

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