Una nuova fase per l’Arabia Saudita

Mohammed Bin Salman (d’ora in poi, MBS) approvò, e con ogni probabilità ordinò, l’omicidio del giornalista dissidente Jamal Khashoggi avvenuto il 2 ottobre del 2018 all’interno dell’ambasciata saudita a Istanbul. E’ quanto emerge dal rapporto dell’intelligence statunitense, desecretato nelle scorse settimane, sul brutale assassinio dell’ex editorialista del Washington Post. La pubblicazione del rapporto è stata preceduta di qualche giorno dal primo contatto telefonico tra il presidente statunitense Joe Biden e il re saudita Salman, che è ancora a tutti gli effetti il capo di Stato.

Secondo quanto dichiarato da Biden, infatti, sarà proprio l’85enne Salman, salito al trono nel 2015 dopo la morte del fratello Fahd, l’interlocutore della nuova amministrazione a stelle e strisce. Si ha quindi, da parte statunitense, la volontà di ridimensionare almeno in parte la posizione di MBS all’interno della gerarchia di potere saudita. Negli scorsi anni il principe ereditario era diventato l’interlocutore privilegiato sia di Donald Trump che dell’ex segretario di Stato Mike Pompeo -e del consigliere per il Medio Oriente Jared Kushner. Nominato principe della Corona il 21 giugno 2017 al posto del cugino Mohammed bin Nayef, MBS ha assunto negli anni sempre più potere e ha, tra le altre cose, avviato un ambizioso piano di modernizzazione del paese, conosciuto come Vision 2030, che la scopo di ridurre la dipendenza dell’Arabia Saudita dal petrolio e diversificare la sua economia.

La locandina del film “The Dissident”, disponibile online da fine febbraio. (fonte MioCinema)

Ryad aveva sempre negato il coinvolgimento di MBS nell’omicidio Khashoggi, per il quale sono stati condannati a morte 5 uomini la cui pena è poi stata commutata in 20 anni di carcere. In seguito alla pubblicazione del rapporto dell’intelligence statunitense, 76 persone considerate direttamente e indirettamente coinvolte nella vicenda sono state sottoposte a sanzioni e blocco dei visti da parte di Washington.

Nell’elenco non compare tuttavia lo stesso Mohammed bin Salman: alla decisione statunitense di indicare il principe saudita quale responsabile del brutale omicidio non fa quindi seguito l’adozione di misure punitive che colpiscano direttamente la figura del futuro capo di stato e attuale leader de facto saudita. La decisione di non sottoporre MBS a sanzioni risponde a precisi calcoli strategici. L’imposizione di sanzioni dirette, infatti, avrebbe costituito un rischio troppo grande, alla luce dell’importanza che l’Arabia Saudita ricopre nell’area sia in ottica del contenimento dell’eterna minaccia iraniana sia quale indispensabile partner commerciale. Washington non può permettersi di compromettere le proprie relazioni con Riyadh.

In un’intervista alla CNN la responsabile dell’ufficio stampa della Casa Bianca Jen Psaki ha inoltre ricordato che l’imposizione di sanzioni nei confronti di leader di governi stranieri non è parte della prassi delle amministrazioni a stelle e strisce, e ha aggiunto che “esistono modi più efficaci” per rendere il principe saudita responsabile per i crimini commessi. Per la verità, nel corso della campagna elettorale Joe Biden, oltre a esprimere fortemente la volontà di rivedere la relazione con l’Arabia Saudita (definita letteralmente come un “pariah” dall’attuale presidente statunitense), aveva in più di un’occasione ribadito la necessità di punire direttamente MBS.

Ma, al di là dell’utilizzo delle sanzioni, l’inversione di rotta nelle relazioni con la principale monarchia del Golfo è netta e indiscutibile. Già durante la corsa alla Casa Bianca Joe Biden aveva dichiarato di voler sospendere la vendita di armi a Riyadh e di mettere fine alla catastrofe umanitaria che da diversi anni ha luogo in Yemen. Così a inizio febbraio il presidente statunitense ha ufficialmente ritirato il proprio supporto alle operazioni a guida saudita nel paese e annunciato una temporanea sospensione nella fornitura di armi ad Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti.

La decisione di Biden si pone in netta contrapposizione con la linea di politica estera adottata dal suo predecessore Donald Trump, che solo qualche mese fa aveva inserito i ribelli Houthi di Ansar Allah nella lista delle organizzazioni terroristiche complicando ulteriormente i già difficili negoziati per riportare la pace nel paese (mossa poi revocata dal nuovo segretario di Stato Anthony Blinken). In passato il Congresso americano si era opposto più di una volta al prolungato supporto statunitense alla prosecuzione del conflitto, e la decisione di Biden può anche essere letta alla luce di considerazioni riguardanti la politica interna. Si tratta di un provvedimento in gran parte simbolico: è chiaro che la sospensione della vendita di armi non può bastare a mettere fine ad una delle peggiori catastrofi umanitarie degli ultimi decenni, e non sono ancora ben chiari i dettagli del provvedimento (e in particolare di quali armi sarà fermata la vendita). Ma, in sostanza, l’amministrazione statunitense ha lanciato un importante segnale di discontinuità col passato recente.

Parallelamente, continua, da parte degli i Houthi, il lancio di droni e missili balistici verso i pozzi petroliferi sauditi, e la responsabile dell’ufficio stampa della Casa Bianca Jen Psaki ha espresso preoccupazione per la frequenza degli attacchi. Le milizie Houthi affermano di agire in base al principio di legittima difesa in risposta agli attacchi della coalizione nei confronti della capitale yemenita Sana’a e criticano la solidarietà mostrata a livello internazionale nei confronti di Riyadh. Da parte di Washington è arrivato l’invito a interrompere gli attacchi e a sedersi al tavolo negoziale.

Fonte BBC

Lo scorso anno all’Arabia Saudita, unico paese arabo a far parte del forum internazionale che riunisce le principali potenze economiche al mondo, è spettata la presidenza del G20. Il 2020 è stato un anno difficile per l’economia saudita: la crisi sanitaria mondiale e il conseguente crollo dei prezzi del petrolio hanno creato non poche difficoltà a Riyadh, e senza dubbio il processo di modernizzazione e di riconversione economica del paese ha subito una brusca battuta d’arresto. La presidenza saudita del G20 è stata caratterizzata dagli sforzi per una maggiore inclusione finanziaria delle categorie più fragili e, con lo scoppio della pandemia, è emersa con chiarezza la necessità di rinforzare il funzionamento delle istituzioni multilaterali. 

Uno degli ultimi colpi di scena dell’era Trump era stato proprio il riavvicinamento diplomatico tra il Qatar e il “quartetto” di stati (Bahrein, Egitto, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita) alla testa del quale si posiziona indiscussamente Riyadh. Dopo oltre tre anni di embargo nei confronti del piccolo stato del Golfo, accusato di intrattenere relazioni con l’Iran e con movimenti come Hamas e Fratellanza Musulmana, si è giunti a un rilassamento dei rapporti tra Doha e Riyadh e al simbolico abbraccio con cui lo sceicco Tamim bin Hamad Al-Thani Hamad è stato accolto da MBS al suo arrivo all’aeroporto di Al-Ula, a inizio gennaio. Il processo di riavvicinamento tra i due paesi sarà graduale, ma la firma della Dichiarazione di Al-Ula da parte dei membri del GCC (con l’aggiunta dell’Egitto) rappresenta una pietra miliare da cui ripartire nella ricostruzione dei meccanismi di cooperazione regionale.

I leader del GCC (fonte AFP)

Il disgelo nei confronti del Qatar, oltre a rappresentare il tentativo di Riyadh di imporre ancora una volta la propria leadership a livello regionale, è un chiaro messaggio per la Casa Bianca e per un Congresso americano che in futuro sarà, con ogni probabilità, ancora più critico nei confronti della politica estera saudita. L’accordo con il Qatar è in gran parte frutto dell’azione diplomatica saudita e va quindi letto nell’ottica del consolidamento del primato di Riyadh all’interno del Consiglio di Cooperazione del Golfo. Una condizione che, soprattutto nel caso di un ridimensionamento dell’intesa con gli Stati Uniti, l’Arabia Saudita cercherà di difendere con ogni mezzo possibile.

Nel frattempo, Riyadh è intenta a ripulire la propria immagine internazionale attraverso l’organizzazione di eventi sportivi (l’incontro per il titolo mondiale dei pesi massimi di Boxe, la formula-E, un nuovo giro ciclistico, la Supercoppa italiana di calcio e via dicendo). Lo scorso anno, un consorzio guidato dal PIF, il fondo di investimento sovrano saudita, è stato vicino all’acquisto del Newcastle. L’affare è poi saltato per l’opposizione della stessa Premier League per via di una disputa riguardante i diritti televisivi (riconducibile anche in questo caso alla rottura diplomatica col Qatar). Recentemente, si è parlato del possibile acquisto da parte del PIF di una quota di minoranza dell’Inter (circa il 30%). Lo sportwashing è un’operazione ampiamente criticata che consiste nel ripulire la propria immagine attraverso investimenti mirati nel mondo dello sport. In questo modo si cerca di distogliere l’attenzione internazionale dalle violazioni dei diritti umani e dalle feroci disuguaglianze presenti nel paese. La situazione dei diritti umani è ben lontana dagli standard occidentali, e sono centinaia le detenzioni arbitrarie di attivisti e figure ingombranti. In base al Global Gender Gap Report del World Economic Forum, inoltre, Riyadh è agli ultimi posti al mondo rispetto alla parità di genere.

Louajin al Hathloul, l’attivista per i diritti delle donne liberata lo scorso 10 febbraio dopo essere stata arrestata nel 2018 perché considerata una minaccia alla sicurezza nazionale per aver animato il movimento femminista che chiedeva il diritto alla guida per le donne, poi reintrodotto il 23 giugno 2018. (fonte Twitter)

Il momento è delicato per l’Arabia Saudita. La pandemia e ciò che ne è seguito hanno complicato i piani di modernizzazione di MBS, e l’arrivo alla Casa Bianca di Joe Biden cambierà almeno in parte la relazione con gli Stati Uniti. L’omicidio di Jamal Khashoggi e il coinvolgimento nel conflitto in Yemen espongono Riyadh a critiche da parte di gran parte della comunità internazionale. Nel paese, negli ultimi anni, sono state introdotte alcune riforme in senso progressista, ma resta il fatto che la più grande delle monarchie del Golfo ha un disperato bisogno di migliorare la propria reputazione nei confronti della quasi totalità del mondo occidentale.

Il rafforzamento dell’integrazione regionale, un concreto impegno a favore della risoluzione del conflitto in Yemen e un piano di riforme interne che vadano nella direzione di un nuovo patto sociale appaiono oggi come passi obbligatori per un paese impegnato in un complicato processo di riconversione economica.

Classe 1989. Ho studiato scienze politiche e cooperazione internazionale. Appassionato di montagna e di sport, seguo e studio la realtà mediorientale

la tua finestra sul mondo

Iscriviti alla newsletter:

    SEGUICI: