Una Turchia divisa sotto i riflettori internazionali

La scorsa settimana, in occasione del 106esimo anniversario dell’inizio dello sterminio del popolo armeno, il presidente Biden ha formalmente riconosciuto come genocidio i massacri e le deportazioni che portarono alla morte di oltre un milione e mezzo di armeni residenti nell’allora Impero Ottomano. 

Biden si è spinto fin dove nessuno dei suoi predecessori aveva ancora osato. La diaspora armena è presente negli Stati Uniti con oltre due milioni di persone, e già in passato erano state fatte pressioni sui presidenti americani (Carter, Reagan, Obama ma anche Donald Trump) perché venisse riconosciuto il reato di genocidio, ma la paura di compromettere le relazioni con un paese che fa parte della NATO e che ricopre un importante ruolo strategico al confine tra Europa e Asia aveva sempre avuto la meglio.

Le dichiarazioni di Biden sono state accolte con freddezza da Ankara, che si è affrettata a convocare l’ambasciatore americano, e arrivano in un momento di tensione nelle relazioni tra la Turchia e l’Occidente. I rapporti tra Ankara e Washington hanno subito vari contraccolpi negli ultimi anni, a partire dal sostegno statunitense ai curdi in Siria e passando per l’acquisto da parte di turca del sistema di difesa missilistico S400 di fabbricazione russa e per la mancata estradizione di Fethullah Gulen. 

Vertice Usa-Turchia nel gennaio 2016, quando Biden era vice-presidente
 © Ap

Alla crescente aggressività di Ankara in vari contesti regionali (Libia, Mediterraneo orientale e Nagorno Karabakh su tutti) non fa da contraltare una situazione interna particolarmente stabile e rassicurante per Erdogan, né dal punto di vista economico né da quello politico. La lira turca ha perso gran parte del proprio valore e il tasso di inflazione rimane molto alto, e sulla scia della flessione economica anche il consenso dell’Akp è in netto calo (già dal 2019, per esempio, l’amministrazione delle città di Istanbul e Ankara è stata persa in favore del partito laico e socialdemocratico di Ekrem İmamoğlu e Mansur Yavaş, il CHP).

La mossa di Biden segna ancora una volta la volontà di rompere con il passato e di restituire alla difesa dei diritti umani una posizione centrale nell’agenda politica statunitense, ma può anche essere letta sia come tentativo di accontentare la base del Partito Democratico sia come monito per un partner che non è più forte come vorrebbe far credere. Al di là di tutto, gli Stati Uniti sono ben consapevoli dell’importanza geostrategica che la Turchia ricopre nella regione, ed è già stato annunciato che in occasione del prossimo vertice della NATO del 14 giugno i due paesi avranno modo di incontrarsi in un incontro bilaterale. 

Se le relazioni tra Ankara e Washington non stanno attraversando un periodo di distensione, le cose non vanno molto meglio se si guarda alle recenti vicissitudini che hanno avuto come protagonisti il presidente turco Erdogan e i massimi rappresentanti delle istituzioni europee Ursula Von Der Leyen e Charles Michel. A meno di un mese dall’uscita della Turchia dalla Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta contro la violenza sulla donna, il sofagate ha spostato l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale sulla disparità di trattamento che il presidente Erdogan ha riservato a Von Der Leyen e Michel, rispettivamente presidente della Commissione europea e del Consiglio europeo, nel corso della loro ultima visita ad Ankara. 

(fonte Nena News)

Il gesto è stato interpretato come una dimostrazione di forza di Erdogan nei confronti dell’Unione Europea e come un modo per ostentare il proprio disprezzo per temi, dal rispetto dei diritti umani alla tutela dei diritti delle donne, che almeno sulla carta sono cari all’Europa e alle sue istituzioni. Da parte sua, ancora una volta l’UE ha dimostrato la propria sudditanza nei confronti del neo-sultano, nonché la completa incapacità di adottare una politica estera comune che vada oltre il mero interesse commerciale e la necessità di usare la Turchia come stato cuscinetto nel contenimento dell’emergenza migratoria. A partire dallo scoppio della guerra in Siria e dell’esodo che ne è seguito, infatti, la Turchia è diventata un partner scomodo quanto imprescindibile per l’Unione, che ha più volte dimostrato di essere disposta a pagare qualsiasi prezzo pur tenere i rifugiati lontani dai propri confini. 

Lo sgarro di Erdogan alla delegazione europea è avvenuto mentre Mario Draghi era impegnato nella prima visita ufficiale a un paese straniero da presidente del Consiglio, a Tripoli, proprio in quella Libia che da anni è oggetto delle mire espansionistiche turche nel Mediterraneo orientale. Nel corso della visita, Draghi ha incontrato il suo omologo Abdel Hamid Dbeibah e ha ribadito l’interesse italiano per un paese che, dopo quasi 10 anni di guerra civile, sta attraversando un periodo di transizione e di pacificazione nazionale che raggiungerà il culmine con le elezioni generali del prossimo dicembre. Il processo di pacificazione nazionale passa anche e soprattutto attraverso il ritiro dei contingenti stranieri dal paese nordafricano, sebbene il primo ultimatum previsto per il 23 gennaio sia stato totalmente ignorato sia dai turchi che dai russi del Gruppo Wagner. In quest’ottica la visita di Draghi è altamente simbolica della volontà  di riaffermare il proprio interesse strategico nei confronti di un paese storicamente vicino agli interessi italiani e che ha bisogno di riappropriarsi della propria sovranità.

(fonte Possibile)

Mario Draghi ha reagito al sofagate parlando di Erdogan come di “un dittatore di cui si ha bisogno”, e per la prima volta la netta presa di posizione di un leader italiano sembra poter mettere in discussione le relazioni con Ankara. Ma se la vicenda dello “sgarbo” nei confronti della Von Der Leyen ha attirato l’attenzione dei giornali e dell’opinione pubblica mondiale, lo scontro geopolitico e la battaglia di Erdogan per consolidare l’egemonia turca nel Mediterraneo orientale si giocano a tutt’altro tavolo.

E così, mentre continua la persecuzione nei confronti dei membri dell’HDP (terza forza politica turca considerata strumentalmente vicina al PKK) ed è stato silurato l’ennesimo governatore della Banca Centrale (questa volta è toccato a Naci Agbal, colpevole di non condividere la linea di Erdogan sulla necessità di mantenere bassi i tassi di interesse), nelle ultime settimane ha preso slancio il “folle sogno” di costruire il Kanal Istanbul, un secondo stretto di 45 km parallelo rispetto al Bosforo che renderebbe più semplice il traffico delle merci e permetterebbe alla Turchia di svincolarsi dalla Convenzione di Montreux del 1936 che regola l’accesso al Mar Nero. La Convenzione fu pensata per consentire alla Turchia di regolare il traffico attraverso gli stretti e per garantire una certa difesa all’allora Unione Sovietica: le marine dei paesi non rivieraschi possono infatti entrare nel Mar Nero per non più di 21 giorni e solamente entro un certo tonnellaggio.

Co-chairs of the HDP Selahattin Demirtas (L) and Figen Yuksekdag (R) deliver their speeches on April 21, 2015 during the event for the announcement of the election manifesto of Peoples’ Democratic Party (HDP) at Mustafa Kemal Cultural Center in Istanbul. AFP PHOTO/STR (Photo credit should read STR/AFP/Getty Images)

Secondo quanto dichiarato dalle autorità turche, infatti, il nuovo canale sarebbe esente dal controllo della Convenzione di Montreux, e tra le altre cose permetterebbe al governo di riscuotere un pedaggio per il transito delle navi. Le alte sfere militari turche (e gli ambientalisti) si sono schierate contro il progetto, esponendosi apertamente e mettendo in luce il pericolo di una militarizzazione del Mar Nero (la Convenzione di Montreux ha, tra le altre cose, permesso alla Turchia di rimanere neutrale nel corso della seconda guerra mondiale), e il presidente turco non ha esitato a usare il pugno di ferro e ad arrestare uomini che erano considerati assolutamente fedeli al suo regime. Di fatto, la convenzione è sempre stata vista come favorevole alla Russia, poiché impedisce agli Stati Uniti di occupare militarmente il Mar Nero e aumentare il livello di pressione sul nemico storico.

La mossa di Erdogan, oltre a rispondere a logiche commerciali, rappresenta un messaggio per gli Stati Uniti. La consapevolezza di avere a che fare con un inquilino della Casa Bianca pronto a mettere in campo valori e visioni ben diversi da quelli di Donald Trump costringe infatti l’aspirante neo-sultano a tutelarsi alla luce del malumore che il coinvolgimento di Ankara in diversi contesti di crisi regionali e le marcate tendenze autoritarie potrebbero suscitare a Washington. La carta del Kanal Istanbul permetterebbe ad Erdogan di blandire gli Stati Uniti e di mettere sul piatto una nuova via di accesso al Mar Nero in cambio del bene placito della Casa Bianca sulle mosse turche nel Mediterraneo Orientale.

La situazione è fluida e lo scontro si gioca su più piani. Mentre i rapporti tra Turchia e potenze occidentali vivono un periodo di raffreddamento, le relazioni tra Ankara e Mosca non sono certo idilliache nonostante i comune interessi riguardanti l’energia e il mantenimento del dialogo per la gestione dei principali dossier regionali. Le recenti dichiarazioni di Mario Draghi e la storica presa di posizione di Joe Biden sul genocidio degli armeni lasciano presagire un ricompattamento delle posizioni nel fronte atlantista. Per Erdogan, il clima a livello internazionale al momento non è dei migliori.

A due anni dalle elezioni presidenziali del 2023, nonostante la debolezza diplomatica nella gestione degli interessi energetici e geostrategici nei Balcani e nel Mediterraneo dimostrata a più riprese dai paesi europei (Italia in primis), per la Turchia sembra essere arrivato il momento di fare i conti con i mutamenti avvenuti nelle principali cancellerie occidentali. Se le ambizioni neo-ottomane e i tentativi di porsi alla guida del mondo islamico non possono di certo dirsi accantonati per Erdogan, le tensioni delle ultime settimane suggeriscono la necessità di adottare un approccio realista e proporzionato alla reale forza di un paese che investe moltissimo in soft power e che trae gran parte del proprio prestigio dalla posizione di crocevia che occupa nel Mediterraneo orientale. Per le forze atlantiste, invece, è giunto il momento di fare fronte comune e di rivedere le priorità della propria agenda politica. Il processo di adesione all’UE sembra essere ancora lungo.

Classe 1989. Ho studiato scienze politiche e cooperazione internazionale. Appassionato di montagna e di sport, seguo e studio la realtà mediorientale

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