Vecchie storie, nuove voci

Ricordate gli anni in cui, in certi periodi i palinsesti si svuotavano dalle novità e non c’era “niente da guardare”? Sul futuro dell’intrattenimento incombe la minaccia opposta: ce ne sarà troppo. Nel mare magnum delle serie tv, del proliferare delle piattaforme streaming e della tv on demand, sarà via via più difficile scegliere. E più facile rassegnarsi alla sezione dei “più visti”, creando fenomeni virali come Squid Game. Ma sarà solo questo il criterio di scelta? Forse certi successi planetari hanno a che fare con la sensazione di far parte di un’esperienza comune. Proprio questo fattore potrebbe essere fondamentale per la televisione del futuro: la possibilità di trasformare una serie da oggetto di visione privata a elemento di unione tra le persone.

Group Watch, Netflix Party e altre applicazioni per sincronizzare la visione con amici e familiari lontani sono stati tra i protagonisti del primo, interminabile lockdown nel 2020. E continueranno a essere presenti nella nostra società iperconnessa ma fisicamente distante. È impossibile tornare ai tempi in cui c’erano momenti precisi per riunirsi fisicamente con altre persone, davanti a uno schermo di televisore, per guardare una puntata. Ma che gusto c’è in tutta questa offerta televisiva, se non possiamo parlarne con gli altri?

Una scena di Squid Game – Credits: Netflix

In futuro, la condivisione sarà sempre più un elemento fondamentale della serialità televisiva. Dai forum su Lost del 2005, siamo arrivati ai social media in cui ogni serie ha un profilo, ai canali Youtube e ai podcast di approfondimento su generi e tecniche narrative, alle puntate-evento che fermano il mondo come una finale dei mondiali di calcio. La nostra sarà una fruizione partecipativa, non passiva ma coinvolgente. Una serie tv non sarà mai più qualcosa da guardare e basta. Sarà un fenomeno da smontare e analizzare. Il web ci darà il potere di esporre – per non dire imporre – il nostro punto di vista a creatori e interpreti.

Le storie stesse che popolano il panorama della serialità usciranno dalla cornice del canale o della piattaforma, per trasformarsi in patchwork multimediali. Già ora la fanno da padrone grandi franchise come il Marvel Cinematic Universe. Universi narrativi che si snodano tra televisione e cinema, libri e fumetti, webseries e podcast, come le varie serie su Star Wars che sono tra le più anticipate del prossimo futuro.

Nel saltare da un medium all’altro, si trasformano i linguaggi espressivi, si gioca coi generi, si cambiano le carte in tavola. Il vecchio standard prevedeva stagioni lunghissime, da almeno 24 episodi ciascuna. Ogni puntata durava tre quarti d’ora e si chiudeva con un colpo di scena per far tornare gli spettatori all’appuntamento settimanale successivo. Ora, il rilascio simultaneo di intere stagioni, l’abitudine al binge watching, le miniserie e il formato antologico ci hanno abituato a puntate strutturate in modo diverso, sia per minutaggio che per snodi narrativi.

La rottura degli schemi ci porterà verso forme di racconto meno standardizzate. Storie che permetteranno ai loro creatori di realizzare una visione artistica più personale, libera dalle logiche classiche, rivolgendosi a fasce di pubblico specifiche che guarderanno le loro puntate preferite non più sul televisore, ma da pc, tablet e smartphone, fuori casa e in movimento, senza appuntamenti fissi. E che dai loro programmi preferiti si aspetteranno qualcosa di più che semplice intrattenimento ed evasione.

Crescerà anche il legame tra politica e fiction. Prima, i temi sociali come razzismo, sessismo e disuguaglianza potevano essere parte integrante della trama senza che gli spettatori se ne accorgessero. Oggi prende sempre più piede la “serie-manifesto”, che si fa portatrice di cause d’attualità in modo dichiarato, anche se non sempre elegante. Di conseguenza, vedremo sempre di più gli effetti delle serie tv sul mondo reale. Tra scioperanti travestiti da personaggi di La Casa di Carta e femministe in tenuta da ancella di The Handmaid’s Tale, possiamo già sperimentare la potenza di certi simboli, resi popolari dalla fiction televisiva.

Emma D’Arcy e Matt Smith in una scena di House of the Dragon – Credits: HBO

Infine, una certezza matematica sulle serie tv del futuro: continueranno a esserci ritorni al passato. Basti pensare che tra le serie più attese del 2022 ci sono Il Signore degli Anelli e un prequel del Trono di Spade.  Rifacimenti e reboot, revival e sequel, generi sorpassati che trovano nuova linfa e vecchi formati che ritornano, come l’uscita a cadenza settimanale che già vediamo riportata in auge da piattaforme streaming come Apple Tv e Disney Plus. Da spettatori ce ne lamenteremo, ma tenendo presente che nella narrativa, come in ogni altra arte, ci sono mode e correnti che vanno e vengono. Ogni revival, ogni sequel non è solo un ritorno al passato, né una bieca operazione commerciale ma, nel bene o nel male, un’opera figlia del proprio tempo.

Forse è vero che tutto è già stato detto, che non ci sono storie davvero nuove. Ma punti di vista nuovi sì. Per questo ora assistiamo al boom delle produzioni coreane, per questo le piattaforme streaming puntano sempre più su produzioni internazionali, anziché sull’orticello di Hollywood. Per questo la diversità nelle writing rooms, l’inclusività nei confronti di categorie marginalizzate sarà sempre più un punto di forza per il successo delle serie tv. Perché vecchie storie possono essere ancora nuove, se raccontate da nuove voci. Voci che finalmente stanno trovando un modo di farsi ascoltare a livello globale. Ed è da queste voci che arriverà il futuro della serialità televisiva. Dal punto di vista inaspettato, lontanissimo dal nostro quotidiano, oppure talmente vicino da essere invisibile.

Maria Antonietta Carroni (31), sarda nostalgica, romana per colpa di un master in cinema e tv. Inventa storie ma le piace anche commentare quelle degli altri. E usarle come occhiali per vedere meglio la realtà. “Siamo tutti storie, alla fine”.

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