Vincere e morire. Il fischio finale del fascismo

Forse ho lasciato passare quattro gol, ma almeno ho salvato le loro vite

Quella di Antal Szabó, portiere dell’Ungheria, è una frase che è entrata nel mito e su cui si è molto dibattuto, anche in terra straniera. Loser try o lost in translation?
Alla base ci sarebbe un telegramma fatto recapitare da Mussolini, tramite il fido segretario generale del partito Achille Starace, a Vittorio Pozzo, l’allenatore della trionfale spedizione italiana ai mondiali di Francia 1938. Sua Eccellenza, il Duce del fascismo, avrebbe invitato i campioni del mondo in carica a Vincere o Morire! Una minaccia diretta agli Azzurri o un semplice promemoria di un motto del regime? In realtà non esistono copie del telegramma incriminato, che potrebbe realisticamente non aver contenuto la frase simbolo dell’idealismo fascista.

In un’intervista del 2001 per il Guardian, Simon Martin – storico inglese ed esperto di Calcio e Fascismo, come titola la sua monografia del 2006 – ha chiesto dettagli a Pietro Rava, ultimo superstite dei 23 convocati della rosa bi-campione del mondo. Rava, «in là con gli anni o forse volutamente selettivo», disse che era arrivato un telegramma in cui Mussolini augurava alla squadra buona fortuna, ma che non c’era la famosa frase.

L’Italia scende in campo con la maglia nera contro la Francia nel 1938 – Wikipedia

In ogni caso, il legame tra regime fascista e pallone è stato viscerale. Una questione di vita, e soprattutto di morte, a giudicare dalla parabola del Ventennio e dello sport che in quegli anni è diventato “il più amato dagli italiani”.

Quando il 1° settembre 1939 la Germania invade la Polonia, il mondo si avvia verso un baratro destinato a durare sei anni. «Benché con la resa della Polonia le armi tacciano per settimane, la II guerra mondiale annulla quasi del tutto l’attività calcistica internazionale» scrive Alfio Caruso in “Un secolo azzurro”, un libro che ripercorre “Cent’anni d’Italia raccontati dalla nazionale di calcio”. Mentre il mondo si ferma per la guerra, rincuorata dalla neutralità la Serie A inaugura l’11esimo campionato a girone unico, con una rivoluzione sulle maglie: i numeri. Prosegue l’alternanza tra l’Inter – ribattezzata “Ambrosiana” dal regime, che non vedeva con simpatia il nome Internazionale – e il Bologna. “Lo squadrone che tremare il mondo fa” negli anni Trenta è una squadra da sogno, su cui però si abbatte la scure del regime.

Racconta Eraldo Monzeglio – ex giocatore di Bologna e Roma, due volte campione del mondo – che sia stato anche il secondo titolo mondiale ad incidere sulle tempistiche delle leggi razziali: agli occhi di Mussolini «era stata convalidata una presunta superiorità etnica». Il 7 ottobre 1938 i fulmini del Gran Consiglio si abbattono contro i 47mila cittadini ebrei del Regno. Due giorni più tardi il Bologna Campione d’Italia cede di schianto in casa per 0 a 3 contro il Torino. La debacle costa, alla quarta giornata, il posto dell’allenatore dei rossoblu. Per Arpad Weisz e per la sua famiglia comincia un calvario, che li avrebbe condotti ad Auschwitz nel 1944 e nel dimenticatoio, fino all’uscita nel 2007 del libro di Matteo Marani.

Fatto sta che di Weisz, a sessant’anni dalla morte, si era perduta ogni traccia. Eppure aveva vinto più di tutti nella sua epoca, un’epoca gloriosa del pallone, aveva conquistato scudetti e coppe. Ben più di tecnici tanto acclamati oggi. […] Sarebbe immaginabile che qualcuno di loro scomparisse di colpo? A lui è successo

Matteo Marani, Dallo scudetto ad Auschwitz: vita e morte di Arpad Weisz, allenatore ebreo, 2007

Va meglio a un altro ebreo ungherese, Ernest Erbstein, l’inventore del “fenomeno Lucchese”. A Lucca, Erbstein era osannato e sicuramente sarebbe rimasto volentieri, ma le Leggi razziali colpiscono direttamente la sua famiglia, ritrovandosi a non poter più far frequentare una scuola pubblica alle sue figlie. Decide così di accettare l’offerta della dirigenza piemontese dei granata a guidare il Torino: il trasferimento sarebbe servito, in parte, a giustificare alle sue figliole l’iscrizione in una nuova scuola privata. «L’ex agente di borsa cerca di applicare nel pallone le tesi del filosofo olandese Johan Huizinga. Tiene sempre in tasca il saggio Homo ludend». Erbstein ha anticipato il calcio totale degli olandesi. Chissà cosa avrebbe potuto fare insieme ai suoi ragazzi se il loro volo non si fosse interrotto sulle colline di Superga.

Anche se distante meno di un decennio, la tragedia del grande Torino sembra lontana anni luce. Il 10 giugno 1940 Mussolini annuncia «l’ora delle decisioni irrevocabili» da Palazzo Venezia. Una settimana prima San Siro si è riempito per la “partitissima” Inter-Bologna che ha reso i nerazzurri campioni d’Italia.

La nazionale italiana campione del mondo del 1938 viene ricevuta da Mussolini – Archivio Luce

Rispetto al 1915, pochissimi sportivi hanno il desiderio di rischiare la pelle. Nessuno si offre volontario, mentre moltissimi fanno carte false per avere l’ambita “cartolina precetto” che permette di non andare al fronte. Trascorreranno il periodo bellico in divisa nelle caserme della Penisola, i più famosi e raccomandati addirittura nelle caserme delle città in cui giocano. I più audaci si arruolano nell’Unpa (Unione nazionale protezione antiaerea).

E dire che al regime non mancano i fedelissimi. Come Dino Fiorini, il leader della difesa del Bologna, e fascista convinto. Era bello, Dino. Bello e slanciato. «Sembra una statua», scrivevano i giornali sportivi che decantavano le gesta del Bologna. Fiorini, durante la Resistenza, avrebbe condiviso lo stesso destino di Bruno Neri, uno degli antifascisti della Lucchese: morto in montagna. Neri per mano dei fascisti, Fiorini dei partigiani.

Il già citato Eraldo Monzeglio, dopo aver partecipato alla disastrosa campagna di Russia, si arruolò nelle fila delle Repubblica Sociale Italiana come collaboratore. Con la Liberazione, Monzeglio rischiò di finire davanti ad un plotone di esecuzione partigiano ma – secondo una leggenda non del tutto confermata – gli operai comunisti di Sesto San Giovanni intervennero in suo favore per due ragioni essenziali: la prima era che Eraldo non aveva fatto del male a nessuno, la seconda, che era un popolarissimo asso della nazionale, due volte campione del mondo. Insomma, non parve approfittare delle amicizie altolocate. All’indomani della vittoria del mondiale nel 1934, la nazionale venne ricevuta a Palazzo Venezia. Oltre a un premio da 25mila lire, era stato promesso ai giocatori l’onore di un incontro personale col Duce.

Sulle prime, si trovarono di fronte il fido Starace. «Adesso il Duce vi riceverà», promise il segretario del Partito, quindi annunciò: «Vuole fare ad ognuno di voi un regalo. Esprimete un desiderio, e il Duce vi accontenterà. Io vado di là, ritorno fra un quarto d’ora. Intanto rischiaratevi le idee su ciò che desiderate».
[…] Sottovoce, emozionati, i ragazzi della squadra azzurra ponderavano le loro ipotesi come bambini impegnati a scrivere a Babbo Natale. Ancora non avevano preso una decisione, quando riapparve Starace. «Il Duce non può venire» li gelò. «È impegnatissimo con l’ambasciatore di Gran Bretagna».
Di fronte alla ragion di stato, nessuno osò fiatare.
«Vi vedrà un’altra volta» promise Starace. «Però dovete ugualmente esternare il vostro desiderio, che sarà esaudito. Allora, cosa avete deciso?»
Un silenzio imbarazzato avvolse la delegazione, poi dal fondo della sala si levò la voce di Eraldo Monzeglio, il terzino amico dei figli di Mussolini: «Vogliamo una foto del Duce con dedica!»
Combi si girò attonito: e la sua tessera ferroviaria? Borel vide svanire in un attimo il sospirato diploma, e anche le speranze di tutti gli altri andarono in cenere. Avrebbero volentieri fatto a pezzi quell’adulatore di Monzeglio, ma erano nel cuore del palazzo dal quale Mussolini si affacciava per arringare le masse, e nessuno ebbe il coraggio di protestare.
Starace annuì con un largo sorriso: «Bravi! Il Duce vi accontenterà».
Per la cronaca Mussolini non trovò mai il tempo di ricevere la delegazione azzurra, né di vergare le dediche per i calciatori sui propri ritratti.

[ Enrico Brizzi, Vincere o Morire. Gli assi del calcio in camicia nera, 2016 ]

Non è che una delle ingiustizie patite anche dal mondo dello sport nel corso del Ventennio.
Quando dopo lo “sfascio” dell’8 settembre 1943 i tedeschi si instaurano nella nazione fino alla linea Gotica, il Paese si spacca. Ma lo sport non si ferma, vive solo una fase di riorganizzazione, al pari delle strutture militari e civili italiane. Mentre le federazioni abbandonano Roma, per seguire Mussolini al nord nella Repubblica Sociale, il reggente delle Figc, Ottorino Barassi, nasconde sotto il suo letto la preziosa Coppa Rimet. Il Coni si installa a Venezia. A novembre nasce una Divisione Nazionale: 12 gironi regionali con 73 squadre di A, B e C.

Ogni squadra, una storia. Istriani e Giuliani si riuniscono nell’Amplea, il Torino aggiunge il nome Fiat. E poi c’è lo Spezia, che non ha giocatori. Durante gli anni della guerra la squadra si era dissolta, la città subisce ripetuti bombardamenti, il presidente Perioli catturato dai nazisti e deportato in un lager, molti giocatori della squadra si danno alla macchia. Così l’unico dirigente a piede libero si rivolge all’ingegner Gandino, comandante dei Vigili del Fuoco. Li allena Ottavio Barbieri, ex mediano del Genoa e della Nazionale, che fa il farmacista a Moneglia. Tesserare i giocatori non è un grande problema: arruolare i giocatori come pompieri è un buon metodo per evitare la leva nella Guardia Repubblicana di Salò.

Così nell’Italia insanguinata dalla guerra civile il pallone continua a rimbalzare. Dal gennaio 1944 è una maratona d’incontri: mentre i calciatori si arrabattano per non finire nella Guardia Repubblicana o deportati, vanno in scena gironi eliminatori, finali regionali e semifinali interregionali. In luglio, Venezia, Torino e Spezia si contendono il pubblico all’Arena di Milano. I pompieri di La Spezia affrontano la trasferta di Milano viaggiando in autobotte.

Di fronte a un pubblico sparuto per il timore di rappresaglie tedesche, si gioca il match d’apertura: Venezia-Spezia 1 a 1. I liguri sono in palla, ma di fronte al favoritissimo Torino sembra non esserci storia. I granata li sottovalutano, disputando un’amichevole remunerata a Trieste. Si sentono talmente superiori da rifiutare un rinvio di un giorno. Il 16 luglio 1944 va in scena il miracolo dell’Arena: al gol di Piola, risponde la doppietta dello sconosciuto Angelini. I pompieri della Spezia vincono 2 a 1. Il Torino quattro giorni dopo strapazza il Venezia e consegna il titolo ai liguri.

Ma la Federazione irrompe, annunciando che lo scudetto non verrà assegnato. Agli spezzini andrà solo la Coppa Federale, una clamorosa smentita di quanto annunciato. In agosto viene decretato che la qualifica di campioni d’Italia rimane al Torino. Dopo 70 anni di polemiche, solo nel 2002 la Federcalcio concederà alla squadra il titolo di scudetto onorifico.

Classe 92', fondatore e direttore di The Pitch. Stefano vanta una laurea in Storia, una in Relazioni Internazionali, oltre a innumerevoli esperienze lavorative sottopagate. Sogna di commentare un’elezione presidenziale negli USA e il Fano in Serie B: ambedue da direttore di The Pitch.

la tua finestra sul mondo

Iscriviti alla newsletter:

    SEGUICI: