Visegrad e il “panico demografico”

«I cittadini dell’Europa centro-orientale che hanno lasciato i loro paesi per l’Europa occidentale a seguito della crisi finanziaria del 2008-2009 sono più numerosi della totalità dei profughi arrivati a causa della guerra in Siria». 
(I. Krastev – S. Holmes)

Se vogliamo analizzare il tema delle migrazioni dalla parte dei quattro di Visegrad e senza cadere in semplificazioni strumentali, dobbiamo partire dalla crisi demografica che questi paesi attraversano, uno dei problemi più opprimenti per i governi europei e in particolare per gli stati del centro Europa.

Folle di migranti si riversano verso Ovest. Immagine tratta da Chronikderwende

Alla fine dell’estate di trentun anni fa, il 23 agosto 1989, il governo riformista ungherese apriva le sue frontiere permettendo a migliaia di tedeschi dell’est di riversarsi, per tutto il mese di settembre e oltre, nella Germania ovest, dando il via a quel fenomeno di fuga dai paesi dell’est verso i ricchi Stati d’occidente, una costante per tutti i paesi dell’Ex patto di Varsavia. Un andamento proseguito poi a seguito dell’adesione di queste nazioni all’Unione Europea.

Una tendenza che ha raggiunto il suo apice negli ultimi anni, soprattutto nei quattro paesi dell’Europa centrale, comunemente conosciuti come Paesi di Visegrad: Ungheria, Repubblica Ceca, Polonia e Slovacchia.
I governi di questi paesi hanno visto tra il 2015 e il 2018 il picco di emigrazione dai propri paesi verso l’occidente. Un problema che mette in gioco aspetti economici, culturali e identitari, definito “panico demografico”. Prendiamo in esame il fenomeno analizzando due fattori significativi: l’andamento demografico e gli indici di natalità dei paesi in esame.

Popolazione
1975 1989 2004 2010 2017 2017 /1989
Ungheria 10.540.525 10.481.719 10.107.146 10.000.023 9.787.966 93,38%
Polonia 34.015.199 37.961.529 38.182.222 38.042.794 37.974.826 100,04%
RepubblicaCeca 10.058.620 10.361.068 10.197.101 10.474.410 10.594.438 102,25%
Slovacchia 4.739.105 5.275.942 5.372.280 5.391.428 5.439.232 103,09%

World Bank Open Data –  https://data.worldbank.org/indicator/SP.POP.TOTL?locations=HU

L’andamento demografico complessivo evidenzia una generale stabilità, con una lieve crescita costante a partire dal 1989 in Slovacchia e nella Repubblica Ceca. Un dato che resta stabile per la Polonia, ma che si inverte per l’Ungheria, che registra un lieve ma costante calo che porta a circa il 7% in meno della popolazione dal 1989 ai giorni nostri.

Interessante anche la tabella relativa all’Indice di natalità: un andamento che accomuna i quattro di Visegrad è un generale calo di questo indice in particolare tra il 1989 e il 2017:
– 16% circa in Ungheria, – 34% in Polonia, – 13% in Repubblica Ceca, il paese dove questo fattore incide di meno e – 28% in Slovacchia.

Indice natalità
1975 1989 2004 2010 2017 2017 /
1989
Ungheria 2,35 1,82 1,28 1,251,53 84,07%
Polonia 2,27 2,08 1,23 1,41 1,39 66,83%
Repubblica
Ceca
2,43 1,87 1,23 1,51 1,63 87,17%
Slovacchia 2,55 2,07 1,25 1,43 1,48 71,50%

World Bank Open Data – https://data.worldbank.org/indicator/SP.DYN.TFRT.IN?locations=HG-HU

Malgrado le politiche di incremento della natalità messe in atto da Ungheria e Polonia, il dato generale del calo demografico non sembra subire incrementi positivi.
Se è vero infatti che quasi i tutti paesi, all’infuori dello Stato magiaro hanno indici di popolazione in crescita, è anche vero che, alla caduta del muro, una grandissima fetta di popolazione giovane lasciò la nazione di origine preferendo “cambiare paese che cambiare il proprio paese”.

«Invecchiamento della popolazione, bassi tassi di natalità e un interminabile flusso migratorio in uscita sono verosimilmente le principali fonti del panico demografico in Europa centro-orientale»
(I. Krastev – S. Holmes)

È da ricercare in questo “panico demografico” il paradosso che avvolge la profonda spaccatura che a partire dal 2015 ha diviso l’Unione Europea e i 4 di Visegrad che si opposero in blocco allo schema proposto dalla Commissione Europea per ridistribuire i profughi e i richiedenti asilo arrivati in Europa dal Mediterraneo.

A giustificazione di questa netta contrapposizione il rischio per il mantenimento dell’ordine pubblico e per la salvaguardia della sicurezza interna. Nell’aprile del 2020 è arrivata la condanna per inadempienza rispetto agli obblighi dettati dall’Unione da parte della Corte di Giustizia dell’Unione Europea. (Fonte: La Stampa, 2 aprile 2020)

Se in ambito europeo le giustificazioni non convincono, sul fronte interno richiami alla gloriosa storia di questi paesi caratterizzano la propaganda nazionalista. Tipici i riferimenti all’antica narrazione che riporta al vissuto profondo delle popolazioni centroeuropee.
Da sempre queste nazioni si considerano l’argine e il baluardo dell’Europa contro le minacce provenienti dall’(est)erno. E’ indimenticabile per questi paesi la sconfitta dell’Esercito Ottomano alle porte di Vienna, nel 1683, per mano del principe polacco Giovanni III Sobienski.
Un mito arricchitosi durante il periodo di dominazione sovietica in opposizione al totalitarismo comunista proveniente da est: il richiamo alla componente nazionalista era l’unico espediente in grado di tenere accesa la flebile fiamma di speranza in un’agognata indipendenza, per lunghi anni sferzata dai gelidi venti del regime sovietico.

Nel 1683 Giovanni III Sobienski ferma alle porte di Vienna l’avanzata dell’esercito Ottomano

Un modello di cultura identitaria e nazionale definita dal territorio d’appartenenza, dalla lingua, dalla cultura e dalla confessione religiosa che si spiega anche alla luce di un fatto recente. Alla fine della seconda guerra mondiale, uno dei criteri guida per nuovi assetti europei fu quello della “semplificazione etnica”, la migrazione forzata di popolazioni portò a stati nazionali omogenei dove fino a pochi anni prima esistevano varietà etnica e consistenti minoranze. Una tendenza che sarà confermata decenni più tardi dalla separazione tra Cechia e Slovacchia. È anche alla luce di ciò che l’abbandono delle nuove leve equivale a fumo negli occhi per i leader nazionalisti al governo.

In risposta al disamore dei figli per la propria patria si spiega la scelta di accogliere lavoratori e famiglie dall’est europeo ma di opporre la più strenua resistenza verso i migranti provenienti da sud, strumentalmente identificati con il fantasma dell’antica minaccia ottomana.
Partendo dalla situazione descritta, sono bastati pochi slogan ben confezionati da parte dei politici di turno e il riferimento a immaginarie “invasioni dell’Europa” per richiamare sentimenti identitari e nazionalisti, quando non apertamente xenofobi.

Jaroslav Kaczynski, ex presidente del consiglio polacco e leader di PIS ha detto che “i rifugiati portano con sé insetti e protozoi”.

Oggi lo sviluppo economico di questi stessi paesi si scontra con la mancanza di manodopera causata dall’emigrazione verso altri stati europei e dalla contemporanea chiusura all’ingresso di nuova forza lavoro dall’estero. Secondo i dati dell’Ufficio di Statistica Polacco (GUS), alla fine del 2017 c’erano circa 118.000 posti di lavoro scoperti.
Questo tema è stato taciuto dalla politica, almeno fino a quando «nel settembre 2018 il viceministro polacco per lo Sviluppo, Pawel Chorazy, s’è lasciato sfuggire che la Polonia ha bisogno dei migranti economici per mantenere la sua crescita economica e per questo è stato cacciato. Il primo ministro, Mateusz Morawiecki, ha detto che il viceministro “s’è spinto troppo in là”». (Fonte: Il Foglio, 2019)

In Ungheria, l’economia in più rapida crescita dell’UE, nel 2018 c’erano 49.500 permessi di lavoro detenuti da cittadini di paesi terzi, più del doppio rispetto all’anno precedente. Nel 2016 erano circa 7.300. Mentre gli ucraini ne detengono più della metà, vietnamiti, indiani e mongoli sono ora tra i gruppi che crescono più rapidamente. Nel 2019 la fabbrica di pneumatici coreana Hankook Tire ha ritardato un investimento di 295 milioni di dollari nella sua fabbrica in Ungheria a causa delle difficoltà nel reclutare dipendenti. Circa 200 dei suoi 3.000 lavoratori esistenti nello stabilimento provengono dall’Ucraina e dalla Mongolia.

In Polonia, squadre di donne di origine mongola dipingono palazzi di appartamenti di nuova costruzione a Varsavia. Nel 2018 la Polonia ha dato il permesso di lavoro a ventimila nepalesi, a ottomila cittadini del Bangladesh e ad altri ottomila indiani.

E’ quindi ben riassunto quello che è stato recentemente definito il “paradosso di Visegrad”: la natalità troppo scarsa non compensa il fatto che tre milioni di cittadini si sono spostati a lavorare in altri paesi più ricchi nella parte occidentale dell’Unione Europea, grazie alla libertà di circolazione garantita dall’Unione Europea.
I soldi che questi emigrati spediscono a casa sono così tanti da rappresentare una percentuale importante del prodotto interno lordo (il 3,3 per cento nel 2017 per l’Ungheria, fonte Banca mondiale).
Ecco dunque che anche i partiti saliti al potere utilizzando l’immagine propagandistica dell’ “invasione” dell’Europa sono costretti ad ammettere che hanno bisogno di immigrati, di molti immigrati per continuare a sviluppare le proprie economie.
La situazione è in continua evoluzione, ma il problema è lontano da una soluzione, tanto che «la Polonia s’è presa due milioni di lavoratori stranieri tra il 2017 e il 2019, che è la migrazione più grande nella storia dell’Unione Europea» (fonte: Wall Street Journal)

Mateusz Morawiecki, Andrej Babis e Viktor Orban, rispettivamente presidente del consiglio Polacco, Ceco e Ungherese.

Si tratta di una realtà che non può più essere occultata e che porta alla luce un aspetto preoccupante quanto evidente: i paesi di Visegrád hanno tentato di mantenere l’immigrazione il più possibile bianca e cristiana ricorrendo a ucraini e bielorussi.

Se Ungheria e Polonia sono contrarie agli accordi di ripartizione con gli altri paesi europei ma attuano politiche di questo tipo i casi possibili possono essere solo la discriminazione razziale, dato che rifiutano la quota stabilita dalla UE di africani e arabi (ma ovviamente “non vogliamo immigrati” è uno slogan socialmente più accettabile di “non vogliamo neri”) o la discriminazione religiosa, dato che rifiutano rifugiati e richiedenti asilo in maggioranza musulmani (in questo caso sarebbe interessante capire se esiste una “selezione” tra gli immigrati dall’India, dove il 15% circa della popolazione crede nell’Islam).
Un’ultima ipotesi, peraltro complementare alle precedenti, riguarda l’utilizzo strumentale a fini propagandistici della conflittualità con la UE  su un tema la cui non risoluzione ha portato, negli anni recenti, abbondanti vantaggi ai partiti populisti di destra.

Sono sicuramente posizioni in aperta contrapposizione con i valori dell’Unione sanciti dai Trattati. La questione migranti è uno dei temi che più di altri crea dibattito e scontri nel panorama europeo e mondiale.
Una sfida per l’Europa da affrontare, senza farsi prendere dal panico.

Fonti

  • I.Krastev, S. Holmes (2020) – La rivolta anti liberale. Come l’occidente sta perdendo la battaglia per la democrazia, Mondadori, Milano
  • Wall street journal (https://www.wsj.com/articles/turning-muslims-away-poland-welcomes-ukrainians-11553598000)
  • La Stampa (https://www.lastampa.it/esteri/2020/04/02/news/migranti-i-paesi-del-blocco-di-visegrad-hanno-violato-le-norme-ue-1.38669105)
  • Il Foglio (https://www.ilfoglio.it/esteri/2019/09/25/news/il-segreto-di-visegrad-276181/)

Ho 27 anni, una laurea triennale in storia e sto finendo il mio percorso accademico all’Università degli Studi di Milano, dove studio relazioni internazionali. La musica ha sempre fatto parte della mia vita: suono il pianoforte dall’età di 8 anni e strimpello la chitarra da quando ne avevo 14, età in cui tutti ci sentiamo delle rock star. Amo viaggiare, al punto da aver fatto l'Erasmus in Turchia e in Repubblica Ceca.  Sono pigro e adoro perdere tempo per poi essere assalito dai sensi di colpa. Scrivere di musica è per me una bella sfida e un'occasione di mettermi alla prova.

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