Volevamo solo un po’ di calcio

Fin da inizio giugno, quando la UEFA ha annunciato ufficialmente le final eight di Champions ed Europa League da disputare a Lisbona e Colonia, abbiamo provato a riempire questa scelta, inedita e per certi versi disorientante, con una marea di significati diversi. Saranno le prove generali della futura Superlega, diceva qualcuno; in tre gare secche, potrà vincere chiunque, opinavano altri. Poi c’erano quelli che, tra formula sperimentale e tifosi assenti, riuscivano a vederci soltanto calcio business e un tentativo senza senso per non perdere una stagione europea.

Ne abbiamo pensate e dette tante, prima che queste coppe iniziassero. Ma già dal primo quarto di finale, finito per l’Atalanta con un dramma sportivo che di finto aveva davvero poco, abbiamo analizzato sempre di meno e ci siamo goduti il gioco sempre di più. Alcuni lo hanno fatto talmente tanto che, con la giravolta più tipica dell’appassionato di calcio, sono arrivati a dipingere una nuova realtà addirittura più bella di quella precedente. Il tifo sugli spalti di cui, serve ricordarlo, non si poteva fare a meno, è finito presto in secondo piano e la sua assenza non ha rovinato una Champions che, anzi, sembrava così spettacolare da pensare di replicarne le circostanze eccezionali anche nei prossimi anni. Ma ovviamente, niente di tutto ciò era vero.

Sia chiaro, chi si è emozionato guardando Lione e Lipsia (sì, la Red Bull, i soldi, lo sappiamo…) mettere la realtà sottosopra più di quanto non lo fosse già, lo ha fatto con tutte le ragioni del mondo. Chiedete ad esempio a un tifoso del Barça se gli otto goal presi dal Bayern bruciano di meno perché arrivati quest’anno, in una Champions “strizzata” per trovare un nome da scrivere sull’albo d’oro. Da qui, però, a definire queste gare più spettacolari di distanza ce ne passa. Oltre che essere «esibizione artistica che si svolge davanti a un pubblico di spettatori appositamente convenuto», lo spettacolo stesso è anche «vista straordinaria, che colpisce per l’insolita bellezza o per altra particolarità, o, al contrario, impressiona e suscita orrore». Come si può affermare che, anche in assenza di pubblico, non ci saremmo impressionati e emozionati ugualmente con il pathos dei turni decisivi spalmati su due partite, con 180’ spezzati a metà da una pausa che può affondare o ridare vita, in vista di una secondo match che non è altro che la seconda chance che tutti vorremmo sempre nella vita. L’orrore che avremmo provato a vedere il City provare euforia e avvilimento nello spazio di pochi secondi, all’ultimo minuto di una semifinale che avrebbe potuto cambiare una storia, vale esattamente quello che ci ha riempito osservando il sogno di Bergamo spezzarsi in quel modo.

Purtroppo la necessità di trovare una narrativa ci imprigiona spesso in confronti con poco senso, nascondendoci un’essenza dalla quale, invece, dovremmo essere attratti. Volevamo soltanto che si riprendesse a giocare a calcio, per ritrovare le emozioni che una partita di calcio può dare a prescindere dalla sua durata e, ahinoi, anche dalla presenza del pubblico. Non perché questo non conti, ma perché anche questo, come i giocatori, è lì per un’altra cosa: il gioco.

In un articolo pubblicato sul New York Times, Rory Smith spiega che “in fondo, non facciamo altro che raccontarci una bugia, della quale sono complici giocatori, allenatori e dirigenti. È una bugia innocua, confortante e gentile, che ci raccontiamo per scusare e spiegare la nostra passione, per trasformare la nostra impotenza in rappresentanza, per farci sentire come se il nostro amore fosse ricambiato. Potrebbe essere una bugia che contiene una forma di verità. Sicuramente è una bugia che viene vissuta da gente incapace di riconoscerla.
È il fatto di credere che i giocatori giochino per i tifosi, per noi – di non essere meri osservatori degli eventi che si svolgono in campo, bensì il loro fine e la loro ispirazione”.

Quest’anno più che mai abbiamo visto traballare questa certezza, peraltro subito dopo averla ribadita a gran voce, nel momento in cui ci si chiedeva come il calcio potesse ripartire. Ed è paradossale che, in un certo senso, il fatto che sia ripartito “senza” di noi ci abbia permesso di riscoprirne il lato più semplice, vera radice della passione. Non significa girare lo sguardo di fronte agli interessi e all’urgenza di trovare un modo per salvare il salvabile. Non si tratta nemmeno di voler smentire il fatto che, senza tifosi, il calcio perda qualcosa. È ovvio che sia così e “non dovrebbe neanche esserci il bisogno di dirlo”, come afferma anche Rory Smith, ma allo stesso tempo siamo riusciti a trovare una ragione (la più importante?) per continuare a goderci uno spettacolo al quale pensavamo di essere pronti a rinunciare a queste condizioni.

È la stessa passione per il gioco che, se vogliamo, può farci sentire meglio anche dinnanzi a quella che potrebbe sembrare una duplice spinta egoistica. I giocatori, dicevamo, possono scendere in campo, lottare, gioire e disperare anche non accompagnati dal nostro sguardo. Non solo: possono farlo in modo così autentico da farci dimenticare di essere stati capaci di ritenere noi stessi la componente fondamentale. D’altro canto, a pochi giorni dal termine di una stagione infinita – e se lo è stata per noi, pensate per loro -, non siamo qui a domandarci in quali condizioni fisiche e mentali il calcio potrà ripartire, provando a trovare la preparazione, la concentrazione e la motivazione richieste da ogni obiettivo sportivo dentro lo stesso mare di incertezza e di decisioni improvvisate. Non ci interroghiamo forse perché, sotto sotto, non ci interessa così tanto. L’importante è che si ricominci a giocare.

Le lingue come chiavi per aprire nuovi mondi, il giornalismo come mezzo per raccontarli. Milanese di nascita con un po' di Brasile nel sangue, credo che nulla di tutto ciò che accade su un campo riguardi solamente lo sport: la mia missione è scoprirlo, comprenderlo e portarlo ai lettori. Nel mio mondo ideale vorrei sentire Gianni Brera raccontare di Messi e Cristiano Ronaldo.

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