Boss is the USA

E' una colonna portante del rock marcato USA: il suo nome è Bruce Springsteen.
Una settimana fa è uscita la sua ultima opera, composta in cinque giorni nello studio della sua casa a Colts Neck, assieme all'inseparabile E Street Band: "Letter to you", un altro capolavoro, il ventesimo del Boss.
La storia e la sensibilità di un artista strettamente legato all'ambiente da cui proviene, un profondo conoscitore dei lati più nascosti del Paese a stelle e strisce.
Attraverso i suoi testi Bruce Springsteen ci ha condotto in un viaggio avventuroso, ma ci ha anche illustrato le difficoltà di quelli che non hanno mai trovato la loro Promised Land.
Per loro, per gli ultimi, per i dimenticati, per quelli che lottano ogni giorno, ci sarà sempre una voce a dare conforto: la voce del Boss.


Nato in una città di uomini morti, il primo calcio che ho preso è stato quando sono caduto a terra.

Finisci come un cane che è stato picchiato troppo finché non passi metà della tua vita a coprirti.

Born in The usa

Bruce Springsteen è la rockstar più rappresentativa del panorama statunitense.
Non lo è da qualche giorno né da qualche anno. Lo è da quando è nato, era destinato a diventarlo. La sua stella intramontabile potrebbe trovare posto insieme alle altre cinquanta sul bandierone americano che garrisce al vento dell’ovest in una qualsiasi villetta del Nebraska.

Se cercate il prototipo dell’eroe americano, il “self-made man” venuto dal nulla che, con umiltà e abnegazione, è arrivato dove voleva arrivare, non avete che da guardare il suo faccione nella copertina del suo nuovo album “Letter to you”, composto con l’inseparabile E Street Band: un altro meraviglioso pezzo da collezione da aggiungere nella vostra teca personale sotto la S di Springsteen.

Primo piano del “Boss” nel suo ultimo lavoro in studio: “Letter to you”

Il Boss è uomo della working class, uno che la sua carriera se l’è costruita passo dopo passo, a costo di sudore e sacrifici: la sua prima chitarra se l’è pagata con i soldi messi da parte dai lavoretti che gli capitavano sotto mano.

Un artista intrinsecamente americano e pienamente fiero del suo status: Springsteen è il vicino di casa che ognuno vorrebbe, l’amico da chiamare quando sei giù, uno a cui l’enorme successo non ha dato alla testa.
Si dice che, dopo i fatti dell’ 11 settembre 2001, l’artista stesse girando nella sua macchina quando un ragazzo lo riconobbe e gli urlò: “We need you” (“abbiamo bisogno di te”). Senza pensarci due volte il Boss comprese la necessità di un’ America scossa dalla tragedia di ritrovarsi nei suoi artisti di riferimento: nel giro di un anno, insieme alla E Street Band, diede alle stampe “The Rising” (“La rinascita”), uno dei suoi migliori lavori di sempre.

The Rising: Traccia che dà il nome all’album del 2002

Ascoltando le sue canzoni si percepisce l’attaccamento e la conoscenza profonda della sua amata terra natale; seguendo i testi si è in grado di costruire una mappa dettagliata del paese a stelle e strisce.
Numerosissimi i riferimenti a luoghi fisici:

Su una superstrada sinuosa come un serpente a sonagli nel deserto dello Utah
Prendo i soldi e torno in città

Promised Land

Oh fratello, mi lascerai deperire? Per le strade di Filadelfia?

Streets of Philadephia

Dalla città di Lincoln nel Nebraska con un fucile a canne mozze 410 sulle mie ginocchia
Attraverso le terre selvagge del Wyoming ho ucciso tutto sul mio cammino

Nebraska

L’elenco potrebbe continuare a lungo.
Del resto, parliamoci chiaro: quanto cazzo gasa ascoltare il Boss mentre si è al volante?
Non esiste viaggio che non meriti una canzone di Springsteen mentre si imbocca l’entrata in autostrada.
Le sue canzoni riescono a trasmetterci quel senso di avventura che spingeva le generazioni cresciute nel mito americano a intraprendere quei “coast to coast” diventati cult grazie a pellicole celebri (Easy Rider su tutte) e riferimenti letterari: “On the Road” di Kerouac, capolavoro della letteratura statunitense.
Quella voglia di viaggiare che può giungere in qualsiasi momento perché è sempre tempo di lasciare tutto e partire:

Stavo cercando di trovare la strada di casa ma tutto quello che ho sentito è stato un ronzio rimbalzare su un satellite squarciando la solitudine di una notte americana

Radio Nowhere
Radio Nowhere, forse la migliore traccia dell’album “Magic” del 2007.

La vera grandezza del Boss sta nell’essersi inserito appieno, attraverso i testi delle sue meravigliose canzoni, in quello che è uno dei macro temi della letteratura statunitense: il viaggio appunto. E non soltanto un viaggio inteso come volontà di avventura che ci coglie negli anni più belli, ma anche il viaggio di quegli ultimi della fila sacrificabili in nome dell'”American way of life” e impossibilitati a cogliere l'”American dream”.

In un panorama artistico contemporaneo fatto di musica trap e ragazzetti dell’ultima ora che ci rinfacciano quanti soldi abbiano fatto dopo aver cominciato a scrivere due rime, ci piace parlare di un artista che ha passato la sua carriera a cantare i dimenticati, quelli che non ce l’hanno fatta.
Il Boss piace perché è vero, piace perché dalla sua faccia pulita emergono i tratti di un’anima sinceramente impegnata: non si spiega altrimenti l’enorme successo che lo accompagna da quando ha cominciato a solcare i palchi di tutto il mondo.

I suoi meravigliosi testi hanno dato voce a quella parte d’America nascosta “in the darkness of the edge of town” (“nell’oscurità ai confini della città”), nel buio che separa i lampioni delle interminabili highways che percorrono come arterie il Paese a stelle e strisce. Il viaggio di coloro che sono nati per correre, di tutti quelli che non hanno nulla di facile, di tutti coloro che si devono guadagnare ogni centimetro per la sopravvivenza

Oh piccola, questa città ti strappa le ossa dalla schiena è una trappola mortale, è un rap suicida.
Dobbiamo andarcene finché siamo giovani perché i vagabondi come noi, piccola, sono nati per correre

Born to run

Un tipo di viaggio diverso, dunque, che trova la sua massima espressione in un altro riferimento letterario imprescindibile della cultura statunitense: “The grapes of wrath”, “Furore” nella traduzione italiana, capolavoro assoluto di John Steinbeck.

Non è un caso che tra i lavori di Springsteen compaia un album che è interamente dedicato all’opera e ripercorre la vita del suo protagonista, Tom Joad.
Un giovane che, insieme alla sua famiglia, è costretto dalla Grande Depressione a migrare e attraversare gli States da parte a parte, in cerca di quella “promised land” (terra promessa) in grado di garantire un avvenire decoroso a una famiglia in cerca di riscatto.

Per intere generazioni di ragazzi cresciuti tra gli anni 70′ e 80′ il Boss ha rappresentato speranza e fonte di ispirazione.
Un canto lungo anni dedicato a tutti coloro che non si rassegnano a mettere da parte i propri sogni e sperano in un futuro migliore: una musica che giunge in ogni dove e come una mano invisibile ti afferra, ti dà una pacca sulla spalla e ti rimette sulle tue gambe. Testi che ti danno la spinta per andare avanti.

Alcuni ragazzi smettono di vivere e iniziano a morire a poco a poco, pezzo dopo pezzo, Alcuni ragazzi tornano a casa dal lavoro e si lavano, e vanno a correre per strada.

Racing in the street

In “Blinded by the light”, film del 2019 diretto da Gurinder Chadha, Javed è un ragazzo pakistano che vive nell’ Inghilterra di Margaret Thatcher.
Cresciuto in un contesto di discriminazione e soffocato da una famiglia tradizionalista che cerca in tutti i modi di tarpargli le ali e soffocare il suo sogno, Javed rimane folgorato dalle canzoni di Bruce Springsteen che saranno per lui la maniera per emanciparsi dalla sua famiglia, affrontare la dura realtà di un piccolo paese inglese di metà anni ’80 e realizzare il suo desiderio di diventare scrittore.

Blinded by the light

Un artista impegnato il Boss, non la classica rockstar dalla vita sgangherata e al limite.
Tutti meriterebbero, almeno una volta nella vita, di assistere a un concerto del Boss: mai sotto le 3 ore filate, a volte anche di più, nessuna interruzione, nessun attimo di pausa.
Una scarica di adrenalina incredibile: ve lo dice uno che nel 2008 era a San Siro completamente assuefatto da quella figura sul palco che sembrava non voler smettere mai.

Un cantore del Paese a stelle strisce, descritto in tutta la sua bellezza e in tutte le sue contraddizioni. Un cittadino statunitense pienamente coinvolto nel clima politico che lo circonda.
Springsteen ha sempre fatto sentire la sua voce contro le ingiustizie del suo paese e strigliando con la sua sincerità sferzante i politici che lo hanno governato: era in campo per contrastare la politica di Bush nel 2004 ed è ancora attivo nel far sentire la sua voce contro le politiche di Donald Trump. In molti hanno già letto in una delle tracce del nuovo album un chiaro riferimento alla poca simpatia del Boss per il presidente:

Il pagliaccio criminale ha rubato il trono.
Ha rubato quello che non gli può mai appartenere.

House of a thousand guitars


In piena coerenza con il suo ruolo di paladino degli ultimi, in un concerto di qualche mese fa, decideva di sospendere l’esibizione e dedicare un pensiero al trattamento dedicato da The Donald alle famiglie di immigrati messicani irregolari:

“Per 146 concerti, ho suonato lo stesso set ogni singola sera. Quello di oggi necessita di qualcosa di differente”.
Parole che arrivavano, guarda caso, prima di suonare The Ghost Of Tom Joad, dove troviamo queste meravigliose parole:

“Ovunque trovi un neonato che piange per la fame
dove ci sia nell’aria la voglia di lottare contro il sangue e l’odio
cercami, mamma, io sarò lì
ovunque trovi qualcuno che combatte per un posto dove vivere
o un lavoro dignitoso, un aiuto,
ovunque trovi qualcuno che lotta per essere libero, 
guarda nei loro occhi, mamma, vedrai me.”

Non è mancato neanche il suo appoggio al movimento “Black Lives matter”, nato in contrapposizione alla violenza gratuita perpetrata dagli agenti di polizia nei confronti dei cittadini afro-americani:

“Io penso che ci sia moltissima positività in giro. Ad esempio, il movimento Black Lives Matter è un movimento molto positivo, pacifico nella sua maggioranza, quando evolve verso la violenza non è un bene per nessuno […].
Ed è stato salutare in questo momento storico, perché ha riacceso la battaglia per i diritti civili negli Stati Uniti e l’ha spinta verso una direzione più umana”.

Come un eroe dei fumetti, un paladino della provvidenza nel Paese a cui la provvidenza ha riservato il ruolo di guida mondiale, il Boss torna con “Letter to you” a infiammare i cuori dei fans in un momento cruciale per il futuro americano.
Tra pochi giorni i cittadini statunitensi voteranno il presidente che dovrà guidarli per i prossimi 4 anni.
Non sappiamo chi vincerà e non osiamo spingerci in previsioni.
Quello che speriamo è che un conoscitore della realtà americana profonda, uno spirito così strettamente legato alla sua terra e innamorato di tutti i suoi pregi e contradizioni, un eroe americano in tutto e per tutto, un pensierino alla candidatura lo faccia.

Del resto Boss, ce lo hai insegnato tu, sognare è la cosa più importante che c’è.
Se ti va, noi un’idea sullo slogan ce l’abbiamo già:

“Boss in the USA” o, se preferite “Boss is the USA”.

Video ufficiale della traccia più famosa del Boss: “Born in the USA”

Ho 27 anni, una laurea triennale in storia e sto finendo il mio percorso accademico all’Università degli Studi di Milano, dove studio relazioni internazionali. La musica ha sempre fatto parte della mia vita: suono il pianoforte dall’età di 8 anni e strimpello la chitarra da quando ne avevo 14, età in cui tutti ci sentiamo delle rock star. Amo viaggiare, al punto da aver fatto l'Erasmus in Turchia e in Repubblica Ceca.  Sono pigro e adoro perdere tempo per poi essere assalito dai sensi di colpa. Scrivere di musica è per me una bella sfida e un'occasione di mettermi alla prova.

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