Da Sheikh Jarrah a Gaza continua l’escalation di violenza

Sono proseguiti nella mattinata di martedì i bombardamenti israeliani verso la Striscia di Gaza iniziati lunedì sera in risposta al lancio di razzi di Hamas verso la città di Gerusalemme. La situazione è molto tesa e il rischio di un’ulteriore escalation è concreto. Secondo il ministero della salute palestinese sono 27 i morti a Gaza, di cui 17 bambini. Ora più che mai da parte della comunità internazionale, e in particolare da Stati Uniti e Unione Europea, ci si aspetta una ferma condanna nei confronti della condotta israeliana.

I bombardamenti si inseriscono all’interno di una situazione che nell’ultima settimana ha visto un continuo aumento della tensione e del clima di violenza. Dallo scorso 13 aprile è in corso il tentativo dei coloni israeliani di allontanare diverse famiglie palestinesi dalle abitazioni in cui vivono nel quartiere Sheikh Jarrah, a Gerusalemme Est. In base al diritto internazionale, dal 1967 e dalla Guerra dei 6 giorni, Gerusalemme Est è un territorio occupato militarmente dalle forze israeliane. Le pretese israeliane sulle abitazioni a Sheikh Jarrah si basano sul fatto che, prima del 1948, il quartiere era abitato da cittadini ebrei che, dopo il conflitto scoppiato in seguito alla proclamazione dello stato di Israele, sono stati allontanati dalle proprie abitazioni. A partire dal 1956 diverse famiglie di profughi palestinesi si sono riversate nel quartiere, che era allora sotto il controllo della Giordania e che deve il proprio nome al medico personale di Saladino (Jarrah significa infatti guaritore in arabo) che si dice sia stato sepolto in quell’area. Le abitazioni sono state costruite da UNRWA per famiglie palestinesi sfollate 8 anni prima dalle loro case nelle città costiere di Haifa e Yafa.

La violenta repressione delle forze israeliane nei confronti di un manifestante a Sheikh Jarrah. (fonte Qudsnen)

Dal 1967 Israele controlla militarmente Gerusalemme Est, e la vicenda di Sheikh Jarrah non è che l’ennesimo tentativo delle forze di occupazione di aumentare la propria presenza sul territorio. Utilizzando la legge del 1970 che permette agli ebrei di tornare nelle case in cui abitavano prima del 1948, dunque, lo stato di Israele cerca di rendere politicamente impossibile la creazione di uno Stato palestinese con Gerusalemme come capitale. Lo stesso vicesindaco di Gerusalemme Aryeh King ha dichiarato apertamente in un’intervista al NY Times come la battaglia legale portata avanti da Israele attraverso l’organizzazione religiosa Nahalat Shimon (che dagli anni ’90 è il proprietario nominale delle abitazioni del quartiere) fa parte di una più ampia campagna che ha lo scopo di “circondare di stati ebrei” Gerusalemme Est.

Nella giornata di lunedì la Corte suprema israeliana ha comunicato il rinvio della decisione definitiva sulle abitazione di Sheikh Jarrah. In base al diritto internazionale, tuttavia, il sistema giudiziario internazionale non ha alcuna autorità sui territori occupati. Le proteste palestinesi nei confronti del tentativo di sfratto fanno parte, di fatto, della resistenza nei confronti dell’occupazione israeliana. Le forze israeliana hanno usato violenza e brutalità nei confronti dei palestinesi, e la situazione è progressivamente degenerata per diventare tesissima nell’ultima settimana.

Parallelamente alla vicenda di Sheikh Jarrah negli ultimi giorni si sono intensificati i raid israeliani sulla spianata delle moschee, che hanno raggiunto l’apice in coincidenza con il Laylat al Qadr, una delle notti sacre del Ramadan. Secondo la Mezzaluna rossa sono stati diverse centinaia i palestinesi feriti in diversi giorni di violenza e repressione da parte delle forze israeliane che sono arrivate ad utilizzare gas lacrimogeni e granate nelle moschee di Al Aqsa e Al Quibly. Nella mattinata di ieri la polizia israeliana ha fatto irruzione all’alba nella moschea di Al Aqsa. Si temeva molto la giornata di lunedì per via della “Marcia delle Bandiere” che celebra la conquista militare di Gerusalemme Est da parte di Israele. Il percorso della marcia era stato modificato e per evitare un ulteriore aumento della tensione nella città si è deciso di non passare per la Porta di Damasco. La decisione era stata vissuta come una vittoria dai manifestanti palestinesi, che da giorni cercano di resistere al tentativo di Israele di stabilire il proprio controllo sulla totalità della città di Gerusalemme.

Fonte Qudsnen

Hamas e Jihad hanno tenuto fede all’ultimatum mandato la sera prima per il ritiro delle forze israeliane a Sheikh Jarrah e Al Aqsa, e così a pochi minuti dall’annuncio della modifica del percorso della “Marcia delle Bandiere” i festeggiamenti palestinesi sono stati interrotti dalle sirene alla Porta di Damasco e diversi razzi sono stati lanciati da Gaza verso Gerusalemme. Israele ha risposto, come sempre, con bombardamenti indiscriminati su Gaza. Il conteggio di morti e feriti è chiaramente ancora da verificare, mentre i danni dei razzi sulla città di Gerusalemme sono di lieve entità. Da parte sua, Israele non si è riconosciuta responsabile delle morti a Gaza e Netanyahu si è detto pronto ad agire con grande potenza e ha affermato “Hamas pagherà un duro prezzo”.

Erano diversi anni che la situazione in Terra Santa non era così tesa. L’escalation degli ultimi giorni si inserisce in un momento decisamente particolare sia per i palestinesi che per lo stato di Israele. Risale infatti a poco più di una settimana fa la decisione di Mahmoud Abbas di rinviare le elezioni che, in tre diverse tornare tra il 22 maggio e fine agosto, avrebbero dovuto portare alla nomina di un nuovo Parlamento palestinese, un nuovo presidente dell’ANP e un nuovo parlamento dell’OLP. Il rinvio è stato giustificato dal vecchio leader con il mancato riconoscimento del diritto di voto, da parte delle autorità israeliane, ai cittadini palestinesi di Gerusalemme Est. La verità, come è chiaro a tutti, è ben diversa, e la decisione di Abbas va ricondotta alla paura di perdere la propria posizione di leadership. La prospettiva di un successo di Hamas alle elezioni parlamentari e del “Mandela palestinese” Marwan Barghuti a quelle presidenziali era infatti mal vista da Abu Mazen che sperava nel consolidamento della propria posizione e in una vittoria di Fatah. L’annuncio era nell’aria e le voci di un rinvio avevano iniziato a circolare proprio quando era apparso chiaro che Fatah non sarebbe riuscita a vincere le elezioni.

Migliaia di persone in piazza a Gaza con le bandiere di Hamas dopo il rinvio delle elezioni. (fonte Qudsnen)

Sul fronte opposto, in Israele si è votato lo scorso 23 marzo, per la quarta volta in due anni, per eleggere i membri della Knesset e cercare di dare vita a un nuovo governo dopo che l’improbabile alleanza tra Netanyahu e Benny Gantz si era arenata sull’approvazione della legge di bilancio. Ancora una volta il sistema perfettamente proporzionale su cui si basa la legge elettorale israeliana non ha permesso di determinare una chiara maggioranza, e il mandato di Netanyahu di cercare di formare un nuovo governo è scaduto dopo 28 giorni in cui il premier più longevo della storia dello stato sionista non è stato in grado di raggiungere i 61 seggi necessari per governare. Il presidente Rivlin (il cui mandato, non rinnovabile, scade a luglio di quest’anno) ha così incaricato Yair Lapid, leader di Yes Atid, di formare un nuovo governo, ma la prospettiva di una nuova tornata elettorale non è da escludere.

Il dato che aveva destato maggiore preoccupazione, al di là dell’estrema instabilità della situazione, era stato l’ingresso nella Knesset di Potere ebraico, la coalizione di partiti di estrema destra xenofoba alla cui guida c’è l’inquietante figura di Itamar Ben-Gvir, condannato in passato per istigazione alla violenza e noto anche per la militanza nel movimento Kach e per essere un sostenitore di Baruch Goldstein, il medico israeliano che nel 1994 uccise 29 palestinesi in preghiera in una moschea di Hebron. Tra le altre cose, Ben-Gvir è stato visto discutere con dei palestinesi durante le proteste a Sheikh Jarrah degli ultimi giorni.

L’incertezza politica rende sicuramente ancora più preoccupante la situazione. Se da un lato la retorica nazionalista può essere un fattore di riavvicinamento per le forze politiche israeliane, sull’altro fronte le proteste dei movimenti popolari palestinesi degli ultimi giorni avevano avuto una forte risonanza mediatica e avevano avuto (fermo restando la tragicità della situazione) il merito di riportare l’attenzione internazionale su una questione che negli ultimi anni è progressivamente scivolata ai margini, complici lo scoppio delle primavere arabe e l’avvicinamento diplomatico tra Israele e diversi paesi arabi.

Biden si è esposto senza troppa fermezza esprimendo la propria preoccupazione per la situazione. Da parte di molti esponenti democratici (Alexandria Ocasio-Cortez, Bernie Sanders e Elizabeth Warren su tutti) la presa di posizione sulla situazione a Gerusalemme è stata ben più netta e la speranza è che lo spostamento dell’asse del Partito democratico verso posizioni più progressiste possa riflettersi anche nel modo in cui verrà gestita la crisi in corso. Di fronte al mancato rispetto delle numerosi risoluzioni adottate dalle Nazioni Unite nei confronti dello stato sionista, sarebbe forse il momento di prendere in considerazione l’utilizzo di sanzioni da applicare nei confronti di Israele. Come troppo spesso accade, la scelta dell’Unione Europea di adottare una posizione super partes, limitandosi a condannare genericamente la violenza in corso, non fa altro che tradursi nella tutela del più forte e mette ancora una volta in luce l’attuale completa inconsistenza della politica estera dell’Unione. Nella giornata di martedì da parte del portavoce dell’Alto rappresentante UE Josep Borrel è stato mandato un appello “per una de-escalation e per un rilancio dei negoziati di pace”.

E’ passato meno di un mese dalla pubblicazione del rapporto con cui HRW accusa Israele di praticare l’apartheid. Il rischio, ora, è che il già timido appoggio dimostrato negli scorsi giorni dai paesi occidentali nei confronti della popolazione palestinese si perda definitivamente di fronte al lancio dei razzi di Hamas. Chi paga il conto peggiore sono ancora una volta i 2 milioni di persone rinchiuse in una striscia di terra dimenticata dal mondo.

Classe 1989. Ho studiato scienze politiche e cooperazione internazionale. Appassionato di montagna e di sport, seguo e studio la realtà mediorientale

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