Dieci anni di cinema (2010-2019)

Il 31 dicembre 2009 la Disney aveva annunciato l’acquisizione della Marvel, di fatto preparando il terreno di ciò che sarebbe stato il decennio seguente. Sì, perché a 2010 scoccato il “Marvel Cinematic Universe” era appena abbozzato e Netflix, nome sconosciuto dalle nostre parti, aveva ultimato da un paio d’anni il suo passaggio da compagnia che noleggiava dvd e dischi musicali a servizio di streaming on demand. Il Blockbuster era ancora attivo e nelle sale il 3D viveva il suo momento d’oro. 

Parlare del decennio di cinema ormai concluso significa anche parlare dei grandi cambiamenti strutturali e di fruizione che hanno coinvolto le grandi major da una parte e gli spettatori dall’altra; cambiamenti che hanno influito non solo sulle modalità attraverso cui oggi si vive il cinema ma anche sui contenuti e sul modo in cui si fa cinema. Questo speciale vuole offrire una breve panoramica del cinema del decennio che è stato, attraverso non solo i suoi autori ma anche il suo graduale cambio di pelle, un mutamento che ha segnato gli anni ’10, ma che potrebbe delineare l’orizzonte degli anni a venire. 

La chiusura per fallimento nel 2013 di Blockbuster è forse il simbolo del cambio di fruizione del cinema in questo decennio.
(immagine: goingdigital.in)

L’ascesa del colosso Disney

Si era appena stappato lo champagne per l’acquisizione della Marvel che si profilava un nuovo brindisi per l’inizio degli anni ’10. Robert Iger, amministratore delegato della Disney dal 2005, si era già portato a casa la Pixar nel 2006. Certo nessuno avrebbe pensato che  fosse solo la punta dell’iceberg di un più ampio progetto di espansione. Dopo la Marvel, nel 2012 arriva l’annuncio dell’acquisizione della LucasFilm, un evento epocale che porta a far convivere i personaggi di Star Wars e la banda di Topolino sotto lo stesso tetto. Poi, l’ennesimo grande botto nel 2017, quando viene trovato l’accordo per l’acquisizione della 21st Century Fox per la cifra esorbitante di 71 miliardi di dollari. Una famiglia affollata, ormai, con I Simpson (e non solo) che si aggiungono alla lista dei brand in mano alla Disney. 

Robert “Bob” Iger.

La ricaduta pratica di questo processo ha diversi nomi, che hanno caratterizzato il cinema degli anni ’10: cinecomics, sequel e remake. Il progetto dell’Universo Marvel, con film di fatto serializzati, i remake live action dei classici Disney e la rinascita di brand come Star Wars hanno influenzato massivamente il panorama dell’intrattenimento cinematografico; con incassi da minimo un miliardo di dollari a film e il picco di Avengers: Endgame che sfiora il tetto dei 3 miliardi di dollari superando Avatar e diventando il maggior incasso della storia del cinema (senza tener conto dell’inflazione), la Disney ha di fatto istituzionalizzato una pratica vincente, quella di fidelizzare il pubblico al cinema, offrendo prodotti serializzati e dai contenuti “controllati” e standardizzati. Un trend che non a caso è stato preso come esempio da altre case cinematografiche: basti pensare all’ondata di sequel, prequel, newquel e remake finiti sul grande schermo negli ultimi anni. Provate a scorrere i maggiori incassi a livello internazionale dal 2010 a oggi e controllate quanti titoli sono della Disney, o sequel o remake di brand già conosciuti. Vado al cinema e so cosa aspettarmi.

I “cinecomics” sono stati il fenomeno del decennio, e il trend sembra non dare segnali di arresto anche per i prossimi anni. (immagine: cinematographe.it)

La vera domanda è se questa tendenza possa caratterizzare anche il prossimo decennio di film. Questo meccanismo può tenere botta anche negli anni ’20? Viste le premesse e i titoli annunciati dalla Disney fino al 2027, almeno nelle intenzioni la risposta sembra affermativa: prepariamoci a due nuove fasi del Marvel Cinematic Universe, a una nuova trilogia di Star Wars, a un altro film dei Simpson e a 4 – quattro – film di Avatar. Già, perché Avatar è della Disney. 

Al di là di considerazioni personali su qualità e bontà di progetti del genere, l’avvento della serialità al cinema, con programmazioni a lungo termine, e di fenomeni di ibridazione tra i due mondi è anche una conseguenza del mutato panorama dell’intrattenimento. E all’entrata in scena di un personaggio che ha giocato un ruolo non da poco nel cambiamento dell’industria: Netflix.

Un decennio seriale

È il 2011 quando Netflix annuncia la sua prima serie prodotta, House of Cards. Prima di tante, la produzione originale Netflix ha avuto un peso via via sempre maggiore nel panorama non solo seriale ma anche cinematografico, ed è andato incontro a forme ibride, che hanno caratterizzato la serialità (e non solo) della piattaforma di streaming più conosciuta al mondo. Basti pensare al fenomeno delle miniserie e delle serie antologiche, da True Detective ad American Horror Story, con storie autoconclusive per ogni stagione e un numero limitato e definito di episodi; o a casi ancora più particolari come Black Mirror, con puntate autoconclusive – di fatto, veri e propri film – poste sotto uno stesso contenitore. 

La prima stagione di “True Detective” ha segnato un momento importante per il futuro delle serie antologiche.
(immagine: hardwoodandhollywood.com)

Il cinema va verso la serialità e la serialità va verso il cinema. Non solo, lo streaming va incontro ai film. L’apertura di Netflix al cinema causa un vero e proprio terremoto nell’industria. Film che usciranno in contemporanea nelle sale e su una piattaforma di streaming? O peggio ancora, che al cinema passeranno per un paio di giorni o non ci passeranno per niente?  Se poi gli autori e i film sono di peso, allora la faccenda rischia di farsi davvero seria. 

Due casi tra tutti, proprio sul finire di questo decennio, sono emblematici: Roma di Alfonso Cuarón, produzione Netflix, vince nel 2019 l’Oscar come miglior film straniero. Stesso anno, The Irishman di Scorsese è un’esclusiva Netflix. Un budget mastodontico e un regista che ha fatto la storia del cinema, per un film che non finisce al cinema. Ma ancora più clamoroso, le grandi major rifiutano di produrre il film per via del budget troppo elevato. 

Sarà interessante capire come nel prossimo decennio si evolverà questa tendenza, e quali saranno le controffensive per portare gli spettatori nelle sale. 

Dieci anni di Festival e di cinema italiano

In tutto questo, il cinema d’autore e i festival? Che ruolo hanno giocato in questi ultimi dieci anni? Da questo punto di vista è interessante marcare le differenze tra due festival come quello di Cannes e Venezia. Per quanto riguarda Cannes è stato il decennio di autori come Dolan (Mommy; È solo la fine del mondo) , Kechiche (La vita di Adele; Mektoub: my love), Carax (Holy Motors), e di nuove riaffermazioni come Malick – che ha aperto il decennio con Tree of Life vincendo la Palma d’Oro nel 2011 – e i fratelli Dardenne (Il ragazzo con la bicicletta; L’età giovane). 

“Tree of Life”, il visionario film di Terrence Malick, Palma D’Oro a Cannes 2011.
(immagine: maxxi.art)

Per parlare in ogni caso di dieci anni di cinematografia d’autore, sarebbe necessario molto più spazio e indubbiamente uno spettro visivo più ampio (che vada oltre gli autori e i film apprezzati personalmente in questi anni ’10). È però interessante guardare al particolare caso di Venezia, che negli ultimi anni ha preso scelte anche politicamente forti nell’assegnazione dei premi, oltre a dare una particolare attenzione al campo dell’innovazione. Due casi a mio avviso sono degni di nota. Anzitutto la progressiva apertura a un cinema non necessariamente chiuso a un pubblico elitario: nel 2017 il Leone D’Oro va a La forma dell’acqua di Guillermo del Toro che, tra l’altro, vincerà anche l’Oscar come miglior film. Nel 2018 è la volta di Roma di Cuarón, primo grande riconoscimento per un film prodotto da Netflix. Nel 2019, invece, il caso ancora più clamoroso, con il Leone D’Oro a Joker di Todd Phillips. Un premio doppiamente significativo, in quanto è stato assegnato a un cinecomic, di fatto un film sulla carta “da botteghino” e non propriamente d’autore; in più, un film di un regista che fino a quel momento, almeno in campo cinematografico e non documentaristico, aveva diretto solo film commerciali come la trilogia di Una notte da leoni. Dall’altra parte altrettanto interessante è stata l’introduzione dal 2017 di una categoria di concorso, con annesso premio, per la realtà virtuale (Venice VR). Un mondo, quello della realtà virtuale, che oggi muove i primi passi nel campo cinematografico ma che sarà curioso vedere se approderà a un circuito commerciale, con una fruizione nella sale e un’apertura al pubblico. Di certo, la “consacrazione” da parte di un Festival di Venezia è già un passo di una certa importanza.

La realtà virtuale ha mosso i suoi primi passi negli anni ’10. Ad Amsterdam nel 2016 ha aperto il primo cinema in VR.
(immagine: tuttoandroid.net)

E il cinema italiano? Gli anni ’10 italiani, se vogliamo analizzarli da un punto di vista dell’impatto commerciale e non autoriale, portano due nomi su tutti, che possa piacere o meno: Checco Zalone e Pietro Valsecchi. Il cinema di Zalone (e di Nunziante, regista dei primi film) ha avuto un peso talmente forte in questo decennio da portare gli incassi più alti della storia del cinema italiano: tra i primi cinque film tre sono di Zalone, ovvero tutti e tre i film usciti in questo decennio, con la cifra monstre di 65 milioni di incasso di Quo Vado?

Pietro Valsecchi, produttore dei film, è stato probabilmente uno dei più influenti nel panorama italiano degli anni ’10 nel suo ruolo. Ha in qualche modo colto il cambiamento di clima trovando la strada maestra per soppiantare i cine-panettoni, trovando un filone d’oro, che pare non destinato e esaurirsi qui – e guarda caso, Tolo Tolo sarà il film d’apertura del prossimo decennio. Valsecchi ha inoltre intercettato gli interessi e i gusti delle nuove generazioni, producendo i film de I soliti idioti e portando al cinema fenomeni di Youtube come i The Pills (a cui poi sono seguiti esempi simili da parte di altri produttori). 

Pietro Valsecchi e Checco Zalone.
(immagine: Stefania D’Alessandro via Getty Images)

Esulando da un discorso sulla qualità dei film, è indubbio che il cinema italiano sia passato inevitabilmente da questi due nomi. E che sia passato, inoltre, dal tentativo di apertura a un cinema più internazionale (sempre da un punto di vista commerciale). L’avvento dei cinecomics ha portato tentativi di emulazioni anche sul suolo nostrano, alla stregua di altri fenomeni mondiali come la saga di Fast & Furious: da un lato Lo chiamavano Jeeg Robot e Il ragazzo invisibile, dall’altro Veloce come il vento. Un’internazionalizzazione in salsa italiana, cercando di mantenere gli elementi caratteristici del nostro cinema. 

È stato anche il decennio dei piccoli film diventati casi: Benvenuti al sud (2010) e Smetto quando voglio (2014), inevitabilmente con sequel al loro seguito. In ogni caso, dal punto di vista degli incassi e del cinema italiano è sempre la commedia ad avere giocato un ruolo dominante.

Vero è che in questo mutato panorama italiano, lo spazio per un cinema più autoriale sembra aver perso ulteriore terreno. In questo decennio gli unici riconoscimenti internazionali sono arrivati da Sorrentino (l’Oscar a La Grande Bellezza), Garrone e Alice Rohrwacher (con i Grand Prix a Cannes rispettivamente per Reality e Le meraviglie), Rosi (con Sacro GRA, Leone D’Oro) e i Fratelli Taviani (Orso D’Oro per Cesare Deve Morire). In realtà, tolti Garrone e Sorrentino, gli italiani hanno dimostrato uno scarso interesse per gli altri autori che, nonostante i premi, sono rimasti confinati a una limitata fetta di pubblico. A tutto questo si aggiunge uno spazio nelle sale sempre più ristretto, in favore dei fenomeni da botteghino. Forse, allora, le piattaforme di streaming nel prossimo decennio potrebbero essere un’arma in più per il cinema d’autore, potendo passare attraverso canali supplementari al circuito delle sale. Caso emblematico da questo punto di vista il film di Alessio Cremonini Sulla mia pelle su Stefano Cucchi, prodotto da Netflix.

“Reality” di Matteo Garrone, Vincitore nel 2012 del Grand Prix a Cannes.
(immagine: spazioalfieri.it)

È difficile intercettare con sicurezza le tendenze che potrebbero caratterizzare il prossimo decennio di cinema, ma una cosa è abbastanza certa: gli anni ’10 da un punto di vista mediale hanno segnato un momento importante nel panorama cinematografico, che potrebbe aver cominciato una mutazione radicale.

Comunque andrà, la speranza è una: che il cinema continui a cercare un suo personale sguardo, e che continui a voler raccontare davvero qualcosa. 

Francesco Fiero, 1989, si è laureato in Scienze filosofiche, specializzandosi in Estetica e Cultura visuale. Ha collaborato con la Fondazione Feltrinelli per il magazine “La Nostra Città futura” e scritto di cinema e letteratura per testate e riviste sul web.

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