Il genio non è una questione biologica

Alla voce  “genialità”, la più grande enciclopedia contemporanea – Wikipedia – ci restituisce la definizione: “speciale attitudine naturale atta a produrre opere di importante rilevanza artistica, scientifica, etica e sociale”. Alla stessa parola “genio”, che deriva dal verbo latino geno, letteralmente “creare, generare” è attribuito il significato di “forza naturale creatrice”: una disposizione naturale che difficilmente può essere trasmessa ad altri. 

Come potete constatare, la parola “naturale” ricorre spesso, in quanto la maggior parte degli studi scientifici sul tema guardano la genialità come innata predisposizione genetica di “pochi eletti”. Ma le scienze umanistiche dimostrano sempre di sfuggire dalle definizioni esatte nell’ambito dello studio dell’individuo, perché vivono della stessa ambiguità della condizione umana: possiedono, quindi, contorni sfumati e rarefatti. 

Nella storia delle idee alcuni studi di natura sociologica hanno dimostrato come in determinati periodi storici, la genialità non fosse solo qualcosa di naturalmente acquisito alla nascita ma che dipendesse, in egual misura, dal fattore ambientale: da un contesto storico dentro il quale la genialità potesse esprimersi e legittimarsi. 

A tal proposito si è messo in luce come la genialità sia da intendersi – anche – come fenomeno prodotto dalla convergenza di processi economici, culturali e sociali atti a promuovere la proliferazione di talenti geniali. 

L’agorà dell’Atene di Pericle nel V secolo, la Firenze del Rinascimento italiano, i porti olandesi del Seicento, i salotti della Vienna fin de siècle, i caffè parigini degli anni Ruggenti e anche le start up della Silicon Valley si annoverano come i più grandi “contenitori” storici della genialità umana

A partire da ciò, è possibile svincolarsi dalla prospettiva che vede la genialità come innata, per avvicinarsi all’idea secondo la quale siano i luoghi, che favorendo lo scambio culturale, ridefiniscono il genio come “forza sociale creatrice”. 

Abbandonando l’idea romantica del genio solitario, che oggi ritorna con tutta la forza per delineare l’artista anticonformista frutto dell’esasperata individualità capitalistica, cerchiamo di porre l’attenzione su come la creatività, e quindi il genio creativo, sia anzitempo un processo sociale: una parte integrante dell’agire umano. 
Per reazione, sembriamo accorgercene proprio in un periodo di forte contrazione della socialità, come quello che stiamo vivendo: al crollo delle interazione umana diretta, sembra far seguito l’impoverimento della creatività e delle fonti di rinnovamento creativo di un sistema culturale, già enormemente dilaniato dalla mancanza di innovazione. 

Facciamo un passo indietro. Per spiegare la genialità come processo sociale, bisogna in primo luogo fare riferimento al fatto che nei periodi d’oro della genialità si sono create le condizioni atte a  favorire la proliferazione di geni creativi. Possiamo ipotizzare cinque fattori-chiave per spiegare il fenomeno:

  1. Il primo è la crescita economica: la disponibilità di risorse permette la realizzazione di nuovi progetti;
  2. il secondo è la presenza del mecenatismo, in grado di investire sul talento; 
  3. il terzo è un clima culturale che valorizzi l’uomo e le sua capacità creative;
  4. il quarto è la libertà d’azione e l’apertura alla novità e al diverso;
  5. il quinto è il contatto con altri talenti che favorisce la collaborazione e allo stesso tempo permette la competizione.

Lo splendore culturale dell’Atene del V secolo – che partorì Platone, Pericle, Sofocle, Euripide, Socrate, Democrito, Anassagora, Tucidide, Senofonte – dipendeva in larga misura dalla fioritura economica post Guerre persiane e dal mecenatismo della polis di Pericle che fece di Atene il centro culturale di tutto il mondo greco. 

L’apogeo culturale della Firenze rinascimentale – tra il ‘400 e il ‘500 di Donatello, Leonardo da Vinci, Masaccio, Michelangelo, Brunelleschi, Raffaello Sanzio, Botticelli – si basava sull’affermazione culturale del combinato disposto virtuoso di umanesimo e mecenatismo della famiglia dei Medici. 

Anche i talenti artistici di Rembrandt e Jan Vermeer e dei filosofi Cartesio e  Spinoza del periodo d’oro olandese nel XVI secolo, trovarono nell’inquadramento culturale dell’umanesimo – in questo caso di Erasmo da Rotterdam – e la crescita dei commerci,  il presupposto per la fioritura di idee nuove e innovative. 

La Vienna di fin du siecle che ci ha consegnato nomi come Sigmund Freud, il padre della psicoanalisi, gli artisti della Secessione viennese (Klimt, Schile e Kokoshka), scrittori come Robert Musil con il suo capolavoro “L’uomo senza qualità”, sono senza dubbio figli di una delle città più cosmopolite della modernità. 

© Twitter

Senza dimenticare la festa mobile della Parigi Anni Venti – tappa imprescindibile delle avanguardie artistiche americane e europee: Modigliani, Duchamp, Dalí, Picasso, Bunuel, Matisse e scrittori del calibro di Scott Fitzgerald, Ezra Pound, Hemingway. 

Negli anni ’70 del XX secolo, nella costa californiana della Silicon Valley, nomi come Bill Gates e Steve Jobs renderanno omaggio alla politica economica americana del self made man, decretandosi come i più grandi geni della storia dell’ultimo millennio. 

Una panoramica storiografica della genialità dimostra come l’estro creativo umano è un prodotto contestuale oltre che biologico. Gli spazi come centri di scambio di idee e incontro della socialità sono la chiave di volta per fare della creatività umana una fonte di rinnovamento culturale.

© Facebook

Mecenatismo, collaborazione e cosmopolitismo non sono altro che l’esplicitazione di un contatto sociale che permette, di volta in volta nelle varie epoche, lo schiudersi di menti brillanti che altrimenti racchiuse nell’isolamento della propria “superiorità biologica” non sarebbero riuscite a imporsi come innovatori di un’epoca. 

Si potrebbe obiettare il fatto che la necessità biologica del genio creativo – in altri termini la curiosità –  spingesse naturalmente in luoghi in cui potesse esprimere la propria creatività liberamente – come l’Atene del V secolo o la Parigi degli anni ruggenti – riportandoci all’idea che la genialità abbia radici esclusivamente biologiche. Ma come sappiamo da alcune ricerche il talento non basta per farsi portavoce della rivoluzione culturale – con essa intendo anche scientifica dal momento che la scienza non è altro che confutazione di ipotesi di pensiero. 

La perseveranza negli studi, l’estenuante volontà nella ricerca e un ambiente ricco di stimoli sono gli ingredienti necessari per fare del talento un’attività umana creatrice di innovazione. In poche parole: genio si nasce? No, si diventa! 

Secondo lo studio dell’Università di Cambridge sull’argomento la genialità è: 1 per cento ispirazione, 29 per cento ottima formazione e il 70 per cento duro di lavoro. 

A sostegno della tesi dell’esistenza di una forte correlazione tra socialità e genialità creativa, il periodo storico che sta attraversando l’Italia – precisiamo già da tempo prima dell’avvento della pandemia – sembra proiettarci sopra un terreno sterile che non promuove di certo la crescita culturale.

© Guardian

La crisi del 2008, una delle recessioni economiche più spaventose della storia, ha fatto letteralmente crollare il fragile ecosistema del mondo lavorativo, facendo capitolare i giovani in una condizione “miserabile” per cui il fenomeno della fuga di cervelli si è fatta largo come unica risposta al problema. Ciò ha portato alla dispersione della grande fetta di personalità creative italiane nel mondo per la mancanza di investimenti. Scienziati, filosofi, artisti abbandonano la culla della cultura occidentale alla ricerca di luoghi che incentivino il lavoro creativo, non come inutile fonte di spesa, ma come capacità di innovazione. 

La crisi economica, la mancanza di “mecenatismo” verso la ricerca, l’inquadramento ideologico di una cultura che pone al centro il denaro e non l’uomo, la mancanza di collaborazione a favore dell’isolamento sono tutti i presupposti -“opposti”- che arrestano la crescita e lo sviluppo della creatività umana. 

Le norme di distanziamento sociale imposte, sembrano sempre di più ritardare questa crescita. Le misure ristrettive nei confronti della socialità, soprattutto degli istituti di formazione come le università e gli ambienti culturali (teatri, cinema, spazi ricreativi) contribuiscono a creare un divario socialmente inaccettabile per la promozione del dibattito delle idee. 

Il dibattito face to face è sempre stato indice di una formazione completa dell’individuo fin dai tempi delle antiche università ateniesi come l’Accademia di Platone. La decisione di riporre tutte le speranze della formazione culturale attraverso l’utilizzo dei device della comunicazione digitale sembra una soluzione solo parziale in quanto questa produca alla fine l’esasperazione dell’isolamento individuale. E come abbiamo detto, l’isolamento corrisponde al non accesso a un ambiente ricco di stimoli, e quindi a un’impoverimento della creatività individuale e collettiva. 

© Business Review

I social media hanno sostituito di fatto i luoghi dell’aggregazione culturale: dai simposi della grecità si è passato ai caffè parigini dell’illuminismo. I luoghi come spazi di scambio culturale si sono sempre succeduti l’un l’altro ma mai si era assistito alla svolta epocale per cui un messaggio potesse essere letto a livello globale, in modo istantaneo, partendo dalla chiusura di uno spazio domestico.

Da questa prospettiva, la creatività che trovava terreno fertile in una socialità in presenza, vitale, passionale, carnale, si assopisce all’ombra di un mondo virtuale di fantasmi annoiati per cui il contatto sociale reale diventa un pericolo e non un’occasione di scoperta. 

Per quanto riguarda gli effetti delle restrizioni, la riconfigurazione creativa dei media culturali come cinema e teatri e degli ambienti culturali come i musei mi pare davvero irrealistica.

La mancanza di investimento nel settore culturale, che già attraversava  una crisi senza precedenti, non è preparato finanziariamente a una rivoluzione innovativa in senso creativo e sarà in grado di sopravvivere ricalcando iniziative già viste come film in streaming e mostre interattive.

L’innovazione tecnologica sarà ciò che il mondo dei media culturali deve attendere per sopravvivere al proprio deterioramento: dispositivi di realtà virtuale e/o aumentata. 

In un Italia, privata della propria capacità creativa, non resta che aspettare una rivoluzione economica e politica in grado di riportare in auge la socialità vis-à-vis come retroterra e motore indispensabile per lo sviluppo della genialità nella spinta all’innovazione. 

Laureata nel 2017 presso l’Università Iulm di Milano nella bistrattata facoltà di Scienze della comunicazione. Dopo la laurea mi sono assoggettata alle esigenze del mercato lavorativo nel settore della comunicazione, facendo cose che non mi interessano affatto: corsi di web design, di SEO, SEM. Ma la mia passione per la scrittura è rimasta intatta. Oriana Fallaci rappresenta il modello di giornalista che vorrei diventare. Il mio sogno è dattilografare un reportage di viaggio su una vecchia Olivetti, una sigaretta tra le dita sorseggiando un bicchiere di vino alla sua salute.

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