Il Salone del Libro e la paura dell’inclusività dei media

Questo approfondimento è stato realizzato con il contributo di Silvia Ghisi, copywriter e content writer appassionata di comunicazione e linguaggio inclusivi.

Rassegnati è la rubrica settimanale che seleziona un fatto degli ultimi giorni per provare a mostrare com’è stato riportato dalla stampa italiana. Tra strategie comunicative ed errori, viene svelato il filtro che copre ogni notizia. Oggi parliamo del Salone del Libro di Torino e del sentimento di paura che ruota – nei media – attorno all’inclusività.

Dal 14 al 17 ottobre si è svolta la XXXIII edizione del SalTo, la manifestazione legata all’editoria e al mercato del libro più grande d’Italia. Dopo due anni di stasi dovuta alla situazione pandemica, il Lingotto di Torino ha accolto 150 mila visitatori. Il programma degli eventi, tutti raccolti sotto il macro titolo Vita Supernova, era vasto sia per temi che per ospiti. Eppure una certa narrazione giornalistica ha concentrato la propria attenzione esclusivamente sull’inclusività, un argomento caldo in questi ultimi anni. 

Stiamo parlando del Giornale e dell’articolo che si apre con il titolo: «L'”Inclusività” tiranneggia il Lingotto a colpi di asterisco». Procediamo con un’analisi dettagliata. Il termine inclusività, posto tra virgolette, viene ridotto di importanza. Così facendo il tema della piena considerazione di tutte le identità e delle categorie marginalizzate è sminuito come un argomento di secondo piano

Sempre nel titolo abbiamo alcuni elementi lessicali legati alla guerra, allo scontro, al totalitarismo: «tiranneggiare» (ricorda l’altra espressione iper utilizzata da alcuni media «dittatura del politicamente corretto») e «a colpi di». Si pone in scena, quindi, una situazione di tensione e, soprattutto di costrizione, discostandosi però dalla realtà dei fatti. Nel tentativo di riflettere su un uso più inclusivo della lingua manca ogni desiderio di costringere a determinate strategie. Il linguaggio inclusivo, infatti, è una proposta che risponde a un bisogno di rappresentazione, non solo legato all’identità di genere, ma anche alle categorie marginalizzate. Per questo motivo non ricorre a pregiudizi, stereotipi e discriminazioni, e si basa sull’ascolto e sul dialogo. Proprio come dovrebbe già accadere quando si comunica con le persone.

La metafora bellica utilizzata nel titolo, come se ci fosse in corso una battaglia promossa da chi sostiene le istanze del linguaggio inclusivo, intende fomentare la polarizzazione di chi legge l’articolo nei confronti di un argomento complesso, quello dell’inclusività, che implica invece, come abbiamo visto, ascolto, comprensione e dialogo. 

Il sottotitolo presenta un cliché a cui spesso si ricorre per spostare l’attenzione dal tema principale e concentrarla su un elemento che può aumentare i timori di chi legge. «A partire dai libri per bambini» ricorda subito la delicatezza con cui ci si occupa dell’infanzia e, stando a chi scrive, i rischi di esporre bambine e bambini a un linguaggio inclusivo. Un po’ come accade quando alcuni media trattano del DDL Zan, diffondendo bufale relative alla fantomatica “teoria gender nelle scuole.

Nel corpo del testo si parla poi di «Sindrome dell’Inclusione», un’espressione coniata ad hoc per questo articolo e che si accompagna a un’errata definizione di diversità: «nessuno dev’essere diverso dagli altri, ma tutti si devono adeguare a un canone stabilito dagli Inclusori stessi». In realtà si dovrebbe parlare di riconoscimento di ciò che la propria identità porta con sé e di come questa influisca sul punto di vista con cui si osserva il mondo.

La testata sceglie di non nominare le autrici a cui fa riferimento, ad eccezione della sociolinguista Vera Gheno, il cui nome è stato ormai associato fermamente all’uso del vocoide medio schwa (scritto ə), di cui Gheno è comunque consapevole dei limiti, per rendere i termini declinabili adatti a ogni identità di genere, anche se, per precisione, la prima proposta dell’utilizzo dello schwa viene da Luca Boschetto nell’aprile 2015. L’esperimento linguistico dell’asterisco viene definito dal Giornale, banalizzandolo e utilizzando una terminologia offensiva e discriminatoria, «demenziale trovata dell’asterisco». Inoltre, citando solo l’asterisco, il quotidiano non considera un’ampia gamma di proposte per superare il maschile sovraesteso (la @, la u, la y, il già citato ə, la x, la perifrasi o circonlocuzione, lo sdoppiamento di genere,…). 

Torniamo poi al mondo dell’infanzia, a cui il giornalista di nuovo fa riferimento, perché «ai bambini dai 3 ai 6 anni viene inflitto un seminario così denominato: “Letture per l’inclusione con i libri in simboli della Comunicazione Aumentativa Alternativa”», che qui viene confusa con qualche forma di scrittura legata all’identità di genere. In realtà la CAA è rivolta alle persone con bisogni comunicativi complessi.

Il corpo centrale del testo è composto da una lista incalzante e confusa di laboratori e iniziative per bambine e bambini legate alla scoperta di sé, della propria identità. Al posto di riflettere su come questa sia una risposta a una reale esigenza diffusa fin dall’infanzia, si parla di «indottrinamento». Il lessico scelto richiama gli ambienti religiosi – «prediche», «omelia», etc. – probabilmente per far sospettare una sottotraccia fanatica. Si parla addirittura di «euforiche dichiarazioni di coming out ossessivo compulsivo», usando in modo improprio l’espressione “ossessivo compulsivo”, che deve definire solo ciò che corrisponde a una diagnosi di DOC, e trattando con superficialità e poco rispetto un momento che può essere molto delicato come quello del coming out. 

Inoltre si parla di “allievi deportati” a tali seminari, richiamando di nuovo il riferimento al totalitarismo di regime presente nel titolo: insomma associa così l’inclusività a ciò che le è più lontano e opposto.

Oltre a questo, la testata si sofferma sulla traduzione, esprimendo i suoi dubbi sulla nuova griglia di regole «imposta dall’alto, visto che nessuno nella vita normale parla così». Anche in questo caso c’è uno scollamento rispetto alla realtà del fenomeno. La lingua inclusiva non è imposta da nessuna persona o ente, ma al contrario sorge dal basso, dalle esigenze concrete di chi chiede una giusta rappresentazione.

Come scrive proprio la sociolinguista Vera Gheno nel suo libro Femminili singolari. Il femminismo è nelle parole: «È quasi impossibile imporre dei cambiamenti “dall’alto” o introdurre delle modifiche al sistema linguistico a tavolino».

In chiusura l’articolo riporta la domanda più formulata dell’ultimo periodo: «Non si può più dire niente?». Il Giornale risponde che ci si può esprimere liberamente ma solo «purché sia come lo dicono loro». Una facile contrapposizione tra chi vede, con fastidio, il proprio privilegio messo in discussione da una maggiore attenzione alla “convivenza delle differenze” (termine che prendiamo dallo scrittore e consulente di diversità e inclusione Fabrizio Acanfora, che lo suggerisce al posto di “inclusione”)  e un “loro” incerto, ma minaccioso e incombente.

In conclusione, si tratta di una narrazione giornalistica che sintetizza, senza argomentazioni valide e non priva di inesattezze, facendo riferimento con superficialità a opinioni personali, pregiudizi e stereotipi, un sentimento comune: il timore davanti ai cambiamenti – soprattutto linguistici – e all’emergere di istanze che, dall’alto del proprio privilegio, sono percepite come lontane, banali e futili.

Riprendendo ancora una citazione dal libro di Gheno: «Pazienza anche se molti pensano che siano sciocche velleità: le questioni linguistiche non sono mai velleitarie, perché attraverso la lingua esprimiamo il nostro pensiero, la nostra essenza stessa di esseri umani, ciò che siamo e ciò che vogliamo essere. La lingua non è un accessorio dell’umanità, ma il suo centro».

Leggo, scrivo e ne parlo. Sono una giornalista, un'insegnante. Mi occupo di diritti e conduco il podcast Cristianə a chi?

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