Marginalizzazione: quando la mafia é l’ultimo dei problemi

Cerchiamo di far luce su quella nefasta prassi, qui definita “marginalizzazione”, per cui il fenomeno criminale transnazionale scivola spesso in secondo piano tra le priorità di stati e agenzie intergovernative, oltre che negli stessi schemi percettivi della società civile. Altre problematiche, infatti, hanno suscitato e suscitano tutt’oggi maggiore interesse – o preoccupazione – della questione mafiosa, inficiandone in maniera negativa le pratiche in grado di contrastarla. Con questo articolo intendiamo pertanto analizzare il peccato capitale della marginalizzazione, ripercorrendo insieme quelle occasioni in cui la criminalità organizzata non è stata ritenuta una minaccia sufficientemente grave da giustificare un intervento puntuale da parte delle autorità.


[…] una cappa di silenzio cala ben presto sul fenomeno mafioso: gli anni Settanta sono gli anni del terrorismo. Tutti i migliori magistrati o quasi, il grosso delle forze dell’ordine sono impegnati nella lotta contro le Brigate Rosse e altre organizzazioni terroristiche. Pochi si interessano di mafia. Proprio allora prende il via il traffico di stupefacenti e la mafia si trasforma nella potenza che è oggi. Grave quindi l’errore commesso in un momento in cui si disponeva di tutte le informazioni e condizioni per capirla e combatterla. Il passaggio da una mafia poco attiva in campo economico a una mafia sempre più aggressiva si consuma tra il 1974 e il 1977 […]. Negli anni seguenti, grazie alla debolezza della repressione, la mafia prospera in tutti i settori dell’economia.

Nel caso specifico espresso dalle parole del giudice Giovanni Falcone, a rapire l’attenzione di politica, media e cittadini sono le bombe e le stragi terroristiche che dilaniano l’Italia nel corso degli anni Settanta, al punto da guadagnarsi il triste appellativo di “Anni di Piombo”. Nel suddetto periodo, per quanto le mafie avessero già iniziato a farsi conoscere per mezzo di attentati e sanguinose guerre tra clan, come descritto dal magistrato italiano poco o nulla venne fatto per limitarne l’espansione e la diffusione su scala prima nazionale e poi globale.

E’ il 1970. Siamo agli inizi degli Anni di Piombo e la lotta al terrorismo già monopolizza gli sforzi degli organi di repressione italiani. In pochi pensano alla mafia, così Cosa Nostra decide di sfruttare il silenzio mediatico che la circonda per liberarsi di alcune figure scomode. Mauro De Mauro, sublime cronista de L’Ora, è uno di queste e per tale ragione viene rapito la sera del 16 settembre 1970. Il suo corpo non sarà mai più ritrovato.

La stragrande maggioranza delle energie e degli sforzi dello Stato vennero diversamente investite in un’unica direzione, quella della lotta alla minaccia terroristica, avvertita come primaria e fondamentale, producendo una vera e propria opera di “distorsione del sistema repressivo e di prevenzione”, come scrisse il professor Pio Marconi già nel 1995:

Nel decennio della violenza politica, lo Stato è costretto ad adeguare in modo accelerato le strutture di polizia al fine di far fronte ad una criminalità politica organizzata di dimensioni mai viste prima (superiore, per virulenza, allo stesso brigantaggio seguito all’unificazione dell’Italia, il quale – fra l’altro – fu stroncato con l’intervento diretto dell’esercito e con il codice militare di guerra). Il rafforzamento delle strutture di polizia viene, pertanto, nel decennio 1975 – 1985, destinato soprattutto a contrastare la minaccia più grave e più allarmante: quella terroristica. Emblematico il caso del Generale Dalla Chiesa. Lo stato è in grado di destinare alla lotta contro la mafia uno dei suoi maggiori tecnici della repressione penale solo al tramonto dell’emergenza terroristica.

La priorità data alla lotta al terrorismo non rappresenta, purtroppo, né una particolarità italiana né una prerogativa di quegli anni. Il medesimo atteggiamento è difatti riscontrabile nelle vicende che hanno caratterizzato non un singolo paese, ma l’intero scacchiere internazionale all’indomani degli attentati alle Torri Gemelle. L’11 settembre ha costituito un vero e proprio punto di svolta per quanto concerne non solo la guerra al terrore, come venne definita da George W. Bush, ma anche per le operazioni di contrasto alla criminalità organizzata globale. Infatti, come avvenne in Italia negli anni Settanta, così gli Stati Uniti ed i loro principali alleati procedettero a un’opera di riorganizzazione delle forze di polizia, intelligence e militari in ottica antiterroristica, spesso pescando effettivi e fondi dai reparti dediti alla lotta alle organizzazioni criminali. Quanto appena descritto viene confermato da un rapporto dell’FBI del 2004, in cui veniva messa nero su bianco la tendenza a reindirizzare gran parte degli sforzi e delle risorse verso la guerra alle cellule terroristiche:

Dopo l’11 settembre, l’FBI ha reindirizzato in modo permanente un numero considerevole di agenti dai tradizionali programmi investigativi criminali verso le indagini di antiterrorismo e controspionaggio. Ancora oggi, gran parte del personale continua a essere spostato da programmi quali la lotta alla droga, ai reati dei colletti bianchi e alla criminalità violenta per rispondere alle richieste di carico di lavoro correlate all’antiterrorismo. Tutto ciò, ovviamente, va a discapito delle indagini riguardanti le aree criminali tradizionali, tra cui quella mafiosa.

Tale testimonianza lascia poco spazio a dubbi circa l’effettiva opera di marginalizzazione di determinati reati ritenuti meno fondamentali da parte del Federal Bureau. Tra questi rientrano il traffico di droga, i crimini dei colletti bianchi e quelli violenti, non a caso pratiche criminali tipiche delle organizzazioni mafiose, la cui specifica azione di contrasto dopo l’11 settembre 2001 è scivolata al sesto posto – su nove – nella particolare classifica delle priorità dell’agenzia federale americana.

Una strategia limitata e limitante questa, che presuppone si possa affrontare e sconfiggere un solo problema per volta, circoscrivendo al minimo indispensabile gli sforzi nei confronti delle altre minacce alla sicurezza nazionale. Risulta così superfluo evidenziare quanto siano state felici di questa nuova ripartizione le mafie di tutto il mondo, ancora oggi grate ad Osama Bin Laden per l’inaspettato assist fornitogli.

Del resto, l’FBI non è nuovo a simili comportamenti. Già sotto la cinquantennale guida di John Edgar Hoover, infatti, le organizzazioni criminali presenti sul suolo statunitense godettero di una relativa tranquillità. Nate più o meno nel medesimo periodo, ossia intorno ai primi anni Venti del secolo scorso, FBI e Cosa Nostra americana hanno preferito l’indifferenza allo scontro, cercando di non arrecarsi disturbo. Così, esclusi dei rari momenti di conflitto estemporanei, queste due neonate entità federali hanno potuto affermarsi e crescere senza che le proprie strade arrivassero mai a collidere: da un lato, i mafiosi si adoperavano per mantenere un profilo relativamente basso, evitando di commettere crimini di natura federale; dall’altro, Hoover e soci preferivano vedersela con minacce reputate assai più urgenti e pericolose, quali l’infiltrazione comunista ed il cosiddetto glamour crime.

John Edgar Hoover, direttore del Federal Bureau of Investigation, ritratto in una fotografia del maggio 1959.

Proprio quest’ultimo occupò gran parte dei pensieri e delle iniziative del Bureau, che della caccia di individui come Bonnie e Clyde o John Dillinger fece la propria ragione di vita. Del resto, una simile battaglia appariva più attraente agli occhi dei cittadini / contribuenti, dai cui fondi dipendeva il futuro dell’agenzia fondata da Hoover. Rischiare di affrontare e perdere contro un nemico insidioso e semisconosciuto come la mafia italoamericana costituiva un azzardo troppo grande e con un ritorno mediatico pressoché nullo, a maggior ragione se paragonato a quello prodotto dalla cattura di banditi etichettati come Public Enemy Number One. Per Hoover il gioco non valeva la candela, pertanto le mafie hanno potuto godere di quasi quarant’anni di insperata invisibilità e costruire il proprio impero criminale nel cuore della società americana.

Oggi tuttavia ci si ripresenta la questione sotto spoglie parzialmente differenti. Ci troviamo nuovamente dinnanzi alla possibilità di considerare il fenomeno criminale di tipo mafioso un’urgenza di secondo piano, una minaccia rimandabile, un gioco che non vale la candela. Non possiamo ripetere gli stessi errori del passato: che sia il terrorismo o una pandemia globale, è bene imparare da quanto accaduto ed evitare che una nuova marginalizzazione della problematica conduca ad un ulteriore aumento della presenza mafiosa nella nostra società.


FONTI:

  • Giovanni Falcone e Marcelle Padovani (1991) Cose di Cosa Nostra, Rizzoli, Milano.
  • Pio Marconi (1995) La minaccia criminale affrontata con gli strumenti della lotta antiterroristica. In Atti del 1° Seminario Europeo “Falcon One” sulla Criminalità Organizzata, Per Aspera Ad Veritatem Rivista di Intelligence e di Cultura Professionale, Roma 26-27-28 Aprile 1995
  • United States General Accounting Office (GAO), FBI Transformation. FBI Continues to Make Progress in Its Efforts to Transform and Address Priorities, GAO-04-578T, 23rd of March 2004.
  • Jean-François Gayraud (2010) Divorati dalla mafia: Geopolitica del terrorismo mafioso, Elliot.

Tomas Strada (1992), è l'orso digitale che gestisce la nostra comunicazione. Campione mondiale di video di gattini, black humour e lauree professionalmente non spendibili, racconta la criminalità organizzata sulle pagine digitali di The Pitch. Tra un reel e un articolo, è sinceramente convinto che The Pitch migliorerà il mondo. Ma credeva anche che i 30 anni non sarebbero mai arrivati. E invece.

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