Yves Klein e la donna-pennello

Una modella nuda, immobile come una lucertola al sole. Una classe di studentelli di pittura, arrossiti ed emozionati davanti alle forme femminili, combattuti tra la freddezza dello sguardo anatomico e il calore della sensualità e della fantasia. Tra tele, pennelli e carboncini che scricchiolano, tratteggiano e stendono pigmenti, ecco la copia dal vero, ecco il tradizionale nudo artistico.

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All’interno di questo rito, ancora in uso nelle nostre accademie, la modella era uno strumento che serviva per avvicinarsi alla realtà, o meglio, era l’incarnazione stessa della realtà: la verità di un corpo nudo, da riprodurre fedelmente nel dettaglio anatomico. Picasso, durante la sua lunga carriera, ha usato più volte le sue innumerevoli amanti come modelli per astrarre e decomporre la fisicità umana; Monet, non si accontentò della propria moglie, ma volle copiare anche il suo gruppo di amiche, dipingendole con tocchi di colore vivo. Si dice poi che Caravaggio, per dipingere la Morte della Vergine, usò come modello il cadavere di una prostituta ripescata dal Tevere, notizia che suscitò un ovvio scandalo tra le gonnelle dei cardinali romani. Non era mai successo però, almeno nell’arte occidentale, che un artista decidesse di prendere una modella, non come esempio da seguire, ma proprio come un pennello. 

Yves klein, Parigi 1960 – Pinterest

Nel 1960, alla Galleria d’Arte Contemporanea di Parigi, Yves Klein, già conosciuto dalla critica e dal pubblico per il suo Blu Klein e le sue tele monocrome, nonché per la sua stravagante personalità, si esibì in un happening ante litteram: un’orchestra cominciò a suonare la Sinfonia Monotona, scritta, se così si può dire, dall’artista stesso nel ‘49 (si trattava di un’unica nota suonata per venti minuti alternati ad altri venti di silenzio). Sul ritmo imbarazzato dell’orchestrina tre modelle entrarono nel salone completamente nude. I loro seni, il ventre e le cosce furono cosparsi dall’artista francese di tempera blu, e dopo un accenno silenzioso, come grossi pennelli viventi, rotolarono il proprio corpo su delle tele bianche affisse a una parete. 

Pierre Restany, critico e storico dell’arte, presente in quell’occasione esclamò entusiasta: «Queste sono le antropometrie dell’epoca blu!» – un’affermazione che, per quanto apparentemente insensata, suggerì a Klein il titolo dell’opera. Per la prima volta nell’arte contemporanea il corpo della donna si trasformò dal soggetto di un dipinto in un vero e proprio strumento pittorico, alla stregua di una spatola o di una spugna: le macchie di colore lasciate dalle forme femminili delle modelle rappresentarono il simbolo di un nuovo canone delle proporzioni umane, un canone spontaneo, emergente, distante dalle rigidità geometriche dei manuali di anatomia artistica. Forse è questo che Klein provò a esprimere, quando, nel commentare le proprie antropometrie, disse, affabulando metafisicamente: «Erano la manifestazione della più intensa espressione immaginabile dell’energia vitale».

Yves Klein, Antropomotrie, 1960 – Tate.org

La perenne questione “ma sarà davvero arte?” potrebbe sorgere spontanea davanti a delle ragazze nude, infreddolite, cosparse di tempera, che si rotolano su una tela sesquipedale al ritmo di un’orchestra da camera che suona la stessa nota per venti minuti. È ovvio che non vi possa essere una risposta definitiva a questa domanda, ma è certo che, per avvicinarsi a una risposta, dovremmo spostare l’attenzione – ancora una volta – dall’oggetto prodotto alle liturgie insite nella stessa produzione artistica. 

Quello che è successo nel Marzo del 1960 in quella stanza a Parigi è l’attuazione di un nuovo metodo per mappare e rappresentare le singolarità di un corpo. La modella trasferisce come un timbro il proprio negativo sulla tela: è la sua pelle a dipingere, i suoi pori, il suo ombelico. Non c’è più copia, non c’è più rappresentazione, solo impressione. Di artistico, in questo happening vi è principalmente una profonda consapevolezza artistica, tipica delle avanguardie e della rivoluzione culturale novecentesca: l’arte è, prima di tutto, messa in opera di liturgie codificate. Non vi è arte senza rito, senza contemplazione, senza sacralità liturgica: il salotto, l’orchestra, il mistico officiare del maestro Klein, focalizzano l’attenzione degli spettatori su ciò che sta avvenendo, che assume l’aura del prodigio artistico. Ogni nuova forma d’arte richiede, prima di tutto, la costruzione di una nuova forma ritualistica, utile alla sua produzione e alla sua fruizione. Senza questo apparato liturgico, le modelle ruzzolanti e imbrattate sarebbero state solo materiale da TSO. 

Micol Steinwurzel, milanese, si è laureata in Arte Contemporanea all’Università degli Studi di Milano e in Economia alla Ca’ Foscari di Venezia. Si ostina ad appassionarsi di moda, arte e design.

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