Musica contagiosa

Looking from my window above, it’s like a story of love,
can’t you hear me?
Only you – Yazoo -1982

Mai come in queste settimane si è avuta la netta sensazione che il tempo potesse essersi fermato. Si aveva l’impressione di essere vittime di un maleficio in grado di congelare il tempo. Nell’occhio del ciclone, poco prima della catastrofe, a prevalere è l’assenza di vento e di rumore.
A spezzare questo incantesimo è stata la necessità umana di relazionarsi con chiunque al di là delle nostre mura domestiche, il bisogno fisiologico di condividere la nostra forzata solitudine con altri. Non potendo farlo nei canoni delle normali relazioni interpersonali, in questi giorni ormai diventati mesi, abbiamo colmato le distanze alzando il volume del nostro stereo, cantando e suonando insieme a vicini, dirimpettai e condomini: l’unica maniera possibile per riportare un po’ di normalità nelle nostre vite sconvolte.

Ancora una volta, dunque, a salvarci è stata la musica.
Arte senza confini che, ovunque andando, ci consola nel suo caloroso abbraccio sonoro. È la nostra volontà di sentirci uniti, la consapevolezza inscalfibile di far parte di un’umanità compatta e inseparabile: la musica rappresenta la nostra determinazione a non arrenderci.

Alla stregua di soldati che durante la marcia intonano inni e canzoni, nella trincea del forzato rifugio domestico cantare e suonare è stata una delle armi a nostra disposizione in questa guerra di logoramento. 
Il nostro paese è stato tra i primi e più duramente colpiti dal Coronavirus.
I primi giorni sono stati terribili e ci hanno segnato profondamente: la pandemia mieteva migliaia di vittime e ci lasciava soli con la paura e lo sconforto a scandire le ore delle nostre giornate vuote. Ma è ben presto prevalsa la volontà di non arrendersi, la ribellione a quel terribile silenzio interrotto solo dalle sirene delle ambulanze in lontananza.
Si è cominciato, come spesso accade, coi suoni meno raffinati, i primi applausi e le urla di incoraggiamento: “ce la faremo!”

Ma nel frattempo, in attesa che quel proposito si avverasse, avevamo già preso coscienza della necessità di resistere: come si dice, dal momento che si è in ballo bisogna ballare; e visto che ci siamo, come direbbe Cutugno, lasciateci cantare. Siamo italiani, questo virus ce lo ha ricordato.
La nostra voglia di musica, che poi è voglia di libertà, ci ha uniti spontaneamente nel coro che, intorno alle Idi di Marzo del 2020, intonava l’Inno di Mameli: probabilmente non il momento giusto per cantare “l’Italia s’è desta” ma, in qualche modo, uno sprone a rialzarsi.

L’inno di Mameli intonato dalle persone sui balconi delle loro case.

L’inno Nazionale è solo uno dei momenti di aggregazione musicale che si sono susseguiti in tempo di pandemia. In poco tempo abbiamo cominciato a darci appuntamenti sui nostri balconi, a cantare in gruppi improvvisati le canzoni più conosciute, le hit più amate; quasi subito si sono diffusi filmati di musicisti impegnati a deliziare il vicinato col suono dei loro strumenti.
E così, vagando tra le nostre strade vuote, la musica ha riportato sotto i nostri tetti emozioni di gioia e piacere di cui tanto avevamo bisogno.
Improvvisamente il ritmo lento di questi giorni infiniti ritrovava brio e cadenza regolare.

Nel nostro piccolo universo delimitato dalle cuffie collegate ai nostri telefoni, prima che tutto questo cominciasse, ci eravamo dimenticati del ruolo unificante della musica. La frenesia e il rumore delle città non ci permettevano di soffermarci e prestare orecchio e, ancora più importante, ci costringevano a un ascolto personalizzato: i nostri album, le nostre playlist, le nostre canzoni preferite.
Nei giorni del silenzio insopportabile, abbiamo riscoperto quanto poche note di una radio ad alto volume  possano suscitare emozioni intense e, soprattutto, quanto sia giusto che l’arte delle sette note arrivi a tutti.

Un uomo, dalla finestra di casa, suona con la sua tromba le note di “O mia bella madunina” e “Nel blu dipinto di blu”.

Un’Italia in ginocchio ha saputo ritrovarsi in vecchie canzoni e artisti lontani che hanno contribuito a rinnovare un clima nazional-popolare: un attaccamento al passato che va di pari passo con la volontà di tornare a quei giorni in cui la vita era più facile. Tre canzoni a caso: “Nel blu dipinto di blu”, “Azzurro”, “Ma il cielo è sempre più blu”. Nulla può abbattere il nostro innato ottimismo, anche nei tempi più bui, a un cielo nero opporremo sempre un orizzonte sereno.

Ma anche il panorama artistico contemporaneo si è dimostrato estremamente attivo. Il 31 marzo sono stati molti i musicisti che si sono uniti in un contributo per una raccolta fondi da donare alla Protezione Civile: in quella che sembrava una San Remo in formato casalingo, diversi artisti, lontani ma uniti dalla volontà di fare del bene si sono esibiti in un unico coro: da Brunori a Calcutta, da Elisa a Tiziano Ferro, tutti hanno regalato momenti emozionanti in questo periodo di estrema difficoltà.
E poi c’è stato il concerto del primo maggio, rigorosamente in formato streaming, e mille altre iniziative per portare un po’ di musica nelle nostre case insieme al ricordo, ormai distante, di quando ci si poteva sgolare e abbracciarsi circondati da una marea di folla.

Una donna si esibisce con la fisarmonica dal suo balcone a Milano © Flavio Lo Scalzo/Reuters

In un Paese dove sono stati cancellati più di 7.400 concerti live, si è deciso di unirsi in un’unica voce, tanto “pé cantà, per fà qualcosa”, certo, ma anche per non dimenticarci di quanto la musica faccia bene all’anima.
E poi c’è stata la performance di Andrea Bocelli a Milano, in una piazza del Duomo deserta. Mentre nelle nostre televisioni scorrevano le immagini di tutte le città del mondo svuotate dal virus, il canto del tenore toscano ha emozionato milioni di persone. Ma l’esibizione che più ha toccato i nostri cuori, o almeno quello del sottoscritto, è stata quella della violinista giapponese Lena Yokoyama che, sulle note di The Mission, colonna sonora scritta da Ennio Morricone, sul tetto dell’ospedale di Cremona dava conforto al personale sanitario.
Se non ha sconfitto il virus, ha tuttavia portato a termine la sua personale missione: ricordarci che, spesso, la musica è uno dei farmaci più potenti contro le disgrazie.

La violinista Lena Yokoyama suona il tema di “The Mission” sul tetto dell’ospedale Maggiore di Cremona

In un tempo in cui uscire per un’ora al giorno era la nostra più grande libertà, spesso i suoni e le note dai balconi dei palazzi ci accompagnavano nelle brevi tratte da casa al supermercato contribuendo, forse, a riportare un po’ di leggerezza in una realtà tanto gravosa.
Una certezza più che un’impressione: quando ci capitava di affacciarci alla finestra e sentire musica in lontananza si aveva la netta consapevolezza di sentirci meglio.
Una sensazione che spesso mi prende quando, verso le sette di sera, ho il piacere di ascoltare le note di un sassofono ad accompagnare il sole nel suo tramonto.

Questo articolo è anche un modo per dire grazie al mio vicino musicista.

Ho 27 anni, una laurea triennale in storia e sto finendo il mio percorso accademico all’Università degli Studi di Milano, dove studio relazioni internazionali. La musica ha sempre fatto parte della mia vita: suono il pianoforte dall’età di 8 anni e strimpello la chitarra da quando ne avevo 14, età in cui tutti ci sentiamo delle rock star. Amo viaggiare, al punto da aver fatto l'Erasmus in Turchia e in Repubblica Ceca.  Sono pigro e adoro perdere tempo per poi essere assalito dai sensi di colpa. Scrivere di musica è per me una bella sfida e un'occasione di mettermi alla prova.

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