Un mondo in miniatura: l’isola di Pasqua

A cura di Francesco Chirico

Stranezze

Era il 1722 quando l’olandese Roggeveen approdò sull’Isola di Pasqua, ma era poco più che un deserto, con pochi abitanti tristi e magri. Non era il primo europeo che passava di lì, e quella breve visita fomentò i dubbi su quella piccola terra lontana da ogni continente. Da dove venivano i primi colonizzatori? Come ci arrivarono, dato che il viaggio in barca minimo era di due settimane? Cosa simboleggiavano quelle immense statue, e soprattutto, come le innalzarono senza legna? Queste domande portarono addirittura a ipotizzare un intervento extraterrestre, ipotesi che non convinceva affatto gli scienziati.

L’Isola di Pasqua è uno dei luoghi più remoti del globo. Adesso c’è un piccolo aeroporto, ma si stima che i primi colonizzatori la raggiunsero con 17 giorni di navigazione in canoa, in pieno Oceano Pacifico. Senza GPS e moderni strumenti, si affidarono al sole, alle stelle e alle rotte degli uccelli migratori.

Con i test del DNA si capì che i colonizzatori furono polinesiani, tesi rafforzata da alcune parole e stili di vita tipici della Polinesia. Partendo dalla Polinesia con le imbarcazioni dell’epoca, la navigazione dura più di due settimane, e si naviga contro le correnti dominanti: non era certo l’opzione migliore! È escluso che si tratti di una scoperta casuale, si trattava di una colonizzazione pianificata a tavolino. Rimane il dubbio più grosso: come sopravvissero senza legna? Dai resti che gli scienziati raccolsero sull’isola divenne subito evidente che la civiltà dell’Isola di Pasqua aveva alberi, e li usava per le barche, per riscaldarsi, per costruire e per innalzare le statue. Analizzando i pollini nel terreno, con un lavoro tutt’altro che movimentato, si scoprì che l’isola era popolata da una rigogliosa vegetazione, con alberi alti fino a 30 metri.

Il boom economico

I polinesiani che si stabilirono qui crearono una civiltà molto avanzata. L’isola era divisa in 11 o 12 zone radiali, sotto un unico capo. Ogni zona aveva poi il proprio capo, come in un moderno stato federale. Si sa inoltre che tra le varie zone c’erano scambi commerciali: ognuna di queste aveva delle risorse particolari, che furono ritrovate in ogni altra zona. Le risorse non erano illimitate, e gli isolani sfruttavano ogni possibilità: costruivano terrazzamenti per l’agricoltura, ricavano le canoe dagli alti alberi della montagna centrale e le portavano in acqua su grosse slitte di legno, cacciavano uccelli e pescavano in alto mare, anche tonni e delfini.

Rappresentazione dei primi colonizzatori polinesiani verso l’Isola di Pasqua. Abili navigatori oceanici, grazie alle canoe ricavate dai grandi alberi della Polinesia. ©moevarua.com

Erano molto coesi gli abitanti quindi, c’era solo una sana competizione tra le zone: per dimostrare di essere i più forti furono erette le famose statue, i moai. Il record fu del moai Paro, con 10 m e 75 tonnellate di peso. Dopo che anche una moderna gru ha fatto fatica a muovere Paro, gli scienziati si arrovellarono il cervello per capire come gli isolani riuscissero a muovere quelle enormi masse di pietra, con solo legno e forza umana. Capirono in fretta che per portare i moai dalla cava alle ahu (le piattaforme su cui venivano posizionati), gli isolani usavano le stesse slitte di legno usate per trasportare le canoe. Come riuscissero poi a issarle, rimaneva un mistero. Provarono quindi a chiedere agli abitanti rimasti sull’isola, e questi, offesi perché non erano stati coinvolti prima, fecero una dimostrazione pratica. Facendo scorrere il moai su un cuneo di pietre, e facendo leva con dei tronchi per infilare man mano altre pietre, eressero senza problemi un moai davanti agli occhi sorpresi degli scienziati. Nel loro massimo splendore, i moai apparivano gialli e rossi, grazie ai colori del tufo appena scolpito e della scoria rossa usata come decorazione. Come prova di ulteriore forza, qualche moai era dotato di un leggero cappellino rosso, il pukao, di sole 12 tonnellate. In occasione di cerimonie, il corallo bianco e la scoria rossa coloravano gli occhi, dando la vista ai moai, che con sguardo penetrante volgevano il volto verso il centro dell’isola.

Fila di moai eretti su una grande piattaforma di pietre (ahu). Uno di questi ha anche il raro pukao, cappello rosso che rappresentava probabilmente il copricapo da cerimonia ricavato dalle piume rosse di un uccello locale. ©Luis Valiente

La fine e l’inizio

La civiltà prosperava bene, tutto era organizzato per il meglio, non si facevano guerre interne come in altre isole polinesiane. Tutto faceva pensare che il futuro fosse roseo e senza intoppi. Eppure, Roggeveen ed altri trovarono solo un deserto e qualche denutrito abitante. Dove sono finiti gli alberi? Perché le statue sono state abbattute? Come è collassata su se stessa questa civiltà? Tutto fu trovato come se un evento improvviso avesse costretto tutti alla fuga: i picconi lasciati per terra nella cava, lavori lasciati inconclusi e segni di lotta. Lo studio dei resti trovati per terra portò in fretta ad una terribile conclusione: una battaglia fratricida tra le zone dell’isola, ma perché?

La civiltà così prospera aveva spinto a sfruttare più risorse di quante l’isola ne producesse. Gli alberi che servivano per quasi tutte le attività degli isolani, finirono. I moai non vennero più eretti, me questo fu il danno minore, si continuò a dimostrare la superiorità abbattendo i moai altrui. Danni più gravi ci furono per il sostentamento: senza canoe, la pesca d’altura cessò, si bruciarono sterpaglie invece che la legna. Senza foreste gran parte della fauna si estinse, e la dieta cambiò drasticamente. Si arrivò in fretta ad una vera propria guerra civile e, inesorabile, arrivò anche il cannibalismo, ultima carta che gli isolani giocarono contro la morte per inedia. 
La conseguenza peggiore della deforestazione fu la fine delle vie di fuga: senza più legno non fu più possibile costruire canoe abbastanza robuste per raggiungere di nuovo la Polinesia. Gli abitanti dell’Isola di Pasqua si erano intrappolati da soli in un mondo senza più risorse! Vista da fuori, la domanda sorge spontanea: cosa pensava l’uomo che tagliò l’ultimo albero? 

Da quel collasso ecologico, flora e fauna sull’Isola di Pasqua non si sono ancora riprese, ma la popolazione ora vive di turismo, conscia della limitatezza delle risorse.
Questa piccola civiltà potrebbe essere un trailer del prossimo futuro terrestre. Noi ora abbiamo il vantaggio di sapere esattamente cosa stiamo facendo su tutto il globo, sappiamo quanti alberi rimangono e possiamo sapere se quello che stiamo tagliando è l’ultimo. Possiamo quindi evitare il collasso della nostra civiltà, e dobbiamo agire in fretta per farlo. 
Abbiamo anche un piano B: Marte. La NASA, l’ESA (European Space Agency), SpaceX e chiunque si stia cimentando nell’esplorazione spaziale, stanno volgendo gli occhi verso il pianeta rosso. La speranza è quella di raggiungere una nuova terra da colonizzare, ma non possiamo permetterci di affidarci solo a questa ipotesi.

Al contrario, abbiamo la possibilità e il dovere morale di mandare avanti la civiltà con le “sole” risorse del nostro pianeta.

FONTI: Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere – Jared Diamond

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