Cos’è il Bds e perché non è un movimento antisemita

Nel corso del suo ultimo viaggio in Medio Oriente l’attuale segretario di Stato americano Mike Pompeo ha visitato la colonia israeliana di Psagot, in Cisgiordania, diventando così il primo diplomatico statunitense a mettere piede in uno degli insediamenti situato oltre la Linea Verde. Insediamenti che, per la stragrande maggioranza della “comunità internazionale”, rappresentano una violazione del diritto internazionale.

Durante la sua visita, Pompeo ha annunciato che l’amministrazione americana autorizzerà l’utilizzo della provenienza “Israele” per i prodotti locali (vino, nel caso di Psagot) esportati negli Stati Uniti. Poco più di un anno fa la Corte di Giustizia europea aveva decretato che per quegli stessi prodotti fosse obbligatorio segnalare i “territori occupati” come provenienza, e le dichiarazioni di Pompeo assumono quindi un forte valore simbolico e denotano, per l’ennesima volta, la volontà dell’attuale amministrazione americana di agire in modo autonomo e indiscriminato e di ignorare, di fatto, ciò che viene stabilito a livello istituzionale da un organo di giustizia internazionale.

Il segretario di Stato si è addirittura spinto oltre, arrivando a criminalizzare e a promettere “di considerare come antisemita” il movimento e la campagna internazionale del Bds (Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni).

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Il movimento Bds nasce nel 2005 su iniziativa di oltre 170 organizzazioni, network e associazioni professionali della società civile palestinese che hanno deciso di unire le forze e di lanciare un appello internazionale per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni come forma di protesta non-violenta nei confronti dello Stato di Israele e delle sue continue violazioni del diritto internazionale.

Le richieste del movimento sono principalmente tre: la fine dell’occupazione e della colonizzazione di tutte le terre arabe (il diritto internazionale, infatti, riconosce Cisgiordania, comprendente Gerusalemme est, Striscia di Gaza e alture del Golan come territori occupati da Israele); il riconoscimento di pari diritti per i cittadini arabi di Israele (i cittadini arabi sono infatti soggetti a leggi discriminatorie che limitano fortemente la loro libertà e impattano sul loro stile di vita); il rispetto e la protezione del diritto dei cittadini palestinesi alle loro terre in base a quanto prescritto dalla risoluzione 194 delle Nazioni Unite.

La campagna Bds non ha come bersaglio o obiettivo i cittadini dello stato di Israele, ma individua e delinea delle strategie di lotta non-violenta nei confronti delle imprese e delle istituzioni israeliane. Gli strumenti adottati dal movimento sono appunto:

  • il boicottaggio delle attività commerciali israeliane insieme alle sue istituzioni culturali, artistiche, accademiche, sportive nonché delle aziende internazionali coinvolte nel sistema israeliano di apartheid.
  • il disinvestimento dalle aziende israeliane e da quelle internazionali che sono complici delle violazioni israeliane e che da esse traggono profitto;
  • la richiesta di sanzioni nei confronti di Israele per le sue violazioni del diritto internazionale.
Roger Waters, uno dei membri fondatori dei Pink Floyd, e l’attrice Lea Seydoux durante la presentazione del trofeo del Roland Garros, a Parigi nel 2018. Waters è un attivista per i diritti del popolo palestinese ed è sostenitore del Bds dal 2011 (telesur)

Il movimento, dunque, fonda la propria azione sul richiamo al rispetto del diritto internazionale e alla tutela dei diritti umani. Come viene esplicitato chiaramente nel documento programmatico, il movimento rifiuta ogni genere di discriminazione razziale, politica, religiosa e di genere e rifiuta l’antisemitismo, il razzismo, l’islamofobia e ogni ideologia fondata su presunte supremazie etniche o razziali. Il Bds ha un organo di coordinamento, il Comitato nazionale del Bds (BNC), che ha il ruolo di guida a livello internazionale e individua e coordina le campagne da portare avanti.

Nello scorso giugno, inoltre, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha emesso una storica sentenza che stabilisce che gli appelli al boicottaggio non violento di prodotti di un certo paese non costituiscono una violazione del principio di libertà di espressione. Con questa sentenza, la corte ha ribaltato il verdetto emesso nel 2015 dalla Corte suprema francese, secondo la quale i richiami al boicottaggio costituivano appunto una violazione dell’articolo 10 (relativo alla libertà di espressione) della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

Attualmente, una delle mobilitazioni più sentite e note a livello internazionale è quella che riguarda la richiesta di boicottaggio nei confronti del marchio di abbigliamento sportivo tedesco Puma, sponsor della Federcalcio israeliana (IFA) e accusato dagli attivisti del Bds di sostenere la costruzione di insediamenti nei territori occupati e di favorire l’espropriazione delle terre ai palestinesi. L’IFA, infatti, comprende 6 squadre con sede nelle colonie israeliane e la stessa Human Rights Watch ha auspicato che, da parte della FIFA (la Federazione Internazionale di Calcio), si arrivi alla decisione di impedire che partite di calcio del campionato israeliano vengano giocate all’interno dei territori occupati.

Altre campagne lanciate e promosse dal Bds sono quelle che riguardano il boicottaggio accademico (PACBI, Campagna palestinese per il boicottaggio accademico e culturale di Israele) e l’embargo militare. Il movimento, quindi, oltre ad esprimere chiaramente nel proprio programma il rifiuto categorico di ogni genere di discriminazione, agisce e opera attraverso una rete internazionale di organizzazioni e, grazie al sostegno e alla partecipazione individuale di attivisti per i diritti umani, promuove iniziative volte a penalizzare aziende (oltre alla Puma si cita il caso della compagnia assicurativa AXA) che, intrattenendo rapporti commerciali di varia natura con Israele, vengono accusate di favorire le violazioni del diritto internazionale di cui lo stato sionista si rende colpevole in base a quanto stabilito dalle stesse Nazioni Unite.

E’ chiaro come Pompeo, nel corso della sua visita, abbia cercato di strumentalizzare la questione dell’antisemitismo per criminalizzare e delegittimare un movimento che ha come unico scopo quello di contrastare l’espansionismo di Israele e le violazioni delle norme internazionali di cui si rende colpevole con la complicità esplicita degli Stati Uniti d’America, in particolare modo sotto la presidenza di Donal Trump. Secondo molti lo stesso Pompeo potrebbe essere un credibile candidato repubblicano per la corsa alla Casa Bianca del 2024; la recente visita in Terra Santa, durante la quale Netanyahu ha detto dell’ex direttore della CIA che “Israele non ha mai avuto un amico migliore”, avrebbe anche lo scopo di garantire a Pompeo l’appoggio dello stato sionista (la cui estrema vicinanza con la comunità cristiana evangelica americana, che fu decisiva per la vittoria repubblicana del 2016, è ben nota) per un’ipotetica candidatura, fermo restando il rapporto privilegiato che intercorre tra “Bibi” e Donald Trump.

Al di là delle considerazioni riguardanti il futuro politico di Pompeo, però, le dichiarazioni del segretario di Stato americano alimentano ancora una volta il dibattito sull’antisemitismo e soprattutto sulla confusione che spesso viene, anche volutamente, creata nei confronti della necessaria distinzione tra antisemitismo e antisionismo. Nel 2016 la International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA) ha adottato una definizione di antisemitismo che, seppur adottata e accettata da vari paesi (tra cui l’Italia, lo scorso 17 gennaio), ha sollevato e solleva tuttora vari dubbi e perplessità proprio in merito alla tendenza all’equiparazione tra antisionismo e antisemitismo.

Lo scorso 29 novembre il Guardian ha pubblicato una lettera aperta di 122 attivisti, professori universitari e giornalisti palestinesi che hanno espresso le proprie preoccupazioni riguardo all’adozione della definizione dell’IHRA e all’impatto che essa può avere sulla tutela dei diritti dei palestinesi. Secondo i firmatari della lettera, uno dei principali problemi sarebbe legato agli esempi pratici che l’IHRA accompagna alla definizione, e che rischiano di confondere i concetti di sionismo e ebraismo presentando lo stato di Israele come incarnazione dell’autodeterminazione di tutti gli ebrei. Inoltre, le accuse di antisemitismo rivolte a gruppi di difesa dei diritti umani di sinistra avrebbero contribuito a sminuire la minaccia che ancora oggi l’ampia diffusione del razzismo e del suprematismo nei movimenti di estrema destra europei e americani rappresenta per le democrazie occidentali.

Come riporta invece Haaretz, l’associazione ebrea statunitense Americans for Peace Now, che si definisce “orgogliosamente a favore di Israele” e che è nata con lo scopo di trovare una soluzione alla questione israelo-palestinese, ha a sua volta pubblicato un appello in cui la definizione dell’IHRA viene fortemente attaccata e si mette in luce come questa venga utilizzata per delegittimare qualunque movimento critico nei confronti di Israele e delle politiche che mette in atto.

Il dibattito sulla corretta definizione di antisemitismo è senza dubbio complicato e non è intenzione di chi scrive affrontare in questa sede la questione. Tuttavia, se è ben chiaro che l’antisemitismo e il razzismo di alcuni gruppi politici estremisti rappresentano ancora un problema in gran parte del Pianeta, deve essere altresì chiaro che la soluzione al problema non può che passare attraverso una netta distinzione tra antisemitismo e antisionismo.

Ha suscitato particolare scalpore il recente caso dell’ex leader laburista Jeremy Corbin, alla guida del partito (che portò alla soglia del 40% nel voto popolare alle ultime elezioni generali per il parlamento britannico) tra il 2015 e il 2019.

Corbyn è stato di fatto “purgato” dal partito dopo aver definito “esageratamente aggravate” le accuse di antisemitismo rivolte alla sua direzione del Labour Party. Secondo le accuse, i vertici del partito hanno agito in modo illegalmente vessatorio e discriminatorio nei confronti delle denunce di comportamenti antisemiti ai danni di membri di religione ebraica. Corbyn, la cui leadership aveva segnato un’inversione di tendenza rispetto alla deriva centrista post-Blairiana del Partito Laburista e che nel 2016 avviò effettivamente un’indagine interna al partito per indagare sulla presenza di membri antisemiti, paga sicuramente la propria militanza a favore dei diritti dei palestinesi (e degli irlandesi) e viene attaccato strumentalmente dalla nuova guida del partito, Keir Starmer, desideroso di ricucire lo strappo venutosi a creare con le numerose associazioni ebraiche laburiste pro-Israele. E’ stato proprio lo stesso Starmer, meno di un mese fa, a decidere che Corbyn dovrà sedersi nell’aula come membro indipendente, nonostante la decisione del Comitato esecutivo nazionale di riammettere l’ex leader nella fila del partito dopo l’allontanamento di fine ottobre.

Ancora una volta, è giusto ribadire che la presenza di sentimenti antisemiti da parte di singoli esponenti del Partito Laburista va accertata e arginata. Ma usare come capro espiatorio chi, come Corbyn, ha costruito la propria carriera politica sui valori dell’antirazzismo e dell’equità sociale non aiuta a risolvere il problema e significa solamente fare un favore a quei gruppi che dell’antisemitismo e del razzismo hanno fatto una bandiera.

Classe 1989. Ho studiato scienze politiche e cooperazione internazionale. Appassionato di montagna e di sport, seguo e studio la realtà mediorientale

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