Alla conquista di Marte!

Per la maggior parte di noi, lo spazio esiste principalmente nella nostra immaginazione. Libri, cinema, serie tv hanno contribuito a creare una visione utopistica della conquista dello spazio da parte dell’uomo. Ci siamo così convinti che la futura (forse quanto mai prossima) colonizzazione dello spazio sarà compiuta da uomini migliori di quelli che hanno “civilizzato” la terra. Elon Musk, che già progetta insediamenti umani sul pianeta rosso, sembra molto attento alle tematiche ambientaliste. Ma siamo già diventati quegli esseri superiori in grado di trovare un equilibrio fra sviluppo umano e ambiente? Esistono delle norme che regolino il comportamento nello spazio e ci “obblighino” a comportarci meglio?

L’esplorazione dei corpi celesti è un argomento che non può non entusiasmare. Stuzzica la fantasia dandoci l’opportunità e la speranza di evadere da un mondo sempre più difficile da abitare, minacciato da guerre, disastri ambientali e crisi economiche. Apre le porte a una possibile redenzione del genere umano. Molti (forse tutti) di questi problemi avrebbero potuto essere evitati grazie a una gestione più rispettosa ed etica delle risorse a nostra disposizione. Talvolta, però, inconsciamente spostiamo il problema dalla parte che può attivamente fare qualcosa per cambiare, alla parte che ha subito e subisce. Pensiamo che i problemi magicamente scompaiano cambiando pianeta. Certamente è vero che anche sbagliando si impara, ma abbiamo davvero compreso la lezione?

Credits: Cokada/Getty Images

Storicamente possiamo trovare un “piccolo” precedente della dinamica della conquista di nuovi mondi: la colonizzazione europea delle Americhe, che non può esattamente dirsi un successo dal punto di vista dello “sfruttamento sostenibile delle risorse” (passatemi la provocazione). Certo, all’epoca non c’era una sensibilità di questo tipo, specie riguardo ai diritti umani, né conoscenze scientifiche adeguate. Sicuramente, però, non è un caso che oggi nel vivace dibattito sull’etico sfruttamento delle risorse spaziali non manchino scienziati e attivisti rappresentanti delle popolazioni native dei territori colonizzati in passato.  

Le esperienze passate e in particolare le conseguenze della colonizzazione e delle guerre mondiali hanno portato la Comunità Internazionale a siglare numerose convenzioni e patti sui diritti umani e in generale a condividere determinati valori. Naturalmente, l’intento era quello di evitare che certi orrori si ripetessero. In particolare, proprio durante la Seconda Guerra Mondiale, si consolida il diritto all’autodeterminazione dei popoli (è una delle condizioni che gli Stati Uniti impongono agli alleati). Si tratta di una delle poche regole ferree del diritto internazionale.

Per riprendere le parole delle dichiarazioni ONU, il diritto all’autodeterminazione “è il diritto dei popoli sottoposti al dominio straniero di divenire indipendenti … di scegliere liberamente il proprio regime politico”. Poiché nel diritto vige il principio per cui le norme non si applicano al passato, non è possibile applicare il principio retroattivamente. Dunque il principio è inapplicabile alle popolazioni indigene delle Americhe. Tuttavia è assai probabile che laddove comparissero i famigerati omini verdi su un pianeta, saremmo costretti a fare un passo indietro (ammesso che non ci si inventi qualche fine stratagemma per non estendere la norma ai non terrestri e che non siano loro ad imporre ben altro a noi!).  

Poiché ad oggi non si è ancora fatto vivo nessuno, dobbiamo lavorare con gli elementi che abbiamo. Ragioniamo allora sulla base dell’ipotesi che Marte, probabile futuro insediamento umano, sia effettivamente deserta. Verrebbe naturale estendervi le norme a tutela dell’ambiente elaborate sin ora. Inutile elencare gli innumerevoli trattati e convenzioni internazionali a tutela dell’ambiente, nonché gli obiettivi dell’Agenda ONU 2030 e i Green Deal approvati dagli USA e in seno all’Unione Europea. Eppure, anche chi auspica un utilizzo etico delle risorse spaziali dubita che le norme oggi vigenti a tutela dell’ambiente risultino estensibili allo spazio. La regolamentazione ambientalista, infatti, fa riferimenti alla biosfera terrestre, all’ecosistema, agli organismi viventi. Se davvero su Marte non non c’è vita, questi concetti sono inapplicabili.

Si potrebbe forse ipotizzare l’utilizzo di un meccanismo giuridico, l’analogia legis che consente  di applicare norme giuridiche che regolano casi simili o materie analoghe a una questione non regolamentata. Tuttavia, potrebbe rivelarsi uno strumento debole. Diversi privati, fra questi l’ex CEO di Google Eric Schmidt, hanno iniziato ad investire nella ricerca sui viaggi spaziali con finalità tutt’altro che “eco-friendly”. L’idea è infatti quella di trivellare asteroidi ancora in orbita per ricavarne risorse minerali.

Come se ciò non bastasse, lo spazio è già pieno di vera e propria spazzatura (come non pensare alla palla di immondizia di Futurama!), costituita in prevalenza da detriti di satelliti fatti esplodere. Se oggi qualcuno potesse passeggiare su Marte vedrebbe strumentazioni abbandonate, utilizzate per l’atterraggio delle sonde. Dinanzi a simili attività occorre una legge chiara, scritta nero su bianco e che sia internazionalmente riconosciuta (inutile dire che per regolamentare lo spazio a poco servirebbero le legislazioni nazionali). 

Credits: Marc Ward/Getty Images

Un accordo sui corpi celesti in verità esiste. L’Outer Space Treaty fu siglato nel lontano 1967 dall’Unione Sovietica, gli Stati Uniti e il Regno Unito e ad oggi 111 Stati sono parti dell’accordo. Esso costituisce l’unica base giuridica internazionale sull’utilizzo dei corpi celesti. Il Trattato, però, come ogni buona legge, è figlio del suo tempo e inizia a mostrare la sua età. Il suo contenuto infatti verte sul divieto di conquista territoriale dei corpi celesti da parte di uno Stato, onde mettere un limite alla “corsa alla luna”, stabilendo che essi sono patrimonio dell’umanità. Impone agli stati di “utilizzare” lo spazio unicamente per scopi pacifici, vietando tra l’altro l’impianto di armi di distruzione di massa nello spazio e basi militari. Scremando il trattato dalle norme di chiara connotazione storica, il principio che se ne ricava è che nessuno può conquistare i corpi celesti e che l’esplorazione spaziale dev’essere orientata al benessere di tutti, ma non pone precise norme di comportamento.

L’unica norma specifica è forse l’art. 9 che pone il divieto di contaminazione di Marte con microbi terrestri e viceversa. A fronte del sempre maggiore coinvolgimento di soggetti privati nelle attività spaziali, le Nazioni Unite con una risoluzione dell’11 dicembre 2013 raccomandavano agli stati l’adozione di regolamentazioni nazionali per vincolare maggiormente le iniziative private. La raccomandazione pone come punto di riferimento, per forza di cose, il Trattato summenzionato, che però come abbiamo visto sul tema resta vago.

Lo sfruttamento delle risorse per fini commerciali, come la trivellazione o la stanziamento di insediamenti umani per la ricerca o il divertimento sono in sé utilizzazioni pacifiche. Di conseguenza non sono vietate dal Trattato. Tuttavia, comportano modificazioni permanenti della risorsa e sono – almeno per ora – accessibili a pochissimi. Non sembrano dunque orientati al benessere di tutti, ma solo di quei pochi in grado di sostenere gli ingenti costi di un viaggio spaziale. Questi pochi, poi, si stanno già mobilitando, muovendosi sostanzialmente in un vuoto legislativo.

Credits: Spencer Platt/Getty Images

Per sfruttare una risorsa sulla terra, gli imprenditori devono pagare delle royalties e seguire il principio del chi inquina paga. Nel protocollo di Kyoto ad esempio, si utilizza il meccanismo del cap and trade, con il quale viene stabilito un tetto massimo per l’inquinamento che è possibile produrre. La quantità di inquinamento possibile viene divisa in quote distribuite fra le imprese, che possono a loro volta rivendersele. Un’impresa è così incentivata ad aggiornare la propria tecnologia, in modo da non necessitare delle “quote verdi” che potrà quindi rivendere ad altre imprese rivali.

Vi sono, inoltre, delle tasse ambientali imposte alle aziende che producono inquinando. I controlli pubblici sono assai stringenti ed è necessario ottenere un’autorizzazione ad hoc se l’attività che si intende svolgere ha un impatto ambientale. Regole e meccanismi analoghi dovrebbero essere imposti anche alle attività di utilizzazione dello spazio, sempre laddove si ritenga che le stesse siano ammissibili. Queste regole dovrebbero entrare in vigore il prima possibile, considerato che la legge stabilisce solo per il futuro e che gli investitori sono già in azione. 

A fronte di queste preoccupazioni, nell’ottobre 2020 è stato presentato alla NASA un documento sottoscritto da più di cento scienziati nel quale si incoraggia un’esplorazione etica, l’abbandono di pratiche colonialiste e la prevenzione dello sfruttamento capitalistico dello spazio. Secondo alcuni, però, sfruttamento etico significa sfruttamento che fa “bene all’uomo”. A questa argomentazione ci sarebbero da opporre due tipi di obiezioni. Primo, dire che lo spazio appartiene al patrimonio dell’umanità significa dire che appartiene all’intero genere umano. Non va invece confuso con una res nullius della quale può appropriarsi chiunque ne ha il potere.

Patrimonio dell’umanità in inglese è world heritage, dove heritage vuol dire anche eredità, ossia una cosa che è destinata ad essere trasmessa alle future generazioni. La seconda obiezione prende spunto dai movimenti ambientalisti. A fronte dei disastri naturali causati o accelerati dall’azione umana, appare ormai necessario affrontare queste problematiche da una diversa prospettiva. È infatti irrealistico pensare all’universo come a un oggetto di dominazione umana, ma come a un soggetto con cui convivere, o meglio, in cui vivere.

Pugliese per nascita (e per scelta), un po' milanese per adozione. Avvocato per caso, giurista per passione.  Ama pensare che il diritto, in quanto creazione umana, debba migliorare la vita di tutti gli esseri viventi ..E non complicarla!

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