Disunited States of America – 8. Niente di nuovo sul fronte occidentale

Come ormai abbiamo imparato, le elezioni negli Usa non si decidono su scala nazionale ma stato per stato. Nessuna delle 50 stelle è uguale all’altra – e siamo d’accordo – ma alcune di loro hanno caratteristiche storiche, sociali, culturali e in definitiva politiche abbastanza omogenee. Questa è l’ultima di otto tappe con cui The Pitch ha provato a condurvi nelle pieghe del gigante americano. Molto meno monolitico e più sfaccettato di quanto siamo abituati a pensare. Perché ancora una volta sarà una manciata di stati-chiave a definire il nome del prossimo Presidente.

Siamo arrivati al grande giorno e, con esso, alla fine del nostro coast to coast. Eccoci sulla costa Ovest, quella che si affaccia sul Pacifico. È l’area più liberal del paese insieme al Nordest e, come il Nordest, un feudo democratico inespugnabile. Non è sempre stato così, però. La California, il più popoloso dei 50 stati dall’alto dei suoi 40 milioni di abitanti, addirittura sotto-rappresentato dai suoi 55 grandi elettori, fino agli anni Ottanta era un presidio repubblicano: Reagan qui nel 1984 prese oltre un milione e mezzo di voti in più del candidato dem Walter Mondale. Cosa è cambiato da allora? La crisi economica che ha colpito la Silicon Valley all’inizio degli anni Novanta e la transizione da un’economia industriale a una postindustriale dominata dai servizi terziari e dell’high technology. Un fenomeno epocale in grado di rivoluzionare la società, i suoi valori e la sua mentalità.

Messaggi inequivocabili per il presidente uscente

In netto contrasto con la svolta a destra compiuta negli stessi anni dal Gop, la società californiana ha conosciuto nell’ultimo trentennio una forte virata a sinistra, facendo del Golden State un avamposto di multiculturalismo e ambientalismo. Senza contare che anche qui la crescita delle minoranze, non solo ispaniche (fortissima è sempre stata quaggiù l’immigrazione asiatica), ha contribuito alla crescita dei consensi del Partito democratico, così come la presenza di grandi centri urbani dinamici e in continua espansione. Il fatto che quasi metà della popolazione dello stato viva tra le aree metropolitane di Los Angeles e San Francisco, composte da lavoratori bianchi della middle-class, professionisti colti e minoranze etniche, ha fatto sì che ormai i consensi per i repubblicani si limitino alle contee più interne, lontane dalla costa e dai grandi centri. Nessuna chance per Trump.

Saldamente democratici sono anche l’Oregon (7 delegati) e soprattutto lo stato di Washington (12), unico della costa Ovest a non votare per Nixon alle elezioni del 1972. Seattle e Portland, centri nevralgici dei due stati, sono sinonimi di cultura liberal. Qui le posizioni del partito dell’asinello sono tra le più radicali dell’intero panorama statunitense: alle primarie del 2016, le ultime in cui si è votato in questi due stati, Sanders ha letteralmente trionfato su Hillary Clinton. Su Portland, poi, pesano i pesanti scontri di agosto legati alle proteste del movimento Black Lives Matter. Un ulteriore tassello nel mosaico di una regione ormai indissolubilmente legata ai destini dei democratici. Discorso analogo riguarda le Hawaii (4 grandi elettori), che si tingono di blu ininterrottamente dal 1988. Agli antipodi l’Alaska (3): il più esteso stato dell’Unione è rosso dal lontano 1968.

Riassumendo

Insomma, giunti alla fine di questo viaggio lungo due mesi, cosa dobbiamo aspettarci?Quella che vedete qui sopra è la situazione di partenza. Come – direte voi – non votano tutti gli stati insieme? Certamente. E anche chi ha votato prima (per posta e di persona, e sono molti) l’ha fatto allo stesso modo in tutti gli stati. Questa però è la situazione “di partenza” dando cioè per scontati i risultati di stati che – per ragioni storiche, politiche e demografiche – a meno di cataclismi stanotte (e chissà per quanto ancora) non cambieranno colore. Come vedete, sono molti gli stati già “decisi” (motivo per cui quelli da tenere d’occhio nella lunga notte elettorale non sono più di una dozzina) e il vantaggio di Biden “in partenza” è consistente (91 delegati) e di conseguenza la sua road to 270 (la fatidica soglia di maggioranza sui 538 delegati totali) decisamente meno impervia.

Ora, tralasciando per ragioni di tempo e semplicità le cervellotiche regole vigenti in Maine e Nebraska (per chi volesse, ne avevamo parlato qui), resta per l’appunto da assegnare una dozzina di stati: di questi, Nevada e Minnesota si possono comodamente attribuire a Biden e il Texas a Trump. Non che in Texas non ci sia partita (tutt’altro) ma se durante la notte sentite dire “il Texas è di Biden” potete pure spegnere tv o computer e andare a dormire. Escludendo quindi l’Iowa, tanto in bilico quanto poco pesante dal punto di vista dei delegati, il lotto degli stati decisivi si riduce a otto. A Biden mancano meno di 40 grandi elettori, che può raccogliere mettendo insieme diverse combinazioni, la più semplice delle quali passa da Arizona e Florida. A Trump ne invece mancano ancora più di un centinaio. Motivo per cui degli otto stati rimanenti può permettersi di perderne al massimo due.

Nelle puntate precedenti:
1. Il fortino del Nordest
2. “Rust Belt” ancora decisiva?
3. Il (profondo?) Sud
4. Il rebus della Florida
5. In Texas c’è partita?
6. Il vecchio Midwest
7. Il West in bilico

Emiliano Mariotti è nato a Milano nel 1991, si è laureato in Storia e poi ha frequentato la Scuola di Giornalismo “Walter Tobagi”. Giornalista di nome ma comunicatore di fatto, sogna di scrivere come Gianni Mura ma si accontenterebbe di fare il corrispondente da Istanbul.

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