Harold Pinter e l’ipnotico linguaggio del potere

Definire politico un autore è sempre un’arma a doppio taglio: si rischia di ridurre l’opera a un messaggio propagandistico o di collocare la produzione artistica in un casellario preordinato. Si rischiano inoltre appropriazioni indebite e inutili speculazioni su ipotetiche influenze. Come al solito, le definizioni sono buone da pensare ma lasciano il tempo che trovano. Tuttavia, da un certo punto di vista, l’opera d’arte è di per sé un atto politico. Restringendo al teatro, nell’etimo della parola c’è la radice del verbo greco vedere: implica qualcuno che guarda qualcun altro che fa qualcosa. Implica uno spazio condiviso e un atto comunicativo. Anche nel teatro che meno vuole occuparsi di politica, pensiamo all’intrattenimento o al dramma borghese, anche dove non esiste una bandiera politica, esiste una scelta: cosa dire, cosa non dire, dove, in che modo.

Harold Pinter vince il premio Nobel per la Letteratura nel 2005 con la seguente motivazione: «Pinter rivela il baratro che si nasconde sotto le chiacchiere di tutti i giorni e si fa strada nelle stanze più segrete dell’oppressione». Risponde con un appassionato discorso dall’eloquente titolo Art, Truth & Politics che comincia così: «Nel 1958 scrissi quanto segue: Non ci sono distinzioni rigide fra quello che è reale e quello che è irreale, e neppure fra ciò che è vero e ciò che è falso. Una cosa non è necessariamente vera o falsa; può essere contemporaneamente vera e falsa. Credo che queste asserzioni abbiano ancora senso e si applichino ancora all’esplorazione della realtà attraverso l’arte. Come scrittore posso sottoscriverle, ma come cittadino no. Come cittadino devo chiedere: che cosa è vero? che cosa è falso? La verità nel dramma è sempre elusiva. Trovarla non è quasi mai possibile, ma cercarla è un obbligo».

Indira Varma e Harold Pinter durante una scena di One for the road al New Ambassadors Theatre di Londra, prodotto dal Gate Theatre di Dublino nel 2011. Fotografo: Tristram Kenton/The Guardian

Prosegue, ma non parla di letteratura né di teatro. Sceglie di parlarci della politica estera americana a partire dalla Seconda guerra mondiale e di come, attraverso una sorta di ipnotica riprogrammazione linguistica, l’America abbia distorto la percezione e costruito un nuovo statuto di realtà: «La lingua viene utilizzata per tenere sotto scacco il pensiero. Le parole il popolo americano offrono un cuscino francamente voluttuoso destinato a rassicurare. Non avete bisogno di pensare. Non dovete fare altro che sdraiarvi sul cuscino. Può darsi che questo cuscino soffochi la vostra intelligenza e il vostro senso critico, ma è molto confortevole».

Paapa Essiedu e Kate O’Flynn in una scena di Mountain Language, regia di Jamie Lloyds, Harold Pinter Theatre Londra, 2018 – Fotografo: Marc Brenner

Pinter ci racconta il potere della parola, la lingua che cambia il mondo. Chi detiene il potere decide cosa si può dire e chi può parlare. Diritto di parola è diritto di esistenza. Il linguaggio di Pinter è veloce, scarno. La parola non indica quasi mai il pensiero, che si muove insidioso sotto termini vaghi e comuni. Tra pensiero e parola c’è una tensione, seguono percorsi diversi, spesso opposti. Il pensiero vive e si impone attraverso rigorose pause e rigorosi silenzi. Il silenzio è sospensione, fiato trattenuto. Le relazioni sono gerarchiche, rapporti di potere che vivono nel non detto, mentre si parla d’altro.

L’indagine sul linguaggio come specchio e strumento di una violenza strutturale comincia con il Calapranzi e il Compleanno nel 1958 ed evolve fino alle più crude ed esplicite Il Bicchiere della Staffa (1984), Il Linguaggio della Montagna (1988), ispirato all’oppressione del popolo curdo da parte del governo turco. Pinter ci mostra la costruzione di un rapporto dialogico che mira alla messa in discussione, all’umiliazione, all’annichilimento dell’identità dell’altro, che costruisce l’ordine eliminando la diversità e riducendo al silenzio.

John Culshaw in una scena di The Pres and the officer, regia di Jamie Lloyds, Harold Pinter Theatre Londra, 2018. ‘Fotografo: Marc Brenner

Harold Pinter morì nel 2008. Due anni fa la moglie, Antonia Fraser, strappando distrattamente un foglietto giallo da un vecchio blocco per appunti, trovò una scritta: The Pres and the officer. La grafia era quella del marito, seguivano sei pagine di un breve atto unico inedito in cui un testosteronico presidente degli Stati Uniti, fieramente alcolizzato in privato (ma che per amore di Dio aveva pubblicamente abiurato all’alcol), ordinava di sganciare una bomba nucleare su Londra, per ignoranza della geografia e sprezzo del Congresso americano e della comunità internazionale. Le veniva chiesto spesso come suo marito avrebbe ritratto l’attuale Presidente degli Stati Uniti e in questo breve sketch, la vedova Pinter suggerisce, troviamo la risposta. Presentato in anteprima mondiale all’Harold Pinter Theatre di Londra nell’autunno del 2018, il Presidente della pièce era chiaramente Donald Trump.

Nasce a Venezia dove si laurea in antropologia. Si diploma attrice a Milano. Vive a Roma nel quartiere di TorPignattara. Non sapendo dipingere, si dedica senza successo all' arte del collage.

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