I mimi e la tragica parodia coloniale

Un popolo di imitatori, destinato a perpetuare gesti e pose altrui, ridotto a copia sfocata dei propri colonizzatori. È la tragica parodia de I mimi, romanzo dello scrittore trinidadiano naturalizzato britannico V.S.Naipaul. C’è un po’ di autobiografia nell’opera del premio Nobel per la letteratura 2001, nato nello stato insulare scoperto da Cristoforo Colombo durante il suo terzo viaggio e possedimento spagnolo fino al 1797, quando passò sotto l’impero britannico per poi proclamare l’indipendenza nel 1962. Il protagonista del romanzo Ralph Kirpal Singh, un giovane coloniale di origine indiana, racconta la sua dolorosa esperienza di esule che, partito dall’immaginaria isola natia di Isabella, immersa nel turchese del Mar dei Caraibi – in cui non è difficile ritrovare i tratti della stessa Trinidad –, tenta a fatica l’integrazione nella Londra del secondo dopoguerra. Caratterizzato dall’ampio respiro tipico del Bildungsroman, il romanzo di formazione, I mimi scardina qualsiasi linearità temporale per sottolineare come l’evoluzione del protagonista dalla giovinezza all’età adulta sia marchiata costantemente da un senso di vuoto e di mancanza di integrità.

© Colin McPherson / BBC

Le radici di questa profonda crisi identitaria sono da ricercare nell’ambiguità della provenienza di Singh. Il padre è un maestro ed è povero, la madre appartiene a una delle famiglie più ricche dell’isola, proprietaria della fabbrica di imbottigliamento della Coca-Cola per il mercato locale. Singh viene iscritto all’Isabella Imperial College, una prestigiosa scuola dove gli insegnanti, così come i libri di testo, vengono spediti direttamente dalla madrepatria. Ed è qui, in questa realtà ovattata – ben lontana dalla storia di oppressione e umiliazione del popolo caraibico – che la vita di Singh comincia a caricarsi di segreti. Modifica il suo vero nome per imitare quello di un compagno di classe figlio di un’antica famiglia francese di ex schiavisti, prende le distanze dal padre e mantiene il riserbo sulla vita della famiglia, legge dei rajput di nascosto e si perde a sognare cavalieri che percorrono in lungo e in largo l’Asia centrale. La paura di essere smascherato, il peso insopportabile dei segreti, la sensazione di essere un naufrago, fuori posto in mezzo alla gente, lo costringono ad abbandonare l’isola per inseguire il mito della città.

L’arrivo a Londra però – come succede a molti coloni caraibici – delude le sue aspettative. L’incanto della luce della metropoli lo travolge, ma presto Singh si rende conto che si tratta di «una luce morta, fluorescente, che sembrava artificiale». In fuga dal disordine della sua isola, il protagonista arriva nella madrepatria nella speranza di trovare un principio di ordine. Ad attenderlo, però, c’è solo un «agglomerato di celle separate». La magia della città svanisce, e rende evidente la desolazione del luogo e della gente che lo abita. Durante le serate passate nella pensione dove alloggia, Singh percepisce le persone intorno a sé come presenze bidimensionali che, permeate dalla sensazione di spaesamento, solitudine e dalla perdita di un senso di appartenenza, si ritrovano a interpretare un personaggio, a indossare una maschera. Diventano mimi – come suggerisce il titolo del romanzo – del modello dominante, rinunciando alla propria specificità e autenticità. E così Singh si crea il personaggio del ricco coloniale eccentrico, il dandy irriverente e sicuro di sé, dedito alla conquista di giovani donne di cui tiene nota nel suo diario. Perde la propria solidità, riducendosi a «mero organo di senso», influenzato solo da incontri scollegati e avventure disordinate. Londra si rivela l’ennesimo fallimento: conclusi gli studi universitari, Singh decide di ripartire con una moglie bianca e i sogni spezzati alla volta di Isabella.

© Getty

Tornare così presto a un paesaggio che considerava allontanato per sempre è un’umiliazione. Diventato un imprenditore di successo, il protagonista decide di entrare in politica in un periodo particolare per l’isola, da poco avviata verso l’indipendenza. Coinvolto nel movimento nazionalista e nel nuovo governo di transizione, e vestito il personaggio di difensore dei poveri colonizzati, Singh è destinato a vivere l’ennesimo grande naufragio della sua vita. L’indipendenza promessa dell’isola, infatti, si rivela essere un’illusione: la società è corrotta, contaminata fin nell’essenza, e gli sforzi dei politici sono inquinati da un passato che non riesce a sottrarsi al giogo coloniale. Nelle parole di Singh risuona la critica che lo stesso Naipaul – plasmato anch’egli dalla dominazione di stampo coloniale – muove verso il processo di decolonizzazione, visto come una sospensione irrisolta tra un passato imposto con la violenza e un futuro incerto, con un popolo disabituato a ragionare e a scegliere, defraudato delle risorse, delle conoscenze e della propria autenticità.

Ogni tentativo di ancorarsi a una qualche realtà identitaria sembra destinato al fallimento, al naufragio. In un climax di violenze interne all’isola, Singh viene accusato di voler creare divisioni razziali ed escluso dal potere. Decide così di tornare a Londra, ritirandosi in un piccolo albergo della periferia. Quella città che lo ha conosciuto come studente, politico, ora lo accoglie come profugo-immigrato. Ed è proprio durante questo esilio che il protagonista, mosso da una ricerca di ordine, decide di dedicarsi alla stesura delle sue memorie, ripensando all’infausto destino a cui il cittadino coloniale sembra destinato.

La prima edizione del romanzo – Wikipedia

Pubblicato nel 1967, I mimi è la storia di un uomo e della sua lotta feroce contro la spersonalizzazione prodotta dal modello dominante, un romanzo di denuncia contro l’oppressione di un intero popolo, contro la disfatta sociale e culturale di un processo di decolonizzazione troppo frettoloso. Ma è anche un tributo alla scrittura che, oltre a essere uno strumento salvifico di riflessione e autocritica necessario per ricomporre i pezzi dell’identità frammentata, diventa anche un’arma per liberarsi da una condizione di marginalità e ribaltare le politiche di rappresentazione della cultura dominante, «costringendoci a vedere la presenza di storie soppresse».

Giada D’Elia, nata a Milano nel 1992. Studia lingue e si laurea in traduzione letteraria. Le piace sottolineare i libri e riempirli di appunti, andare al cinema al mattino e fare colazione al bar. Scrivere la aiuta a riflettere

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